EUROPA IL NOSTRO PAESE, GIUSTO O SBAGLIATO
28 Aprile 2019No Martini, no party?
8 Maggio 2019Giovanni Montanaro esce in libreria con la sua ultima fatica letteraria “Le ultime lezioni” (ed. Feltrinelli) e ci propone una breve e delicata opera, scorrevole, leggera ma affatto banale, davvero originale. La vicenda si dipana lungo gli ultimi anni di liceo e poi di università di Jacopo, narratore in prima persona. Non è, Jacopo, un tipo speciale, nessuna particolarità, nessun eroismo, nessuna perversione. Così come è un personaggio sostanzialmente anonimo l’eroe della storia, il professor Costantini, insegnante di lettere del narratore al Marco Polo per un solo anno, che l’autore presenta, nell’efficace incipit del romanzo, con queste parole: Costantini era il tipo di uomo che chiunque ha in mente quando pensa a un professore. Jacopo e Costantini, assieme alla figlia disabile di quest’ultimo, Lucia, sono di fatto gli unici personaggi della vicenda.
Tre personaggi tre, senza attrattiva particolare; una trama lineare e quasi ordinaria, non morti ammazzati, né scene di sesso, né scenari grandiosi. Eppure.. eppure Montanaro riesce nell’impresa di farsi leggere d’un fiato, di coinvolgere il lettore fino all’ultima pagina e ci regala più di qualche spunto di riflessione.
Ne abbiamo parlato con l’autore, che ringraziamo per la disponibilità a soddisfare le nostre curiosità.
Giovanni, parto subito con un riconoscimento sincero: trovo che hai un vero e proprio magic touch nel pennellare con pochi tratti ficcanti i tuoi personaggi. Di Costantini: “veniva in classe con giacche sdrucite ma ancora decorose, come uno che da giovane aveva delle speranze”. Della professoressa Bessi: “era sempre vistosa ma mai ridicola, sempre fuori luogo senza mai essere censurabile”. O ancora, sempre la Bessi: “le ragazze non l’amavano ma lei finì per conquistarle riempiendole di complimenti immeritati a cui tutte credevano”. Mi chiedo, e perdonami la curiosità voyerista e un po’ invidiosa per il tuo talento, se ti vengono di getto o se sono il frutto di un’applicazione laboriosa.
La scrittura nasce sempre di getto, per poi essere sottoposta a pazienti riletture, che pure talvolta rischiano di complicarla, di peggiorarla, di ripensare troppo. Bisogna trovare un buon equilibrio tra ispirazione e revisione. Questo romanzo però è per me particolare, mi è molto vicino, pur senza essere autobiografico. Ho scritto del mio liceo, della mia epoca, di Londra dove tanti vanno a lavorare, e per questo ho sentito una certa facilità nel descrivere, come se avessi preso dalle conversazioni con gli amici, dalle riflessioni che già avevo pronte, che avevo già fatto. I miei professori erano esattamente così. I professori che vedo oggi, quando giro per le scuole, sono così. Per questo, più che altre volte la scrittura è venuta di getto.
Parliamo di Costantini: negli incontri di presentazione del libro vari commentatori hanno insistito sul fatto che Costantini era un bravo professore, uno che sapeva la sua materia e sapeva farla amare ai suoi studenti, cogliendo in questo l’elemento distintivo della figura. A me quest’aspetto è sembrato solo funzionale alla vicenda – serve cioè a spiegare l’affinità intellettuale tra i protagonisti – mentre quello che personalmente trovo contraddistingua il professore è la sua “eroica” dignità. Un eroe discreto e dolente, cui la vita ha riservato prove durissime e dolorose, che trascina un’esistenza faticosa, in una sorta di eremo lontano dal mondo. Si direbbe, frettolosamente, un ‘perdente’. Eppure il professore non si piange addosso, non sfugge al mondo, fa bene il suo lavoro, vive senza condizionamenti il suo essere irrimediabilmente fuori moda e dimostra notevole intelligenza emotiva. Una di quelle persone, e sono tante, che non hanno riconoscimento sociale, che sono talvolta oggetto di scherno, che portano silenziosamente e con dignità il loro fardello. Ti chiederei un’interpretazione autentica: quanto la tua evidente simpatia verso Costantini è in effetti empatia verso certi cosiddetti perdenti della nostra società?
