
Un magnagatti a Venezia
8 Febbraio 2022
Diritti e libertà, vicino e lontano
15 Febbraio 2022Ci voleva la questione degli ascensori negati a comuni cittadini nei palazzi d’epoca per fare la scoperta dell’acqua calda. Un po’ di clamore sui giornali su un tema nuovo e comunque particolare è bastato a rendere attuale una situazione generale cronica. Che non solo i ‘foresti’ di tutto il mondo, ma anche più semplicemente i nostri concittadini di terraferma e financo del Lido ci ricordano di tanto in tanto: “Venezia è scomoda”. Ce lo ricordano, quasi come una voce dal sen fuggita, emettendo un sospirone a braccia larghe, che sta a dire, senza dire, la scontata conseguenza che li riguarda, taciuta per delicatezza e per non ferire: “..e non ci vivrei”. (ricalca il commento più popolare e diffuso, espresso invece per intero, e più esplicito sul movente che genera l’avversativa: “Venezia è bella, ma non ci vivrei”).
Tutto molto chiaro.
La scomodità conclamata, neanche a dirlo, riguarda solo rigorosamente i sei sestieri con annesse isole, laddove da sempre non si transita in ogni dove con le auto, il che per ogni individuo vivente normo tipo è considerata la scomodità più ovvia ed elementare. Visto che non c’è angolo del pianeta Terra dove l’auto non riesca ad arrivare alle soglie di qualsiasi edificio o anche al suo stesso interno, sia alle latitudini estreme come la penisola di Kamchatka, sia ad altezze sul medio mare di molte migliaia di metri come il Passo dello Stelvio, sia in isole oceaniche sperdute di pochi ettari come per esempio le Sea Lion nelle Falkland. Solo i rifugi montani e neppure tutti hanno la stessa preclusione all’auto e non per caso si raggiungono non per lavoro o utilità varie, ma per solo diletto, per il quale il tempo impiegato non conta o come base per piacevoli avventure in roccia. Però come ben si vede non è l’unica scomodità per Venezia (ascensore negato docet), anche se tutte le altre possono considerarsi solo delle aggravanti, significative prese una per una e molto significative e decisive se sommate tra loro e soprattutto sommate alla prima per eccellenza. Una situazione di aggravanti che a Venezia avviene quasi dappertutto. Nei sei sestieri del centro storico c’è una densità di barriere architettoniche delle più svariate specie che semplicemente genera una condizione dappertutto clamorosamente ‘fuori norma’. Ma a Venezia la deroga è scontata, perché il suo centro storico è tutto considerato piacevolmente fuori norma e irriducibile alla normalità.
Certo la ‘scomodità’ nella mobilità, che non necessariamente significa mobilità automobilistica, è quella che storicamente ha fatto la differenza.
Vogliamo parlare delle carenze di organico a Venezia anche e soprattutto nelle dirigenze in servizietti da nulla come i tribunali e gli ospedali? Non passa mese che il cronista nei quotidiani locali non denunci questa carenza dovuta a non accettazione del posto rigorosamente spettante a chi lo rifiuta o dovuta, se il posto lo si occupa già, a fuga dallo stesso appena se ne coglie l’occasione. Il cronista coscienziosamente, con il tono con cui si narra un dato complicato, spiega il perché di tale ripulsa e con candore giunge alla conclusione che quel posto qualificato, magari rifiutando una promozione in carriera, a Venezia è ritenuto scomodo. Ma dai…ma no?
E parliamo di tribunali e ospedali, ma la cosa si potrebbe estendere a tutte le attività produttive e di servizio e naturalmente alla residenza. I veneziani, assolutamente tutti, questa cosa della scomodità variamente intesa la sanno benissimo, ma alcuni tra loro, magari minoritari ma influenti, ben dislocati socialmente, fanno gli gnorri, che è un modo elegante per dire ipocriti. Sono costoro a far prevalere sempre quell’orgoglio elitario, supponente e borioso che dà un’interpretazione tendenziosa della ‘venezianità’ come diversità dal resto del mondo. Avete presente quelle appartenenze politiche che a lungo hanno fatto intendere “noi siamo diversi, siamo i migliori”? Ecco trasportate lo stesso atteggiamento supponente nell’isola, nel pesce dei sei sestieri e tra una parte di chi ancora vi risiede, il parallelismo non sarà perfetto, ma rende l’idea.
