Ripopolamento a Venezia attraverso Social Housing: la via maestra
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26 Aprile 2021La “finitudine” è una caratteristica dell’umano ma non solo sul piano temporale ma anche spaziale. Se a livello temporale ogni cosa ha i confini dati dalla nascita e dalla morte, il nulla prima e dopo di noi, a livello spaziale ogni cosa esistente finisce, è limitata o meglio delimitata, ogni cosa ha suoi limiti e i suoi confini ma nell’oltre non c’è il nulla ma esiste qualcos’altro. Si dice confine un qualcosa che divide, che distingue un qui da un lì ma che stabilisce anche una relazione reciproca stretta e ineliminabile. E’ un dialogare tra due parti, quelle che dal confine sono divise. Oltrepassare il confine da una parte all’altra è un mettere in comunicazione cose diverse e distinte ponendo relazione tra di esse. Il confine è discrimine, ma discrimine dialettico, non rigido, relazione tra oggetti distinti ma comunicanti: qualcosa finisce dove ne inizia un’altra.
Immagino i confini come dei cerchi concentrici. Il primo confine che ci delimita, ci identifica e, a un tempo, ci separa dagli altri è il nostro IO. Il secondo cerchio è tutto quello che ci circonda, quindi la nostra casa e la nostra confort zone. Altri cerchi: la propria città e poi il proprio paese, il proprio continente e poi la terra. E ancora altri confini che limitano ma che esistono per essere superati costantemente sono la conoscenza, il pensiero, la cultura. Ogni cosa ha un confine ma ogni cosa tende verso il suo superamento, che è la base del progresso. I confini sono fatti per essere superati. Anche i confini naturali come mari, montagne, fiumi si cerca di azzerarli con ponti, tunnel sotterranei o sottomarini, cavalcavia o con istmi. La siepe leopardiana segna il confine, “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” ma l’inquietudine o la sehnsucht spinge lo sguardo e la mente a superare il limite tendendo verso l’infinito.
L’IO nella sua relazione col NON-IO, crea la propria identità, definendosi in contrapposizione all’altro da sè, conosce il proprio limite segnando l’alterità dell’altro ma è anche insito il bisogno di andare verso l’altro. C’è un confine che separa il mio corpo da ciò che mi circonda.
Il nostro essere umani si definisce dalla nostra “capacità di creare relazioni, di uscire da sé e di aprirsi” (V. Mancuso) di creare legami. Io e il non-io si negano, l’io si pone e si oppone al non io, uniti nella diversità e nell’alterità. L’identità si costruisce attraverso l’opposizione, l’affermazione di sé avviene attraverso il porsi in opposizione all’altro. Una serie infinita di IO finiti che trovano nell’altro il loro confine e si autodefiniscono quando incontrano il confine dato dall’altro. L’Io è ciò che è, solo opponendosi a qualcos’altro da lui. Ma se la spinta vitale è l’interazione sociale se non vogliamo restare prigionieri nel nostro isolamento siamo spinti irrimediabilmente dal bisogno di sporgerci verso l’altro. I confini limitano la nostra liberta’ quindi superarli ce la amplia in maniera esponenziale.
E così anche nello spazio nel quale ci muoviamo tutto è liquido: tutto sembra definito ma progressivamente si sposta, si dilata avvicinando le distanze. Prima il limite era posto nelle colonne d’Ercole che sono state superate solcando mari ignoti e, infrangendo paure ataviche, hanno aperto a nuove conoscenze dalle conseguenze allora inimmaginabili. L’atlantico era un limite invalicabile ma una volta valicato ci ha aperto mondi nuovi dando il via all’atlantizzazione che a sua volta ha aperto a quella globalizzazione che oggi sembra aver spazzato via confini, almeno sul piano economico-finanziario. Fino a 150 anni fa la distanza tra le regioni italiane era confine tra stati, culture e lingue diverse, una separatezza simile a quello che oggi percepiamo tra i vari paesi europei considerati ancora come mondi altri da noi, con confini ben marcati tra paesi che, però, domani diventeranno parte integrante di uno stesso mondo che punterà ad eliminare le linee di demarcazione oggi ancora esistenti. Immaginiamo che un giorno, si spera non lontano, queste si spezzeranno.
Pensiamo, infine, all’ultimo cerchio, ai confini della terra oltre i quali i visionari immaginavano infiniti mondi. Le imprese spaziali, infatti, sono state da sempre sorrette da quella spinta incoercibile a ricercare nell’universo il superamento del confine del mondo alla ricerca di altre forme di vita, nella speranza di incontrare l’altro da noi che è l’alieno.
