di ANNA PAOLA KLINGER e MAURO ANETRINI Dal primo marzo del 2023, con diversi mesi di anticipo sulla programmazione, è entrata in vigore la cosiddetta Riforma Cartabia.
Essendo il presente contributo meramente divulgativo, cercheremo di rendere comprensibili concetti giuridici molto tecnici, senza appesantirci nel dettaglio dell’esame, ma cercando di rendere l’idea di cosa questa riforma comporti. Ci perdoneranno, dunque, i lettori che fossero addetti ai lavori se, nello svolgere il compito che ci viene dato, potremo risultare approssimativi (ma, speriamo, mai imprecisi).
La riforma mira, tendenzialmente, a velocizzare e rendere piĂą agili ed uniformi i processi civili e i processi penali.
Questo, quantomeno, l’intento con cui in data 16 marzo 2021 la allora Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha costituito una Commissione per elaborare proposte di riforma – poi approvata nel settembre del 2021 e di cui – appunto – si è anticipata l’entrata in vigore al 28 febbraio 2023 con legge del dicembre 2022.
L’esigenza nasce da innumerevoli procedure di infrazione, di cui lo Stato Italia è indirizzario, sollevate dalla Corte Europea dei Diritti Umani (c.d. CEDU), per l’irragionevole durata del processo. L’anticipazione nasce anche e soprattutto dall’esigenza di soddisfare a breve i requisiti europei per accedere ai fondi del PNRR.
E come non rallegrarsi di una riforma rivolta a un tanto nobile fine, dunque?
Vediamo, per sommi capi, come è perseguito, questo fine. Vediamo soprattutto se viene raggiunto. Ma ancor più, vediamo se – per raggiungerlo – sacrifica altri principi sacrosanti in un giusto processo, o mette a rischio in qualche modo i diritti del cittadino.
Va da sé che quel che andremo a scrivere può essere solo oggetto di nostra – motivata – previsione, posto che l’analisi dei dati potrà avvenire solo a qualche mese dall’entrata in vigore della riforma, che, come detto, ora è molto recente.
Iniziamo dall’esame del processo civile: viene modificato il rito ordinario per il processo in primo grado (tanto in Tribunale che al Giudice di Pace), vengono modificate le condizioni di accessibilità al processo di appello e al processo per Cassazione, viene istituito il Tribunale unico per la Famiglia, viene incentivato l’utilizzo di procedure alternative di risoluzione delle controversie (mediazione ed arbitrato), vengono snellite alcune procedure relative alle persone, con anche deleghe di competenza ai Notai, viene modificata la procedura di esecuzioni e notifiche.
Evitiamo di dolerci per la forma con cui la riforma viene scritta, portiamo pazienza se, ad esempio, invece che riformare l’intero codice, vengono aboliti degli articoli ed altri vengono scritti in maniera difficilmente consultabile (abbiamo, per esempio, ben 71 articoli che si chiamano “articolo 473 bis” , non commi, articoli proprio). Portiamo pazienza se per qualche refuso viene ancora citata la vecchia Pretura – abolita nel settore civile dal giugno 1999. Peccati veniali, noi giuristi ci adatteremo a capire.
Invece, portiamo un po’ meno pazienza, se non sono previste chiare e idonee norme transitorie, che rendano comprensibile da quando certe novità trovano applicazione e cosa fare di procedure ibride, iniziate prima della riforma e che si concluderanno poi, o se certe norme non sono chiare affatto. Portiamo meno pazienza perché il rischio cui è esposto il nostro cliente, il cittadino, è che norme non chiare oggi portino a pronunce di inammissibilità o improcedibilità un domani – con pregiudizio del diritto del nostro assistito, che è invece la nostra unica missione.
Portiamo pazienza – ma sempre meno – se il nuovo rito unico civile è un affastellarsi di termini in un processo barocco, involuto, non chiaro – quando sarebbe stato sufficiente copiare (sì, copiare) il rito del lavoro, già in uso da decenni, rapido, sintetico, chiaro e che funziona perfettamente.
Non portiamo affatto pazienza, invece, se il benedetto Tribunale della Famiglia (una unica magistratura a ciò dedicata con una preparazione specifica) non è ancora stato istituito e non si sa quando verrà istituito, avendo così oggi una riforma – sul punto – completamente zoppa, nella quale – in attesa di un tanto – noi avvocati preghiamo di aver ben compreso chi sia, oggi, il magistrato destinatario delle richieste che andiamo ad avanzare.