Sono poi gli stessi ‘diversi e migliori’ che piangono il morto sul ridimensionamento e sulla dequalificazione della sanità veneziana, sulla perdita di posti di lavoro che “favorirebbero la residenza”. E perché si perdono? Vaglielo a spiegare.
È l’atteggiamento di quelli che ti dicono con sufficienza che di queste comodità se ne può benissimo fare a meno, come se ne faceva a meno nel passato. Certo nel passato si faceva tranquillamente a meno anche del telefono, della penna a sfera, dell’anestesia nelle operazioni chirurgiche, della luce elettrica, della carta moneta, della tazza del cesso, delle posate, della carta stampata e rilegata (si chiamano libri) e di una infinità di cose effettivamente superflue per la semplice sopravvivenza. Ma sono gli stessi che ti dicevano che si poteva stare ogni tanto con l’acqua alta fino all’inguine perché ci si poteva benissimo infilare gli stivaloni alti, appunto fino all’inguine. E continuano a dirlo, anche quando uno sprazzo di modernità e di comodità da un paio d’anni ci ha esentato da questa piacevole e divertente circostanza che andava su tutti i telegiornali e faceva dire al mondo intero “Venezia è bella…. eccetera”
Sono gli stessi che piangono e gridano di dolore per il calo continuo di residenti facendolo risalire a non meglio precisate e anonime responsabilità politiche del passato e del presente. Mentre quelli stessi sanno benissimo che la prima grande botta in uscita di residenti, immensamente più alta dell’attuale non solo in termini assoluti ma anche percentuali, risale agli anni ’60-’80. Quando avere un ascensore, una casa asciutta e razionale e un’auto sotto casa garantiti facevano la differenza e determinavano l’esodo. Esodo per nulla allora obbligato da affitti e compravendite alle stelle come adesso, visto che almeno fino agli anni ‘70 le case avevano ancora prezzi relativamente accessibili anche in centro storico. In quegli anni l’esodo, diventato forzato solo in seguito per l’aumento vertiginoso dei prezzi delle case o per non disponibilità delle stesse, era assolutamente volontario come atto di libera scelta senza “l’ordine del medico”; e la ragione è, come si dice, lapalissiana.
Certo, dentro alla trama densa delle calli e dei ponti veneziani le auto non avrebbero mai potuto entrarci, pena distruggerlo o raderne al suolo una buona parte e questo lo capiscono anche i bambini. Seppure nel perimetro del ‘pesce’, con congiungimenti fino all’estuario invece si, ed è noto che c’era chi ci aveva pensato (e progettato) molto seriamente per mezzo secolo fino agli infausti anni ’60, linee esterne che attorno ai centri storici dell’universo globo da sempre vengono attuate. Ma, anche senza arrivare a tanto, si sarebbe preteso quantomeno che il gap nella mobilità venisse colmato con altre modalità non necessariamente legate all’auto.
Persino la mobilità leggera, di cui ci si riempie tanto la bocca e considerata green ovunque, a Venezia diventa mobilità pesantissima e inaccettabile, sempre perchè ‘noi siamo diversi’. Di tanto in tanto si vede qualcuno con borsa da lavoro che come un ladro circospetto si aggira con un monopattino da bambino per ridurre un pò il suo gap temporale, forse per tornare a casa un pò prima dalla famiglia. Anche quel rudimentale mezzo, con cui vai al massimo a sei sette chilometri all’ora, certamente meno di chi imperiosamente corre tra le calli per fare salutare footing, è bandito dai regolamenti della polizia municipale.
Strategie nei trasporti collettivi che avrebbero potuto azzerare o ridurre le differenze con il resto del sistema urbano, ricollocando il centro storico nel suo naturale contesto territoriale erano tutte possibili e fattibili e qui si che la responsabilità politica c’è e non è così anonima, andando a spulciare i nomi dell’epoca.