La mia idea di fondo non era quella di raccontare un professore affascinante, un professore da “L’attimo fuggente”. Volevo invece descrivere un professore anche “grigio” ma che avesse un pregio che oggi sembra dimenticato: sapesse fare bene il suo lavoro, fosse una persona di buonsenso, niente di particolare, ma comunque – con queste poche ma fondamentali qualità – potesse diventare un punto di riferimento per un ragazzo “normalissimo”. Certo, è poi Lucia, il dramma della sua esistenza, a dare – almeno ai miei occhi – la profondità tragica del personaggio. Ma è una profondità, anche questa, quotidiana. Quante persone conosco, che portano con estrema dignità la loro fatica, il tempo che – senza dir niente – dedicano agli altri, le malattie o altri problemi che hanno in famiglia, al lavoro e che in qualche modo non li distruggono. Per me, sono dei giganti. E Costantini, con le sue contraddizioni, mi piaceva raccontarlo per questo. Quindi, direi che è vero l’assunto da cui parte la domanda; non avevo interesse a dipingere un bravo professore, ma un brav’uomo, con tutte le sue contraddizioni. Non so come lo veda la società, non è che mi importi molto; per me è tutto tranne che un perdente.
La vicenda è ambientata a Venezia ed è ricca di riferimenti a luoghi noti a tutti i veneziani. E con spunti descrittivi anche piuttosto felici. Credo sia la prima volta che scegli Venezia come setting. D’altronde, la vicenda poteva benissimo essere ambientata altrove, la solidità dell’impianto narrativo era tale che non ‘aveva bisogno’ di Venezia. Volevo sapere la tua opinione al riguardo: Venezia è sempre oggettivamente ‘ingombrante’.. si impone all’attenzione, distrae il lettore. Insomma, se non vuoi scrivere un romanzo su Venezia, questa rappresenta in un certo senso un rischio. Questa volta perché hai scelto di correrlo?
Ho aspettato per anni di avere la storia giusta per Venezia, e credo di averla trovata. Venezia è difficile, ingombrante, ma è anche soprattutto fraintesa. Venezia è, per molti versi, una città come tutte le altre, dove si gioca a basket e si va al liceo, si va in pasticceria e ci si muove con i mezzi pubblici. Pochissimi scrittori sono riusciti a renderla così, e solo a tratti. Manca, per esempio, un romanzo del Novecento veneziano, nonostante a Venezia la storia sia passata come e più che altrove. Per questo è vero; il romanzo poteva essere ambientato altrove. Eppure… Eppure Venezia è mia, e questa storia amplifica secondo me un elemento che è tutto veneziano. la natura. L’eccezionalità di Venezia è sì nella sua bellezza, ma questa bellezza è quella artificiale (i ponti, i palazzi, i dipinti) che, come dice Jacopo, è oggettivamente un “lusso”, ma è anche la bellezza della natura. Si sottovaluta sempre quanto sia importante per Venezia e i veneziani il fatto di vivere in mezzo alla natura, sentire i ritmi del tempo, della laguna, dell’acqua. Per questo l’isola di Sant’Erasmo, che è forse la meno turistica, quella in cui mi verrebbe difficile pensare a un’attrazione culturale, mi sembrava il posto giusto per ambientare questo romanzo, che ha a che fare con i cicli della vita, degli alberi come delle ragazze.
Reputo felicissima la trovata narrativa di fare scoprire solo alla fine della vicenda l’età di Lucia, la terza protagonista del romanzo. In effetti, non credo sia capitato solo a me e credo anzi che sia voluto dall’autore, durante la lettura ci si immagina un personaggio molto diverso (non dico di più per non rovinare la sorpresa a chi leggerà il libro). Ci racconti, se credi, qualcosa di come ti è nata l’idea?
L’idea del personaggio di Lucia, della sua disabilità, sono cruciali per il romanzo. Per proporzionare le crisi di Jacopo ma anche per tenere la tensione che sta sotto il libro. Il grande mistero della vita, della natura, la sua atroce crudezza, che tutti abbiamo modo di intercettare, prima o poi. Conosco molte famiglie con ragazzi disabili, molti ragazzi disabili. So come la tragedia della loro condizione è a tratti sospesa da momenti di bellezza, di allegria. Momenti inspiegabili, senza un po’ di fiducia nella vita. Peraltro, quei ragazzi vivono come in un’eterna gioventù, un’eterna condizione di figli, il loro dramma (che è quello di Costantini) è sempre cosa accadrà di loro quando i genitori non ci saranno più. Per questo la loro età mi ha sempre affascinato, e per questo anche quella di Lucia, in fondo, è una rivelazione.