Iniziamo ad inquietarci, invece, se in una riforma che deve prevedere solo invii telematici, molti uffici giudiziari ancor oggi non sono dotati degli strumenti tecnici a ciò necessari, e quindi la riforma di fatto non è applicabile, costringendo gli avvocati a depositare in cartaceo (e speriamo bene…) domande che dovrebbero essere svolte in telematico, cercando di raggiungere l’Ufficio destinatario telefonicamente, cercando di capire quel singolo Tribunale, quel singolo Giudice di Pace, cosa richiede per considerare adempiuto l’obbligo processuale.
Ci spaventiamo (per Voi) se oltre al codice dobbiamo consultare linee guida emessa da ogni Ufficio Giudiziario che interpreta a modo proprio quelle novità cui non sa dar corso pienamente. A tacere dell’impossibilità di procedere con le nuove norme all’Ufficio Notifiche, che non ha gli strumenti attuativi.
Ma ancora, potremmo considerare questi episodi “piccoli intoppi” nell’ambito di una più ampia riforma che portasse ai benefici cui mira.
Abbiamo semplificato il processo civile? Soprattutto, lo abbiamo reso celere?
Per alcuni adempimenti certamente sì.
Ma nel complesso la risposta è no.
No, perché la lunghezza del processo civile non dipende dall’aver (forse) abbreviato alcuni e pochi termini processuali agli avvocati con un nuovo, farraginoso rito.
Il processo civile dura anni perché non ci sono abbastanza magistrati e non ci sono abbastanza addetti di cancelleria. Chiunque abbia mai messo piede in un Tribunale, lo sa.
I ruoli dei magistrati sono carichi oltre il pretendibile e manca il personale di ausilio minimo per poter mandar avanti con regolaritĂ il backstage della Giustizia.
La riforma, semplicemente, non tiene conto di ciò. Facciamo un esempio: se un operaio con una carriola riesce a scaricare 80 carriole al giorno, portando ogni volta 100 kg, trasporta una media di 8 tonnellate al giorno. Per svuotare un camion da 25 tonnellate, impiegherà circa tre giorni. Due camion a settimana.
Se all’operaio (= giudice) mandiamo dieci camion (= fascicoli) a settimana, non è che ci metta meno. Semplicemente accumulerà ritardo e farà giacere i camion in piazzale (= i fascicoli in cancelleria). A Venezia, ad esempio ci sono solo due Giudici di Pace per tutta l’area. I decreti ingiuntivi, che mediamente sono emessi in 7/10 giorni, sono fermi a luglio del 2022.
Sì, ci si obietterà , ma è stata prevista l’istituzione dell’Ufficio del Processo, vale a dire l’assunzione di laureati che affiancheranno i magistrati. Ora, ribatto io, tremo al pensiero di una sentenza di fatto scritta o comunque preparata da un laureato con laurea triennale in economia o scienze politiche (eh già , non è richiesta la laurea in giurisprudenza, né la laurea magistrale, né un minimo di esperienza, nemmeno di vita).
Da ultimo, sull’altare della velocità (rectius della fretta) abbiamo sacrificato le udienze: gli avvocati sono spariti, nella riforma, dal Tribunale. Le udienze si terranno o in forma scritta (brevi note, mi raccomando!) o al più, nei casi più fortunati, in via telematica.
Non andremo più a portare la Vostra voce ai magistrati che decidono di voi e delle vostre vite, non spiegheremo più in contraddittorio con controparte perché le nostre ragioni sono buone e le loro no, non potremo rappresentare a voce il contenuto di memorie che, spesso, rendono impersonali e tutti uguali i vostri casi e i vostri problemi.
Sul versante penale, la riforma si è sostanzialmente mossa in tre direzioni.
In primo luogo, non diversamente da quanto si è fatto per il processo civile e con l’intento di stabilizzare le modifiche procedurali introdotte per necessità ai tempi del Covid, la novella ha introdotto nuove regole che prevedono la informatizzazione delle notifiche e la digitalizzazione dei fascicoli, abbandonando un sistema ormai vetusto ed incompatibile con le esigenze di accelerazione dei giudizi. L’intenzione è, senza dubbio, apprezzabile e, con grande probabilità , si rivelerà , anche efficace, come dimostrano i risultati raggiunti nell’ultimo periodo.
Il secondo filone, decisamente più interessante, rappresenta la logica evoluzione di una tendenza legislativa che persegue due obiettivi: l’incremento del catalogo delle pene, che dovrebbe produrre effettivi deflattivi sul numero dei processi pendenti.
