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29 Novembre 2020La musica è sempre stata una delle fervide manifestazioni della civiltà veneziana e una forma di svago imperdibile per i viaggiatori curiosi. Da metà Settecento, alcuni letterati scoprono nelle cantate locali la capacità di esprimere un’essenza misteriosa, nascosta e vitale della stessa città.
Da quel momento tra Venezia e la musica si liberano nuove forme di associazione, e persino, in alcune opere, di simbiosi.
Tutto comincia con Jean-Jacques Rousseau, filosofo, scrittore e musicista, che arriva a Venezia nell’estate del 1743 come segretario dell’ambasciatore Montaigu. Con entusiasmo Rousseau si dedica a frequentare concerti pubblici e privati; insiste e ottiene di vedere le famose putte all’Ospedale dei Mendicanti, rimanendone deluso per la mancanza di quel fascino che le voci facevano immaginare (“una musica (…) che non ha pari né in Italia, né nel resto del mondo”[1]); acquista per pochi soldi una bambina, Anzoletta, e le insegna a suonare la spinetta; i canti dei gondolieri lo colpiscono al punto che nelle Confessioni[2], molti anni più tardi, scrive che gli sembrava di non aver mai sentito cantare prima. Nel Dizionario musicale dedica la voce Barcarolles[3], che fino ad allora indicava un generico canto di mare o su barca, specificatamente al canto dei gondolieri, che pur affinando il gusto nei teatri, mantengono la semplicità e la naturalezza del canto.
Per la prima volta le melodie dei gondolieri, tra cui probabilmente rientravano anche quelle degli altri barcaioli, vengono definite “naturali”, quasi fossero un’emanazione del paesaggio lagunare.
Una quarantina d’anni dopo, Goethe, sulle tracce di Rousseau, descrive come i gondolieri si chiamino l’uno con l’altro per mezzo di strofe cantate: “La voce corre sul mare, nel silenzio della notte; la sente un altro in lontananza, il quale conosce la melodia, e che comprende le parole, e risponde col verso che segue; ripiglia il canto il primo e così di seguito, in guisa che l’uno è sempre l’eco dell’altro.” E aggiunge che il canto ha “un’impronta di mestizia” e “in certi momenti commuove al punto di far sgorgare le lacrime.”[4]
Se in Rousseau e in Goethe il canto dei gondolieri è ancora una forma di poesia spontanea che si sviluppa in armonia con la vita di pescatori e barcaioli nella laguna, per Wagner quel canto è tanto antico quanto la città stessa, e ne è la più immediata espressione.
Nel 1857, dal balcone di palazzo Giustinian sul Canal Grande, affittato per lavorare al suo Tristano, Wagner ascolta le “melodie malinconiche cantate dalle voci potenti e sonore dei gondolieri”, che lo “commuovono in modo sublime”, definendo con la parola “sublime” un sentimento molto più acceso rispetto alla commozione di Rousseau e Goethe. I rumori della laguna, i fruscii dell’acqua, il colpo del remo che la fende, i richiami dei barcaioli sono per Wagner lo stesso respiro della città. Il compositore rifugge le distrazioni offerte dai tesori artistici e dalla bellezza di Venezia per dedicarsi completamente al Tristano e trasformare in musica i suoni misteriosi e antichi che lo emozionano. A Venezia, per Wagner “tutto è orecchio.”[5]
La corrispondenza tra Venezia e la musica da parte di Nietzsche è ancora più radicale. Suggestionato dalle lunghe ore trascorse a suonare il piano insieme a un amico durante il soggiorno veneziano, nel 1887 scrive in una lettera[6] ad un amico che non riesce più a fare distinzioni tra Venezia, la primavera e la musica, che tutto questo l’ha vissuto insieme. Tre diversi momenti di felicità accadono simultaneamente nel ricordo del filosofo tedesco, in un’identificazione fantastica e spirituale della città con la musica.
Più tardi, nell’opera autobiografica Ecce Homo, Venezia e la musica diventano un’unica realtà: “quando cerco un’altra parola per ‘musica’, trovo sempre solo la parola Venezia”[7], scrive nella prefazione a una sua poesia. Nella coincidenza delle parole ‘musica’ e ‘Venezia’, ogni differenza tra i sensi viene annullata: non c’è più l’occhio a cercare lo splendore della città e nemmeno l’orecchio a percepire le sue sonorità. Venezia è musica; smaterializzata e allo stesso tempo pura espressione di gioia che coinvolge tutti i sensi.
