Una Donna per amico
12 Giugno 2019Le età dell’Europa dal welfare all’incertezza
14 Giugno 2019Nonostante gli oltre sessant’anni trascorsi dall’approvazione della legge che impose la chiusura delle famose (o famigerate?) case di tolleranza, quando si torna a parlare dell’argomento (assai poco, per la verità, e ancora con circospezione) si continua a farlo sempre in maniera “ideologica”, come si dice oggi. Bisogna forse arrendersi all’idea che cosa fatta, capo ha, che la questione è chiusa? Vediamo.
La normativa che imponeva l’abolizione permanente dei postriboli autorizzati dallo stato (o meglio, il controllo pubblico della prostituzione) è conosciuta come legge Merlin, dal nome della sua promotrice, la senatrice socialista Lina Merlin, che, per circa un decennio, si batté strenuamente per conseguire il risultato voluto. E alla fine la spuntò. Nel 1958.
La Merlin s’ispirava peraltro, nella sua battaglia, a vari pronunciamenti e convenzioni internazionali, la più nota delle quali era la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948). Ma il riferimento fu poi anche ad alcuni passaggi della nostra Carta Costituzionale, quali l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (art. 3), la salute come fondamentale diritto dell’individuo (art. 32), il fatto che un’attività economica non possa essere svolta in modo da arrecare danno alla dignità umana (art. 41).
Naturalmente la legge venne non solo ad abolire la regolamentazione pubblica della prostituzione, ma anche a disporre sanzioni nei confronti dello sfruttamento e del favoreggiamento del “meretricio” (che sarebbero poi i punti cruciali della questione), nonché ad eliminare la schedatura di stato delle prostitute, che costituiva uno stigma sociale molto lesivo dei loro diritti di cittadinanza.
Da quali partiti politici venne appoggiata tale legge? Da quali fu osteggiata? Tra i primi ci furono soprattutto i socialisti, i comunisti, i repubblicani e i democristiani. Tra i secondi si schierarono i liberali, i missini, i monarchici, ma anche gran parte dei socialdemocratici e – si badi – i radicali. Insomma, non esattamente sinistra contro destra, con un schieramento in parte trasversale. In particolare, non furono pochissimi, tra i comunisti e i repubblicani, ma soprattutto tra gli stessi socialisti, i parlamentari che avanzarono nette riserve sulla legge.
Tra questi ultimi il socialista Gaetano Pieraccini, secondo cui relegare tutta la faccenda nell’ombra, nel buio dell’anonimato e della clandestinità, poteva anche essere un rimedio peggiore del male, in ordine specialmente alle conseguenze disastrose per la salute e la sicurezza pubblica, nonché per l’aumento dello sfruttamento delle prostitute medesime.
Benedetto Croce, poi, quando in anni precedenti a questa legge i contorni del dibattito si stavano definendo, ebbe a un dipresso ad osservare che qualunque male ci fosse nelle case di appuntamenti, era comunque minore di quello prodotto dalla loro abolizione, e che cancellando i postriboli in qualche modo controllati dallo stato, si rischiava, senza distruggere il male che essi rappresentavano, di distruggere il po’ di bene con cui essi ponevano argine a quel male.
Si può dire, oggi, che dalla legge Merlin in avanti il “fenomeno” della prostituzione si sia stato “debellato” o quanto meno ridimensionato? Stando ai numeri, sia pure fatte salve le debite proporzioni demografiche, sembra proprio di no. Si è forse ridotto da allora il fenomeno dell’induzione al “meretricio” e del suo sfruttamento? Non parrebbe. Esistono per caso maggiori garanzie sanitarie e di tutela della salute e della sicurezza pubblica, rispetto al tempo dei postriboli di stato (fatti salvi, si capisce, i progressi della medicina)? Non si direbbe.
Certo, a distanza di tanto tempo il confronto non è facile, ma è di tutta evidenza (e se non ci fosse l’evidenza basterebbe il buon senso a suggerirlo) che la “piaga” (così si diceva una volta) della prostituzione non ha fatto progressi sensibili e semmai ha fatto regressi (quale che sia il punto di vista – moralistico o civile – da cui la si considera).
I dati, ci risulta non recentissimi (2008) del Parsec, uno degli istituti di ricerca più accreditati, parlano di 45mila prostitute in Italia (ma secondo altre stime più recenti si supererebbero di molto le 50mila), di cui 8mila italiane (che in prevalenza non lavorano però in strada) e 37mila straniere (di cui 15mila eserciterebbero indoor, mentre sarebbero 22mila e passa quelle che lavorano per la via). Di queste straniere, una quota relativamente modesta (e l’avverbio è d’obbligo) praticherebbe la sua attività in condizioni di “schiavitù” (costrette al meretricio da lenoni e sfruttatori): dal 7 al 15% dei casi. In un ancor più modesto (e, di nuovo, “modesto” è un aggettivo improprio) 7% dei casi si tratterebbe addirittura di minorenni (e qui si configura, ovviamente, un’ulteriore e specifica fattispecie di reato).