Qui, occorre spendere qualche parola in piĂą per dare conto a chi legge delle novitĂ introdotte dalla riforma di cui parliamo. Il sistema sanzionatorio del nostro ordinamento, fatta eccezione per gli aggiustamenti relativi alle modalitĂ di espiazione, è rimasto identico a se stesso dal 1930, da quando, cioè, venne emanato il codice penale tutt’ora vigente. Nella impossibilitĂ , nonostante i numerosi tentativi compiuti, di sostituire l’impianto codicistico di matrice fascista, il legislatore ha deciso di ampliare comunque il ventaglio delle sanzioni previste dalla legge e ha attribuito al Giudice la possibilitĂ di sostituire la pena detentiva contenuta entro certi – e determinati – limiti con sanzioni pecuniarie, semilibertĂ e detenzione domiciliare. Queste pene sono definite “sostitutive” in quanto, come dice la parola, si sostituiscono alla pena da sempre inflitta all’esito del processo penale. Il disegno della riforma, è bene ricordare, si inserisce in un filone timidamente affiorato all’inizio degli anni 2000, quando, nell’attribuire competenze penali al Giudice di pace, si era introdotta, ad esempio, la pena della permanenza presso il domicilio. Un segnale piĂą incisivo, invece, era stato lanciato con l’introduzione nel sistema – anche in questo caso, per reati di minore gravitĂ – della messa alla prova, istituto nel quale alla effettuazione di lavori socialmente utili consegue l’estinzione del reato. Parallelamente, la rilevazione dei dati statistici aveva consentito di constatare che, per un verso, la previsione di condotte riparatorie produceva effetti positivi e di certo piĂą efficaci di quanto non accadesse con le pene tradizionali, mentre, per altro verso, generava effetti di deflazione sul carico di fascicoli che intasano gli uffici giudiziari generando lungaggini ed arretrati di difficile smaltimento.
Sebbene i puristi del dritto penale avrebbero preferito un intervento piĂą radicale e risolutivo – il codice, diciamolo chiaramente, pur tecnicamente perfetto, non esprime i valori di una societĂ democratica – l’aggiustamento operato dalla riforma risponde, senza dubbio alle indicazioni impartite dalla Costituzione in ordine alle pene, che non possono esaurirsi nella restrizione in carcere o nel mero obbligo di versare somme di denaro. In altri termini, anche il nostro legislatore ha finalmente compreso che le condotte riparatorie e le misure alternative alla detenzione carceraria incidono significativamente sul tasso di recidivanza, che risulta piĂą contenuto proprio nei casi in cui la reazione punitiva è meno rigida. Naturalmente, ripeto, questo vale per i reati di minore gravitĂ , per i quali, il piĂą delle volte, non sembra affatto necessario, e non sarebbe neppure giusto, imporre il carcere come una retribuzione per l’illecito commesso.
Siamo al terzo punto. Ampliato il catalogo delle pene, era indispensabile occuparsi, in modo organico, anche dei profili riparatori, per comporre le lacerazioni prodotte dalle condotte criminose. Di qui, l’impianto della giustizia riparativa, che prevede, a lato del processo penale (e anche in fase esecutiva), l’applicazione di procedure di mediazione il cui scopo, appunto, è quello di indurre consapevolezza nelle persone coinvolte nel reato – autori, ma anche vittime – per conseguire il superamento delle cause e ristabilire l’equilibrio compromesso. La legge, in questa parte, ci sembra rispondere alle esigenze rilevate, sia per quanto concerne le modalitĂ concrete previste, sia per le competenze richieste negli operatori ai quali sarĂ affidato il gravoso e delicato compito di favorire la riparazione. Su questo, dunque, sospendiamo il giudizio e ci riserviamo di valutare i risultati prodotti dalla pratica applicazione del nuovo istituto.
Molto piĂą critici, invece, dovremmo essere verso alcune modifiche apportate al processo. Pe rendere chiaro il nostro pensiero, tuttavia, dovremmo calarci nell’analisi di profili tecnici che, in questa sede, creerebbero inutile confusione ed annoierebbero il lettore. Diciamo, però, che la riforma, forse scritta con eccessiva fretta, non è affatto un esempio di tecnica legislativa, ma sottolineiamo anche che, come per il processo civile, il desiderio di raggiungere quella velocizzazione dei giudizi si è tradotta in norma che, alla prova dei fatti, rendono l’attivitĂ dei difensori una sorta di percorso ad ostacoli finalizzato ad eludere le eccessive sanzioni di inammissibilitĂ introdotte. Ecco: questo non va bene. Un Paese che aspira ad adeguarsi ai principi di democrazia, non sacrifica sull’altare dell’efficientismo – conseguito in qualunque modo – i diritti della difesa e non dissemina di trappole il sentiero della difesa. Di questo, siamo certi, dovremo riparlare.
Non crediamo, noi e la maggior parte degli avvocati, che questa riforma sia stata cosa buona per il cittadino, nĂ© – onestamente – utile per il comparto Giustizia. A me, a noi, pare fumo negli occhi per l’Europa.
A che prezzo, lo vedremo.