È stata, si capisce, una responsabilità ben supportata o tenuta in ostaggio da una certa parte dell’opinione pubblica, a parer mio minoritaria, ma garrula e chiassosa, rivestita di prestigio anche internazionale e che cominciava in quegli anni a mettersi di traverso un po’ su tutto. Potendo contare su enti statali al di sopra di ogni controllo e influenza, come le celebri e intoccabili Soprintendenze. Quelle che fanno le pulci un po’ a tutto ciò che è ‘opera’, grande o piccola che sia. Anche piccola, per esempio l’abbattimento di un muro di un appartamento e l’apertura di una finestra o di un lucernario in un normale condominio veneziano, inducendo chi ci abita, magari da proprietario che non avrebbe problemi di spesa per residenza, ad andarsi a cercare una casa come gli comoda in terraferma con tanti saluti alla Soprintendenza.
L’omologazione della città storica al resto del pianeta Terra è il grande orrore ideologico di questo mondo elitario, che quando ha fretta per andare in aereoporto si prende un taxi acqueo che va a manetta e non ha problemi, e che non sa vedere al di là del proprio naso. E non intende ragioni di fronte all’elementare principio che la non-omologazione di un territorio urbano, nei tempi e nei modi alla scala in cui avvengono in un dato momento storico in rapporto con lo spazio, ti taglia fuori. Dal mercato, dai flussi, dallo scambio non solo economico, consentendoti solo ciò che è compatibile con i tempi e i modi della non-omologazione. Compatibile è il turismo e un certo tempo libero, per esempio, per i quali la ‘scomodità’, ma fino a un certo punto, non è un’aggravante decisiva. Proprio quel turismo che i soloni poi aborrano.
Basterebbe tutto ciò per certificare che il declino generale cittadino, denunciato costantemente dai citati elitari con vacua veemenza attribuendolo a cause mai identificabili, declino che per altro si riverbera anche su tutto il territorio comunale, è stato causato innanzi tutto proprio da una quota rilevante di non-omologazione. Ma per quanta evidenza questo dato può avere sarà sempre negato, perché siamo in un campo, quello della struttura del territorio e della geografia urbana, al quale viene altrettanto negata una patente di scienza e nel quale ognuno può dire liberamente la sua senza contraddittorio. E d’altra parte abbiamo ben visto in questi grami anni di pandemia che anche la scienza in altri campi, medici e sanitari per esempio, viene contraddetta dal primo ciarlatano che passa.
C’è speranza di invertire questa condizione in cui si è tenuti in ostaggio e di cui gli ascensori negati sono l’icona perfetta, perché ‘querelle’ ancor più semplice, lineare e comprensibile di altre?
Si sa, è sempre l’ultima a morire e per non farla morire per sempre bisognerebbe cominciare a ridare senso all’attribuzione di progresso e dei suoi potenziali alfieri, i ‘progressisti’.
C’è già chi pomposamente si fregia di tale definizione in campo politico e si capisce che chi se ne fregia fa risalire, direi correttamente, la definizione al ‘progresso’ inteso come promozione sociale. E però tra le fila degli attuali ‘progressisti’ si stenta a cogliere il nesso tra progresso sociale e progresso tecnologico variamente inteso. O meglio lo si coglie con più facilità attribuendolo alle cosiddette nuove tecnologie, mentre si sottovaluta tutto ciò che l’ordinaria tecnologia consente e che ha senso come decisivo facilitatore sociale. Nel lavoro, nella produzione e nei servizi che garantiscono diritti di base, salute, estesa anche all’ambiente, istruzione, cultura. Per il centro storico di Venezia l’inversione della sua sorte dipende solo e soltanto da questa ritrovata accettazione di ordinario ‘progresso’, ovviamente in modo combinato con altre urgenti e decisive disposizioni in molti altre diversificate situazioni territoriali.
Che evocano altre storie. Alla prossima.