E se tutta umana è questa spinta al superamento dei confini, tutta umana è anche l’arbitrarietà e la gratuità della creazione di barriere, spesso espressione di esercizio di potere. Basti pensare come, al momento del processo di decolonizzazione fu sufficiente tracciare alcune linee su una mappa per legittimare a tavolino le conquiste territoriali, per rendere legale la separazione, prescindendo da strutture sociali, etniche e politiche preesistenti. Linee di demarcazione del tutto convenzionali a volte illegittime, frutto di guerre che hanno spostato i confini o di penne che li hanno disegnati sulla mappa, incuranti di ciò che univano o separavano.
Ma l’idea di confine richiama maggiormente quella di “barriera” o quella di “soglia”? Massimo Cacciari, riflettendo a proposito di confini propone l’alternativa tra limen e limes. Il primo termine significa “porta” da cui per definizione si entra e si esce; il secondo indica viceversa una barriera, dunque, più nettamente, richiama una chiusura quasi militaresca. Oggi, dice Cacciari, siamo obbligati a decidere se il confine è limen o limes, soglia o barriera, luogo dove ci trinceriamo o dove ci uniamo, una linea di confine che separa o unisce. Sono le linee, quindi, che definiscono e materializzano l’immagine di mondo che ci creiamo: limes viene solitamente, inteso come affine a terminus, limen trova affinità, invece, con principium: è la soglia, che consente il passaggio, e dunque può essere condizione di rapporto, incontro, comunicazione. “Esclusivo il limes, inclusivo il limen”.
Inoltre ogni di-visione è, come dice l’etimo della parola stessa, una doppia visione, un contemplare la diversità insita in ogni alterità che sorge ogni qualvolta che un limite o un confine viene tracciato. Tracciare un confine è segnare, donare esistenza alla differenza. Il segno ci mette di fronte all’Altro-da-noi, a ciò che ci viene in-contro.
Ed è sempre l’etimologia che ci viene in soccorso, non a caso si chiama con-fine, è quello spazio in cui entrambi hanno la loro fine per incontrarsi, dove si sta di fronte l’uno all’altro. Quindi il limite viene qui ad assumere il nome di frontiera, il luogo dove gli sguardi reciproci si incrociano. Tutto diventa così una soglia se noi ci apriamo alla venuta dell’altro.
Il confine che si ri-crea continuamente e de-finisce. Linea di confine in quanto chiusura/apertura, dentro/fuori, identità/differenza da pensarsi insieme.
Consente di distinguer pour unir, di ricercare la relazione proprio attraverso la distinzione.
Ma è anche vero che spesso diventa limes, quando arbitrariamente quel confine ideale diventa barriera invalicabile attraverso fili spinati o muri ben visibili e terribilmente alienanti, quando uno dei due attori che stanno al di qua o al di là del limes decide che quell’alterità non può essere luogo di interscambio ma una separatezza irreversibile, in cui l‘altro non può e non deve contaminare, non può s-confinare. E spesso l’erezione del muro è dettata prevalentemente dall’esigenza di affermare simbolicamente e visivamente non solo l’esclusione ma soprattutto posizioni di potere e rapporti di forza.
Ma è anche vero che tanti muri, come il muro di Berlino, sono stati abbattuti con l’idea di riavvicinare al fine di ricomporre il conflitto tra le due parti e di eliminarne la separatezza.
I 50 muri presenti attualmente, come del resto anche quelli abbattuti ci dicono, quindi, qualcosa circa l’idea che si ha di mondo. La storia dell’umanità è ricca di muri costruiti con la funzione di allontanare i popoli, di segnare la distanza tra idee e strutture economiche, tra popoli, tra etnie, tra sistemi politici. Barriere che pongono ostacoli alla relazione. “Un muro è una grande arma. E’ una delle cose peggiori con cui colpire qualcuno” (Banksy). Così il muro con la Cisgiordania, il muro al confine con il Messico e ancora il filo spinato di Idomeni, la “Dachau dei nostri giorni” e quel Mediterraneo che, per secoli crocevia di popoli, è diventato una muraglia valicabile solo a rischio della vita oltre che una necropoli.
Le barriere diventano, così, espressione visiva del muro che è dentro di noi, segno tangibile di un’idea di società che nell’alterità scorge il nemico, di un’interpretazione del potere che afferma la propria superiorità espungendo l’altro e di quella visione del mondo che rifiuta la differenza demonizzandola.