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Comincia a pesarmi, e non poco, l’insoddisfazione permanente verso il tempo presente che domina nei miei simili; nel loro valutare la vita collettiva e sociale, e di conseguenza, seppure molto confusamente, in qualche modo anche politica. La politica, si sa, non brilla per farsi accompagnare da programmi dettagliati sul futuro e quindi, se non ci sono programmi, può apparire che tutto vada bene nel presente, e che semmai l’unico programma implicito consiste nell’amministrare bene il presente. E siccome l’orientamento politico dovrebbe essere scelto dagli elettori, quindi tutto bene allora?

Affatto, tutto male, par di sentire il ciclista tosco Gino Bartali “gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Nel chiacchiericcio sociale e sociopolitico, un po’ a tutti i livelli, sia nella quotidianità a-politica, sia nella sfera pubblica e massmediatica, “gli è tutto sbagliato”. A vari livelli l’insoddisfazione è palpabile in permanenza e si avverte diffusa l’ansia non tanto di dover cambiar qualcosa, il che ci può stare, ma addirittura e radicalmente il mondo intero.

A questa amplissima scala planetaria, ma via via per mille rivoli fino al marciapiede sotto casa, il presente così com’è non va mai bene.

D’altra parte, generazioni intere si sono nutrite, a loro insaputa e con mille mediazioni e riduzioni, della vulgata della nota, per quanto a pochi, massima marxiana, tratta dalle “Tesi su Feuerbach”, che recita: “I filosofi hanno finora solo interpretato diversamente il mondo; ma ora si tratta di trasformarlo” (tras-formarlo, si noti, non ri-formarlo, e c’è una bella differenza, su cui varrà la pena tornare). Oggi questa massima, che ha nutrito inconsapevolmente anche chi marxista o marxiano o rivoluzionario non si è mai sognato di essere, reputandosi magari un mite moderato, trova oggi una sua più elegante e persino più convincente e aggiornata espressione nel motto, tratto da un celebre docu film e poi da un più recente libro: “un altro mondo è possibile”. “Un altro”, questo non va bene, cioè.

Implicito, direi addirittura scontato, per il motto, il giudizio spregevolmente negativo sul presente, tant’è che non viene neanche nominato. Però si faccia caso: persino il passato, per costoro, rispetto al presente sembra di gran lunga migliore, tant’è che sovente si ha l’impressione che questo benedetto “altro mondo possibile” sia quello di un ritorno al passato. Remoto, però, in un vortice di de-crescita che porta a ritroso verso l’annullamento dell’antropocene, fino a un placido eterno olocene; l’epoca nella quale saremmo ancora se la scimmia che è in noi non fosse scesa dagli alberi con la fissa di razionalizzare la natura. In un crescendo rossiniano, certo in non pochi casi sproporzionato e con molte stecche, e che, dal far le punte alle frecce e dall’invenzione della ruota, porta fino all’elettronica applicata all’esistenza intera.

Per i sacerdoti di “un altro mondo possibile” non c’è differenza alcuna infatti, se non nominale, con i cosiddetti, eufemisticamente, conservatori, da cui gli insoddisfatti del presente differiscono prevalentemente per una questione nominale, anche se non saprei come chiamarli, di certo non progressisti. Perché il progresso è una cosa seria. Tuttavia, i conservatori veri, rappresentati politicamente nel pianeta dalle destre di tutte le latitudini, dovrebbero essere, per logica, i più strenui difensori del presente, i soddisfatti del presente; che, per l’appunto, vorrebbero con-servare intatto, anche per sempre, potendo. Come quando si congela nel freezer un pesce o una carne per conservarli così come sono nel presente, e decongelandoli nel futuro, e facendo del presente il futuro. E invece no. Anche a loro, ai conservatori veri il presente non va per niente bene, non c’è nulla da congelare e scongelare del presente, che va invece cambiato drasticamente ripristinando tutte le cose buone del passato. Lo si sente nell’insoddisfazione del conservatore vero di turno che incontri ad una cena o come insospettabile amico d’infanzia. Anche per loro “un altro mondo è possibile”, non questo, ma quello di un indistinto ‘prima’. Ci vedete differenze tra le due tipologie? Io no.

Bisogna essere sinceri: lamentoso sul presente sono anch’io, anche se è un lamento molto silente, tra me e me, che evito di esternare per non assimilarmi alla massa lamentosa. E la cosa m’infastidisce lo stesso, pur nel silenzio, nel momento in cui me ne rendo conto. Per non andar lontani penso alla mia città. Della città certe cose presenti non stanno bene per niente neppure a me, cose varie e persone al governo cittadino nella politica e alla testa di ciò che conta nella società e nella cultura e persino l’opposizione politica non è che mi garbi punto, la trovo sovente propagandistica e pregiudiziale; e tuttavia le ‘cose’ e la realtà della città che non mi stan bene non sono mai così tante e generalizzate come nelle narrazioni che su Venezia circolano, a parer mio stereotipate, conformiste e inzeppate di luoghi comuni di ogni parte politica, sociale e culturale.