In Wagner e in Nietzsche, l’essenza di Venezia viene scoperta in un’altra dimensione, che non è quella dei suoi magnifici palazzi o delle opere d’arte ma in una realtà nascosta che solo la sensibilità dell’artista intuisce e riconosce.
Il tema della città ‘metafisica’ torna in Giuseppe Sinopoli, l’indimenticabile direttore d’orchestra, compositore e saggista veneziano che nel 1989 donò ai fortunati spettatori della Fenice una memorabile esecuzione del Parsifal di Wagner.
Testimonianza di quei giorni di prove e di riflessioni è un testo pubblicato nel 1991[8] dove il maestro, uscendo dal teatro una sera dopo le prove, ancora pervaso dal tema dell’Errore dell’opera wagneriana, s’incammina tra calli e campi apparentemente senza una meta.
Nel buio e nel “silenzio misterioso che solo a Venezia è possibile” (17), accompagnato dal Leitmotiv di violoncelli e primi violini che ancora “risonava nella mia mente” (17), Sinopoli intraprende un percorso che presto diventa “un viaggio iniziatico” (23). In un itinerario che procede per quadranti – da sud-est a est-nord, nord-ovest e ovest-sud -, il maestro scopre gradualmente negli elementi naturali e negli arredi urbani della città associazioni con religioni e culture arcaiche che la rivelano come un insieme di simboli esoterici.
La doppia spirale del Canal Grande attorno al quale è disposto il labirinto urbano, i canali, la conformazione delle isole ma anche le cisterne, i ponti, le chiese o le calli vengono visti per la prima volta in relazione tra di loro in un complesso sistema di corrispondenze simboliche.
Al centro della laguna, labirinto “vivente” (42) con l’acqua che agisce e vive al suo interno, si trova Venezia, “rievocazione di una Avallon lontana e irrimediabilmente perduta” (113), luogo di passaggio tra vita e morte e tra morte e nuova vita. Venezia si rivela, per Sinopoli, luogo di rinascita, una “onirica riapparizione in Occidente dell’Ultima Isola” (113).
Il “viaggio misterioso” da “compiere fino in fondo” a cui aveva dato inizio il suo “smarrimento” (73) è anche un viaggio sulle tracce di Parsifal alla ricerca del Graal per “ritrovare ciò che era perduto o ciò che era nascosto” (88).
Se Wagner ha bisogno del buio per oscurare la seducente bellezza di Venezia e permettere al suo orecchio di compositore di riconoscere sonorità antiche e immanenti alla città, al contrario Sinopoli si lascia condurre da una musica interiore, quella di Wagner, che lo porta a scoprire la natura sacra di Venezia e della sua “dimensione simbolica” (77) dove è possibile una “iniziazione misterica.” (125)
In Stabat Mater[9] di Tiziano Scarpa, romanzo ambientato tra le putte all’Ospedale della Pietà all’epoca di Vivaldi, la musica è la potente protagonista nella quale si trasfigurano e prendono vita sia la giovane Cecilia che la città stessa.
Scarpa evoca con sensibilità la vita delle orfane attraverso la protagonista sedicenne che nella sua solitudine “d’acciaio” scrive lettere alla madre sconosciuta, le chiede conto con rabbia dell’abbandono e allo stesso tempo la prega di venirla a prendere.
Cecilia descrive le sue compagne, piene di ardore per la vita e che si devono contentare di guardare le ciocche dei capelli tinti delle ragazze ricche che vengono a lezione, o di cogliere pochi frammenti di città da dietro la tenda della barca nelle rare uscite dall’Ospedale.
Le putte vivono senza nessuna libertà se non quella di sognare un’offerta di matrimonio, anche con un vecchio, pur di scoprire la vita all’esterno. Sono adolescenti di talento, forgiate per essere musiciste, come dice Cecilia: “Io sono stata allevata con la musica, fin dal primo giorno mi hanno esposta a cori e archetti e corde e fiati e casse armoniche, il mio corpo ha preso forma intorno a questa fibra musicale, a questa colonna di vertebre sonore.” (71)
Quando arriva don Antonio Vivaldi a sostituire il vecchio maestro, cambia metodo di insegnamento e chiede alle ragazze di suonare “con l’immaginazione” (100).
