La banda del buco…(urbano)
31 Agosto 2023Le carenze di Calenda a Cernobbio
11 Settembre 2023Che problema sarà mai se i dialetti si dovessero estinguere? Già, perché oramai, nel nostro Paese,
che lingua si parla? In certi àmbiti, si sa, si parla addirittura in una specie d’inglese (anzi,
d’americano) frammisto ad un italiano pedestre. Si pensi alla lingua dell’informatica o ai gerghi
aziendali infarciti di anglicismi. E chissà che tra un po’ di tempo (chi può dirlo con certezza?) le
lingue internazionali non divengano magari altre anche per noi europei: per ipotesi, il cinese o
l’arabo. Chi lo sa.
È questa una previsione, come dire, apocalittica o distopica? Può darsi. Ma intanto, che da
noi l’americano dilaghi e che ciò avvenga in Italia anche a scapito della conoscenza della lingua
patria è un bel problema. Beninteso, non se ne fa qui una questione di patriottismo, bensì una
questione di disperante depauperamento del pensiero. Perché, si sa, noi umani pensiamo con le
parole. E dunque una lingua che s’impoverisce e diventa magari un misto d’italiano malamente
conosciuto e di americano scimmiottato e malinteso, ebbene, una lingua del genere corrisponde
fatalmente ad un impoverimento del pensiero: e dunque ad un declino civile. Ma lasciamo andare.
Dicevamo dei dialetti. Che succede ai nostri dialetti?… A tale domanda qualcuno subito obietterà:
che vuoi mai che sia se anche i dialetti italiani, oltre alla lingua nazionale, sono in agonia?
Dunque, qualche sera fa ho assistito ad una commedia in dialetto calabrese. Inaspettatamente
ho compreso buona parte del testo e della trama: pur essendo io grossomodo milanese, il senso della
piece mi è stato chiaro. È pur vero che non ci voleva poi tanto a comprenderla, trattandosi della
solita sceneggiata o commedia degli equivoci, condita di frizzi e lazzi, come capita spesso in queste
rappresentazioni strapaesane. Ma insomma, ho capito.
Come ho fatto? Ho fatto perché ormai da lungo tempo i dialetti non sono più quello che
erano una volta. Una volta, ciascuno stato e staterello d’Italia, si sa, aveva la sua lingua, ed era un
dialetto. L’italiano, è noto, non lo parlava quasi nessuno, e questo anche parecchio tempo dopo
l’unità nazionale. I nobili, i borghesi e le persone colte parlavano anch’esse normalmente il dialetto,
come lo parlava il cosiddetto popolino. Insomma quasi tutti. Oppure i più sapienti parlavano in
francese (magari per non farsi capire dalla servitù). L’italiano lo si scriveva solo.
Addirittura, anzi, nelle città d’Italia che erano state capitali dei rispettivi stati (Venezia,
Napoli, Roma eccetera), esisteva non il dialetto bensì i dialetti (al plurale): non un solo veneziano,
ad esempio, ma diversi veneziani a seconda della classe sociale dei parlanti e della loro posizione
più o meno periferica rispetto alla capitale della repubblica. Ma in ogni caso, gli Italiani parlavano il
loro dialetto e non la lingua nazionale, peraltro sconosciuta ai più. Dunque i dialetti italiani erano
quasi delle vere e proprie lingue che avevano per giunta dato vita, in ogni parte d’Italia, anche ad
un’ampia ed elevata letteratura in vernacolo.
Poi arrivarono la Grande guerra, la scuola pubblica, la radio e, soprattutto, la televisione.
Tutti fattori di unificazione e diffusione linguistica. La lingua italiana prese così a diffondersi
davvero (e meno male), ma il vino dei dialetti cominciò ad essere annacquato con l’acqua
dell’italiano. Fu forse questo un male? Fu un male che la lingua nazionale (sia pure di tipo
televisivo) si diffondesse, da Nord a Sud, presso i nostri compatrioti? Certo che no, non fu affatto
un male. Ma che i dialetti, di pari passo, impallidissero e perdessero il loro nerbo di lessico, di
morfologia e di sintassi fu forse un bene? Non lo fu.