Estendo anche a Italia, Europa e Mondo molte cose che in cuor mio non soddisfano e di cui colgo ovviamente anche lati di drammaticità, che non manca mai. Anche se poi l’anti-italianismo mi urta i nervi, e tanto, anche se poi di questa Europa vedo molto più i meriti che i demeriti, anche se poi del Mondo tendo sempre a vedere il bicchiere metà pieno. E non credo per sciocco ottimismo. No, non credo proprio.

Mi sono chiesto infatti più di una volta da dove nasce questo fastidio che provo verso gli insoddisfatti del presente, che, sia chiaro, hanno piena legittimità, anzi la loro legittimità, e lo vedremo, fa parte delle cose buone. E ho concluso che il fastidio nasce da una sensazione che si è fatta strada ed è diventata consapevolezza: il tempo presente, globalmente inteso, non mi dispiace, e con esso mantengo un rapporto, come usa dire adesso, empatico. E non mi dispiace perché non posso non confrontarlo con il passato, che conosco per semplice apprendimento in quei libri di storia sufficientemente approfonditi dal non fermarsi a date e battaglie. Nonostante i numerosi fastidi che mi provoca l’umanità che mi circonda, per il suo petulante quotidiano “dissenso per il gusto del dissenso”, e nonostante anch’io poi a momenti stia dentro al mazzo degli insoddisfatti, reputo il presente del pianeta come un tempo in cui l’umanità nel suo insieme sta molto meglio che nel passato anche relativamente recente, avendo fatto un cammino straordinario di promozione e di elevazione della propria condizione; se per questa si intende salute, sicurezza, scienza conoscenza, e anche, o yes, un certo qual benessere, seppure ancora molto mal distribuito, e persino una maggior approssimazione alla ancora lontana, ma meno lontana di prima, felicità. In una condizione comunque di crescente libertà, se per questa s’intende anche, ma non solo, l’essersi liberati, almeno in parte, dalle catene, chiamiamole così, dei vincoli che la natura con la sua oggettiva e neutra brutalità impone. Le disuguaglianze sono aumentate nel pianeta oggi rispetto a ieri? Forse sì. Ma il plafond del più basso è, in tutti i dati economici e sociali, più avanzato oggi rispetto a ieri, anche se è più distante dal più alto. Ognuno valuti se è meglio o peggio. Io la mia l’ho già detta.

Ecco. L’ho detta. Mi attendo reazioni di indignazione, ma le ho messo nel conto, e anche l’indignazione permanente mi fa venire l’orticaria, perché è un altro di quei diffusi atteggiamenti moralistici di chi sa con nettezza che cos’è il bene e il male, sempre alfiere del bene di cui è portatore vessillifero autoreferente. E l’indignazione si accompagna spesso e volentieri al conformismo del “dissenso per il dissenso”.

Non starò qui a fare citazioni di dati e paragoni passato/presente sul sociale e sulla geopolitica del pianeta – a favore del presente, ben s’intende – perché ben noti al  lettore che frequenta la nostra testata. Non solo: dentro a questo mondo, se non per tutti, per molti meno malvagio del passato, c’è una parte ormai, minoritaria quanto si vuole, ma ancora potenzialmente centrale per la promozione umana, che si mantiene in una condizione che solo in apparenza può apparire di mero privilegio. Intendo riferirmi a quella parte del pianeta che, per semplificazione, viene chiamata Occidente, un’identità politica culturale e sociale poggiante oggi sull’asse nordatlantico tra Europa e Nordamerica. Sopita e dormiente come identità, ha riscoperto sé stessa negli ultimi anni a seguito della provocazione attuata dal russo Putin nei suoi confronti, nell’assimilazione guerra all’Ucraina=guerra all’Occidente. Anche in questo caso non starò a scomodare la storia e persino l’attualità della geopolitica per ricordare ed enumerare foscolianamente  di che “lagrime grondi e di che sangue” la storia dell’Occidente verso il resto del pianeta e verso gli abitanti di sé medesimo, di come il suo modello di sviluppo, attraverso un buon numero di schifezze metaforiche e concrete, abbia ed abbia avuto pesanti, a volte catastrofiche controindicazioni e responsabilità nel passato, in non pochi casi continuando ad averle nel presente (il tema ‘migrazioni’ e il ‘tema crisi ambientale’ stanno lì a dircelo, nel presente)

Epperò.

Epperò, nonostante e nonostante e nonostante e….nonostante, me lo tengo stretto al petto lo stesso questo Occidente, perché continua a rappresentare l’unico assetto complessivo in grado di riformarsi tenendo in piedi il pilastro sociale su cui si regge e che continua a rappresentare un modello e a indicare la strada: la società aperta.