Ora, non vorremmo certo dare i numeri (non è proprio il caso) e naturalmente si capisce con quanta difficoltà si possa disporre d’informazioni del tutto attendibili in questa materia “clandestina” e quanto le cifre suddette possano essere errate per difetto (o magari anche per eccesso) e come esse vadano prese con le molle. Tuttavia, pur considerando tali cifre con tutte le cautele e le approssimazioni del caso, esse tratteggiano i contorni di un fenomeno e la sua articolazione per nulla scontata.
Risulta evidente, in particolare, che in una misura non irrilevante tali cifre fotografano una situazione in cui è comunque assai ampio il margine della libera e consapevole scelta delle donne che offrono in modo consenziente e per decisione cosciente le loro prestazioni sessuali in cambio di denaro. Si può avere il giudizio che si vuole sia su coloro che fanno mercato del proprio corpo, sia sui clienti che si avvalgono di tali prestazioni. Ma si tratta di un giudizio di tipo morale che non dovrebbe entrare affatto in una considerazione sociale e civile del fenomeno. Ferma restando la libertà di ciascuno di pensarla come vuole, va da sé.
Se (se) vengono create le condizioni oggettive (legalizzazione) per cui il rapporto carnale riguarda adulti consenzienti e consapevoli, se (se) tale relazione di scambio non incide e non intacca la privatezza e la libertà di altri individui, non è di questo (della sua “moralità”) che bisogna discutere e parlare, bensì delle condizioni in cui tale attività possa essere svolta con la discrezione del caso (per non turbare la sensibilità di taluni, o di molti) e soprattutto in condizioni di sicurezza sanitaria (e non solo) per tutti, e in assenza – va da sé – di sfruttamento per le “sex worker”.
Dopo di che qualcuno potrà sostenere che la prostituzione va combattuta come un male morale (che bisogna educare e contrastare il “fenomeno” coi mezzi leciti dell’educazione e della propaganda: e si accomodi), mentre altri potrà viceversa limitarsi a ricordare che trattasi, come si suol dire, del mestiere più antico del mondo: e lasciate ogni speranza voi che entrate in questa valle di lacrime.
Ma ciò che prioritariamente importa non è questo, bensì quali siano le migliori garanzie sociali, sanitarie e di sicurezza, a tutela sia delle “prestatrici d’opera” sia anche dei clienti. Che poi, se scremiamo il discorso dalle ricorrenti retoriche d’ordine morale, varrà pure la pena di soggiungere che tra coloro che esercitano il mestiere in questione ce n’è d’ogni ordine a grado, anche per quanto attiene alle tariffe praticate.
Così, accanto alle peripatetiche che si concedono sulla via per poche “lire”, esiste un climax ascendente di compensi che possono raggiungere anche cifre – com’è ben noto perfino dalle cronache – prossime (e non solo per difetto), per singola prestazione, allo stipendio d’un lavoratore. E perché mai le “escort” dovrebbero concedere le proprie grazie (qualora non più – nell’eventualità – spremute dall’organizzazione criminale di turno) senza pagare dazio, senza sottostare al principio generale che chiunque offre una “prestazione d’opera” deve contribuire alla “cassa comune”: insomma, perché esentasse, qualora si tratti di prestazioni non occasionali (come pure risulta che accada, dalla indagini giornalistiche) bensì di un vero e proprio lavoro?
In definitiva, se si osserva il fenomeno con occhio scevro da pregiudizi e convinzioni morali, e lo si considera per quello che esso effettivamente è (un fenomeno, fino a prova contraria, largamente intramontabile), non si vede perché sia poi tanto insensato pensare ad un sistema in cui, messe da parte le improprie valutazioni di natura etica, l’esercizio di tale “servizio” venga svolto in ambienti protetti, regolati, controllati, sicuri e discreti. Favorendo magari anche la nascita di forme cooperative tra le stesse sex worker, come è stato suggerito da più parti. E stabilendo le imposte legate alle prestazioni. Ferma restando la libertà di ciascuno di regolarsi come gli pare, fino a quando non rechi ad altri nocumento alcuno.
Contrariamente a quanto si pensa spesso, proposte di questo genere non sono appannaggio esclusivo delle formazioni conservatrici o cattoliche o destrorse: negli ultimi anni sono stati presentati disegni di legge sulla materia dalle più diverse forze politiche, ma si sono poi tutti puntualmente impantanati nei lavori di commissione senza mai raggiungere la discussione in aula.
P.S. Tanto per la cronaca, secondo stime abbastanza recenti (2013), che riportiamo però con ampio beneficio d’inventario, il numero dei clienti delle prostitute, abituali o saltuari, ammonterebbe in Italia addirittura a qualcosa come 9 milioni d’individui. Si tratterebbe, se così fosse, di una cifra non molto lontana dall’intera attuale popolazione italiana maschile adulta…