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5 Aprile 2021Ci sono libri che lasciano una scia diversa dietro di sé, che non segnano la memoria del lettore unicamente per la pulizia dello stile, per la forza delle idee, per il fascino nell’evocazione di un ambiente. Questi libri vibrano di un suono diverso dentro coloro che li leggono, e questo suono resterà a lungo, come un’eco nascosta e profonda.
Chi scrive frequenta le Dolomiti da quando è bambina, e da sempre ha conosciuto i luoghi classici che ricordano i luoghi delle battaglie lì combattute durante la Prima Guerra Mondiale. Le trincee delle Cinque Torri, il Monte Piana, il Sass de Stria, il Monte Rite, solo per citare i luoghi più visitati, hanno accompagnato tutta la mia vita.
Ma ci sono di mezzo in questo caso anche le origini lontane della mia famiglia: il mio cognome, Ticcò, appartiene ad un’antica famiglia di Forni di Sopra, Alpi Carniche, da cui si spostò secoli fa qui nel veneziano.
Premesse queste indispensabili per capire quanto il libro di Ilaria Tuti, Fiore di roccia, abbia rappresentato una lettura a più dimensioni , fatta della constatazione di avere tra le mani un romanzo che si è fatto recentemente avanti nelle classifiche a buona ragione, forte, bene impostato, poetico nel linguaggio a tratti, doloroso e sensibile nel raccontare il dolore e la morte inutile di migliaia di soldati sulle trincee delle Alpi Carniche, ma anche di scoprire, attraverso queste pagine, una sorta di ritorno ad origini lontane, ad un sentire al femminile fatto di forza, determinazione, generosità portata fino al sacrificio, che mi ha fatto essere fiera di discendere in qualche modo proprio da queste donne.
La protagonista del libro, che narra in prima persona la sua vicenda, è una delle duemila portatrici che, durante le Prima Guerra Mondiale, si è avvicendata con le sue compagne lungo i sentieri di montagna, con la gerla in spalla carica di provviste, medicine e munizioni per le guarnigioni che difendevano disperatamente i confini italiani, a pochi metri dalle truppe austriache.
Il loro è stato un aiuto determinante per la sopravvivenza delle truppe in quelle zone, e l’autrice, friulana essa stessa, ha voluto con questo romanzo ispirato a reali eventi storici, onorare il contributo di queste donne, volti senza storia, che hanno fatto la Storia al fianco dell’esercito italiano.
Narrativamente, l’autrice ha voluto inserire, in corsivo, alcuni brevi capitoli in terza persona, protagonista in questo caso un cecchino austriaco, che nell’ultima parte del libro intreccerà la sua vita con quella di Agata, la narratrice. Noi lettori abbiamo così la possibilità, in brevi flash narrativi, di entrare nella mente di un giovane austriaco, e dei suoi sentimenti in mezzo al quotidiano dovere di uccidere.
Il libro si divide così in due grandi versanti di racconto: da un lato una serie di belle descrizioni della natura, che accompagna con i suoi colori e il cambio delle stagioni le stragi di ragazzi in cima a quei monti, affidando agli occhi di chi legge descrizioni intense come questa :”…Il silenzio è increspato solo dal vento, che quando si infila nei canaloni canta con voce di baritono, e dal suono di una slavina lontana. Niente più selva, niente più richiami e fughe furtive d’animali nel sottobosco. Solo qualche filo d’erba che caparbiamente vuole vivere dove la natura non lo ritiene necessario. Ho avuto il tempo di contar la roccia, quasi, nelle schegge in cui l’eternità l’ha franta, e di certo ho provato a definire tutte le infinite sfumature che la luce, l’ombra e Dio usano per tingerla.”
Oppure ancora il silenzio del paese quando Agata, col suo carico, si avvia alla fontana per lavare i panni sporchi dei soldati :”…Il respiro della montagna soffia sulla via che scende nel centro del paese e si accompagna al frinire degli insetti notturni. I profumi dei prati e dei pascoli inselvatichiti rendono l’aria balsamica. Un muggito svogliato fa vibrare la calma prima di spegnersi; anche le stalle si preparano al sonno. Le strade sono deserte, le imposte delle case già chiuse. Il chioccolio della fontana potrebbe guidare i miei passi anche al buio”.
L’altro versante narrativo è quello delle descrizioni dei morti dopo le battaglie sanguinose, della raccolta dei loro corpi, del lavoro delle portatrici che li trasportano a valle per avere sepoltura, o che li ammucchiano nelle fosse d’emergenza accanto a luogo dove sono stati massacrati.
E, nel contesto più vicino ai luoghi dei combattimenti, c’è lo scambio interessante e nuovo tra lei, Agata, il comandante e il medico. In questo intenso rapporto di progressiva sempre più forte condivisione di fatica, pericolo, coraggio, nasce e cresce in questi uomini abituati a definire in modo diverso i ruoli dell’uomo e della donna nel mondo, un rispetto e una considerazione grandissimi per quelle donne semplici e fortissime che contribuivano alla sopravvivenza dei loro uomini al fronte.
“Il comandante allunga una mano e si fa consegnare un fucile. Lo posa tra le mie mani, ma non lo lascia andare. “Il peso di questa guerra si sposta dalle vostre schiene alle braccia” dice “ Siete in grado di sopportarlo?” mi chiede .
…”Donne al fronte” mormora. “ E che sia, dunque. Come noi. Uguali a noi.”
Ed è questo, in fondo, quello che resta più profondamente nella memoria di chi legge questo libro. E’ una storia di donne scritta da un’altra donna che appartiene a quei luoghi, non solo per fare giustizia e chiarezza su di un episodio altrimenti taciuto della Grande Guerra, ma per onorare il genere femminile e la sua grande capacità di entrare negli eventi e cambiarli con la sola propria presenza. Anche solo portando in silenzio sui sentieri della Carnia, giorno dopo giorno, carichi immensi, forti della loro forza millenaria.
ILARIA TUTI, FIORE DI ROCCIA, LONGANESI 2020