Un solo piccolissimo esempio, per dire di come s’impoverirono i dialetti: in quello
napoletano del secolo scorso esisteva, accanto alla forma del congiuntivo imperfetto (se io vulesse,
se io volessi) quella del condizionale (io vurria, cioè io vorrei). Oggi esiste una sola forma, vulesse,
che vale sia per il congiuntivo che per il condizionale. E che cos’è questo, se non un impoverimento
della lingua-dialetto e quindi del pensiero, delle sfumature semantiche ed espressive?
Oggi siamo ancora in una fase di passaggio e i dialetti sono ancora, per moltissimi Italiani,
la lingua nativa e materna, quella in cui si cresce e a cui si ricorre per dar vigore ed efficacia al
pensiero, ai sentimenti, alle emozioni. Ma è una lingua sempre più sbiadita, sempre più vicina a
quell’italiano incerto e di plastica che ci hanno consegnato decenni di televisione (e stendiamo qui
un velo di pietoso silenzio sull’italiano di internet e dei cosiddetti social).
In definitiva, che lingua si parla oggi in Italia? Si parla un italiano televisivo scialbo e
povero, spesso ibridato di anglicismi (sovente del tutto inutili) e si parlano dei dialetti anch’essi
scialbi e diluiti in un italiano povero. Povera la lingua e conseguentemente povero il pensiero che da
essa scaturisce. Dunque, se ci prepariamo a celebrare le esequie dei dialetti (la cui lenta scomparsa
non ha affatto la sua compensazione in un arricchimento dell’italiano corrente) non dovremmo
rallegrarcene, bensì dolercene assai, perché, lo ripetiamo, quando la lingua (o le lingue)
s’impoveriscono, è il pensiero (idee, sentimenti, emozioni) che ne fa le spese.
A lungo (e a torto) i dialetti sono stati fatti oggetto di ostracismo, specie da parte della scuola,
come se fossero una manifestazione linguistica da estirpare a beneficio dell’apprendimento
dell’italiano. Eppure non è così: una conoscenza (critica, s’intende) del proprio vernacolo è utile e
preziosa, anche ai fini dell’apprendimento della lingua nazionale.
Oppure i dialetti sono stati fatti oggetto (e lo sono tuttora) di una compiaciuta e campanilistica
esaltazione strapaesana. Ma questo atteggiamento tende oggi a declinare, mentre si smarrisce la
conoscenza dei dialetti medesimi, che vanno perdendo il loro nerbo lessicale, morfologico,
sintattico a beneficio di un italiano standard sempre più incerto e sempre più connotato in senso
inglese.
Da ultimo: c’è rimedio a tale decadenza? Il rimedio ci sarebbe, forse, se due delle principali
“agenzie” educative, e cioè la scuola e la televisione, si adoprassero per fornire costantemente buoni
esempi di ricco e corretto italiano, ma anche se s’impegnassero per conservare, in modo critico e
non strapaesano o campanilistico, la bellezza e la ricchezza dei dialetti. La coscienza e la
conoscenza della propria lingua (anzi, nel caso dell’Italia delle proprie lingue: quella nazionale e
quella locale) non è ricchezza solo linguistica, è una ricchezza di cultura e civiltà.
Però è inutile agitarsi troppo: tra non molto, chissà, dismesso l’attuale e imperante italo-
americano, cominceremo tutti ad “arabizzarci” o a “cinesizzarci”, come si diceva all’inizio. Della
qual cosa, sia chiaro, non ci sarebbe affatto da dolersi, perché tutte le lingue nel tempo cambiano e
si ibridano, come hanno sempre fatto. Non ci sarebbe niente di male solo a patto, però, che tali
cambiamenti non corrispondessero anche all’involuzione verso una lingua (italiano o dialetto)
sempre più povera e approssimativa.