Le sue istruzioni, come si possono trovare negli spartiti originali di Vivaldi, indicano rumori e momenti che loro però non conoscono: “si danza prima del tramonto, uomini e donne fanno festa” dice lui. “- Don Antonio, che cos’è una festa da ballo?” (101) Ancora Vivaldi: “il cuculo e le tortore insistono, i passeri fanno baruffa, il vento si allunga (…) – Spaccate il bel tempo! Più forte! Siete la tempesta! Diventate burrasca, ragazze, diventate burrasca!” (102)
Le parole di Vivaldi accendono il desiderio delle musiciste che cercano nelle note emozioni mai avute, inventano stati d’animo ai quali possono avvicinarsi solo attraverso la musica: “Mi sono commossa di potermi trasformare in così tanto” (102) (…) Immagino come l’hanno presa gli ascoltatori. Dalle nostre furiose balaustre musicali è caduta pesantemente la grandine. Sulle loro teste è stata gettata musica a secchiate, hanno ascoltato tutto quello che può vivere un essere umano in un anno (…) ma noi che le suonavano non le abbiamo semplicemente ascoltate, queste cose ci hanno attraversate. (104)
I corpi di Cecilia e delle altre putte si piegano sullo spartito, diventano tutt’uno con i loro strumenti, si trasfigurano in musica per vivere attraverso di essa quello che a loro è negato. Davanti all’assolutezza di quella esperienza, Cecilia si convince che esistono solo due possibilità: quella di fondersi completamente con la musica, o di cercare quelle sensazioni mai provate prima altrove. Questo ‘altrove’ non può però essere Venezia, dove persino i moribondi chiedono insieme all’estrema unzione di assistere per l’ultima volta a un loro concerto. Per non lasciarsi divorare dalla musica, Cecilia deve abbandonare Venezia.
Nel breve romanzo di Giuseppe Berto, Anonimo Veneziano[10], fin dalla prima pagina il tema è quello della morte di Venezia, visibile “nei marmi e nei mattoni, nei pavimenti avvallati, in travi e architravi ed archi sconnessi.” (11)
La storia racconta l’incontro tra un oboista alla Fenice e la moglie che lo ha lasciato anni prima e si è trasferita a Milano. L’iniziale diffidenza di lei viene meno nel corso della giornata e insieme i due coniugi ormai separati, percorrono i luoghi del loro amore giovanile. Lui alterna momenti di tenerezza ad altri più aspri che sembrano specchio della frustrazione del suo fallimento come marito, come padre e come musicista. Un momento felice lo trova nella collaborazione con alcuni ragazzi diplomati al conservatorio per registrare un concerto di oboe e archi. Solo più tardi confessa alla moglie di avere poche settimane di vita per un cancro al cervello e che quella registrazione è il suo lascito per il figlio: “È tutto ciò che resterà di mio, dei sogni, delle ambizioni.” (47)
Nell’esecuzione del concerto di Alessandro Marcello, un compositore rimasto anonimo fino a pochi decenni prima, si condensa il suo testamento spirituale: l’amore per la musica, la professione di oboista, e Venezia stessa, che vive di persone qualunque come lui: “Tutti noi, in fondo siamo anonimi veneziani”, dice, facendo vibrare nelle sue parole l’autocommiserazione di chi cerca conforto nelle sfortune di personalità più capaci. Nelle stesse parole, però, riverbera anche la forza che continua ad animare la città e che si esprime attraverso figure celebri e anonime.
Ogni riga di questo romanzo parla di Venezia: i nomi delle calli, dei campi, delle trattorie; i bar, la marea, i palazzi. Ma negli occhi del protagonista è destinata a sparire come Ninive, Babilionia e altre città del passato. “Per il momento la città manteneva nel canalgrande la sua splendida esibizione di vita, ma la morte stava a sonnecchiare in qualsiasi rio confinante (…)” (40). Vita e morte se la contendono, con la stessa tensione che lui sente dentro di sé: “Non potrei aspettare la morte in una città diversa da questa. E non perché vi sono nato e vissuto, o perché la amo e la odio, ma perché le appartengo, come fossimo una cosa sola.” (86)
Eppure in questa atmosfera permeata di disfacimento, proprio suonando il concerto di Alessandro Marcello, il protagonista compie un atto di ribellione verso la morte. Quando i ragazzi sono pronti con gli strumenti in mano “li guarda ad uno ad uno, Giulio, Caterina, Sergio, Ignazio e via via tutti gli altri (…). “ Li chiama con il loro nome, uno per uno, sottraendoli all’anonimato: in quel momento sono presenti e “hanno fiducia in lui”, aspettano il suo gesto iniziale. A quello sguardo lui risponde: “sono pronto” (116).