Teorizzata dal filosofo di origine austriaca Popper, ha avuto una sua concreta realizzazione soprattutto in Europa a partire dalla seconda metà del ‘900. Popper sosteneva, e ha avuto ragione nei fatti, che le società collettiviste e tribali non distinguono fra leggi arcaiche e costumi sociali, cosicché in quelle società si è meno propensi a dubitare delle tradizioni, a cui si dà un valore di magia e quasi sacrale. Le società arcaiche premoderne non andavano oltre a questi limiti, che invece gradatamente e a tratti anche a strappi, la cultura politica, ma direi la società stessa espressione di quella cultura, dall’illuminismo in avanti ha cominciato a superare.

La società aperta è contrassegnata cioè da una distinzione fra la natura e la legge creata dall’uomo insieme ad una crescita nella responsabilità personale e nell’obbligo di rispondere delle proprie scelte. E’ la libertà come valore fondativo anche di un umanesimo sociale. E comunque una società dove i petulanti insoddisfatti possono declamare le loro insoddisfazioni senza polizie alle spalle. Dove, senza catene di nessun tipo, gli insoddisfatti no vax, gli insoddisfatti pacifisti, i contestatori di tutto, persino gli odiatori nei social possono operare le loro tesi. E dove i più feroci oppositori delle libertà, in libertà riescono nella capriola di volerla negare. Tutte cose che nelle società tribali di ieri e di oggi sarebbero loro semplicemente impedite.

Non per caso i totalitarismi novecenteschi, primariamente soprattutto antiliberali, si allacciavano più o meno apertamente al tribalismo collettivista del mondo arcaico e oggi le democrature minacciose e sparse per il pianeta, anch’esse ferocemente antiliberali – quelle si fan parte di un presente che non mi piace – intenderebbero restaurare quel tribale e mortifero ‘spirito di gruppo’. La stessa minaccia antiliberale che, del resto, troviamo all’interno delle stesse società aperte in certi movimenti politici, molti di destradestra, ma non solo, che a tratti, anche ripetuti, riescono andare (democraticamente…) al governo. E non vi dico la descrizione nefanda che l’intellettuale conservatore italiano Marcello Veneziani fa della globalizzazione, la proiezione planetaria della società aperta occidentale. Che invece non nega lo spirito collettivo e la promozione sociale (l’idea e la prassi di welfare è nata in questa società aperta, mica altrove), ma mette al centro, più che l’individuo, direi, il soggetto, meglio, la persona. E anche il suo diritto ad un’economia planetaria.

Certo l’individualismo spinto, deformazione di questo soggettivismo, è sempre in agguato e foriero di pericolosi egoismi diffusi, ma è un rischio che la società aperta coscientemente corre, perché ha nel suo dna gli anticorpi per frenarli e combatterli attraverso la sua riformabilità. In fondo non è vero che non pensa al futuro, ma tiene ferma la barra sulla sostanza del presente, cioè sé medesima. In politica le riforme sono infatti il suo sale e il pane quotidiano. E, del termine riforma se ne osservi la struttura etimologica: ri-forma=ridò forma nuova. Alla sostanza che resta. La sostanza, la società aperta, resta immutata, la forma della sostanza deve cambiare in continuità, anche nelle leggi della politica, perché i tempi cambiano o, meglio, stanno sempre cambiando (“the times they are a-changin” cantava nel 1963 quel liberale a sua insaputa che era il cantautore statunitense Bob Dylan). La società aperta è l’unico assetto in grado di riformarsi per affrontare le sfide che ci stanno davanti. Ma ce l’abbiamo già qui nel presente, in questo presente con potenzialità riformatrici..

C’è un mantra ricorrente tra i fustigatori del presente, un luogo comune perfetto per chi vuole semplificare la realtà a sua immagine, e recita: “i nostri figli per la prima volta (sic, la prima volta) stanno conoscendo un mondo in cui staranno peggio dei padri”. E il mantra è, neppure a dirlo, attribuito all’Italia, – l’antitalianismo è una cifra di molti insoddisfatti (e a suffragio citano i giovani cervelli italiani costretti ad emigrare) – ma ci si spinge ad estenderlo all’Europa, di cui ugualmente si diffida non poco. Sarà pure tutto vero, i luoghi comuni hanno sempre un fondo di verità, anche se in questo caso il mantra si regge molto su sensazioni, impressioni, percezioni, sentito dire (” il nipote della cugina della sorella della mia cognata è stato costretto ad andare a lavorare a Londra dove guadagna il quadruplo, ma che dico, il quintuplo, rispetto a quello che gli avrebbero dato qui”); e molto, ma molto meno, su contabilità di dati, incrociati con tutte le varianti scientifiche del caso. Peccato, comunque, che nell’epoca giovanile dei settantenni attuali, cioè dei padri attuali, si dicesse esattamente la stessa cosa e che l’idea di essere in una crisi senza sbocchi ricorreva, eccome, anche allora (tengo i ritagli dei giornali).

Perché i denigratori del presente si autogenerano e si passano il virus tra le generazioni. Loro stanno sempre male. A parole.

Ipocondriaci sono, altroché.