“Al suo cenno gli archi cominciano, dapprima appena percettibili, poi più sicuri nei lenti accordi di attesa.” (116-117) Il protagonista sa che insieme a lui se ne va “tutto ciò che è già vissuto abbastanza”, ma quei ragazzi che suonano con lui, che accolgono in quel momento il suo testimone, sono la nuova generazione di veneziani che continueranno a far vivere la città, nonostante tutto.
Alla fine anche il protagonista di Berto compie una scelta: pur non potendo fare a meno di identificarsi con una città che muore con lui, si lascia andare al flusso di quella musica che attraversa la storia di Venezia, dai fasti di un tempo a tempi meno fortunati come quelli a lui contemporanei.
Nei testi di Sinopoli, Scarpa e Berto la musica assume un potere salvifico verso i protagonisti o la città stessa. In Sinopoli è la musica di Wagner che lo conduce alla rivelazione di Venezia come luogo mistico di rinascita; in Scarpa Cecilia scopre la forza della vita mentre suona; davanti alla scelta di annullarsi nella musica o di abbandonarla a favore dell’esperienza reale, decide per la seconda; in Berto il protagonista, convinto di essere destinato a morire insieme a Venezia, attraverso la musica mette il passato e il futuro nelle mani dei giovani veneziani.
Se questa potesse essere una ricetta contro la sempre paventata morte di Venezia, allora mi augurerei più musica per la città; che si restauri il Conservatorio, che si concedano spazi interni e all’aperto per i musicisti, che si riapra il Teatro a Fondamenta Nuove.
Forse anche la musica contribuirà a salvare Venezia.
[1] Jean Jacques Rousseau, Le Confessioni, versione online: http://sentieridellamente.it/files/rousseau-le-confessioni.pdf. Libro settimo.
[2] Jean Jacques Rousseau, Le Confessioni, vedi nota 1.
[3] Jean Jacques Rousseau , VOLUME 9. Dictionnaire de musique, in Collection complète des oeuvres, Genève, 1780-1789, vol. 9, in-4°, édition en ligne www.rousseauonline.ch, version du 7 octobre 2012.
[4] Johann Wolfgang Goether. Italienische Reise, 6 ottobre 1786. Insel Verlag, Frankfurt, 1998. Pag. 112-113. Traduzione in italiano da: Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87, Augusto di Cossilla. F. Manini,Milano, 1875. Versione online open source: https://it.wikisource.org/wiki/Ricordi_di_viaggio_in_Italia_nel_1786-87/Parte_I/Venezia
[5] Richard Wagner, Tagebuchblätter und Briefe 1853-1871. Berlin: Alexander Duncker Verlag, 1904. 5 September 1858.
[6] Friedrich Nietzsche, “Frühling, Venedig und Ihre Musik weiß ich nicht mehr auseinander zu halten – wozu auch! Ich habs zusammen erlebt!” (a H. Köselitz, 19.04.1887) Nietzsche – Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe. Bd. Hg. G. Colli und M. Montinari. Berlin – New York: Walter der Gruyter, 1975 Bd. III.5, pag. 60.
[7] Nietzsche, “Wenn ich ein andres Wort für Musik suche, so finde ich immer nur das Wort Venedig. Ecce Homo. Warum ich so klug bin. In: Nietzsche – Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe. Bd. Hg. G. Colli und M. Montinari. Berlin – New York: Walter der Gruyter, 1975 Bd. VI, 3, pag. 289.
[8] Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio, Venezia, 2002.
[9] Tiziano Scarpa, Stabat Mater, Einaudi, Torino, 2010.
[10] Giuseppe Berto, Anonimo veneziano, R.C.S., Milano 1997. Il romanzo è stato pubblicato sei anni dopo l’uscita dell’omonimo film per cui aveva scritto la sceneggiatura.