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23 Aprile 2024C’è un nuovo spot pubblicitario che ha già suscitato polemiche e critiche prima ancora di apparire, cioè prima di essere immesso nei canali televisivi a cui è destinato. Mentre scriviamo, infatti, ci risulta che tale réclame non abbia ancora avuto alcun passaggio in tivù. Oltre a ciò la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che lo spot in questione non è uno solo: sono due spot o, più precisamente, ci sono due versioni differenti della stessa réclame.
Si tratta dell’ultima pubblicità di Amica Chips, le patatine croccanti prodotte dall’omonima azienda mantovana, di cui forse qualcuno ricorderà un’altra pubblicità alquanto discussa, che aveva come testimonial il noto pornodivo Rocco Siffredi ed era piena (ve lo figurate?) di allusioni e doppi sensi sulla… “patata”. Ma questa volta la fattispecie è un poco diversa. Vediamo, per cominciare, qual è la storia narrata in quest’ultimo video.
Dunque, c’è un drappello di suore biancovestite (presumibilmente novizie, data la giovane età, ben condita da idonea avvenenza) che procedono lungo il portico di un chiostro monacale, dirette in chiesa. Qui giunte, le consorelle si dispongono in fila per ricevere, dal prete officiante, la particola consacrata dell’eucarestia. Il sacerdote infatti estrae qualcosa dal calice (ma non si vede che cosa estrae, notare) e la somministra alla prima suora della fila. Quand’ecco il colpo di scena: non appena la sorella chiude la bocca, si ode echeggiare un fragoroso ed iperbolico “scrunch”: il tipico suono, ma amplificato, di una patatina che scrocchia.
Sacerdote e suora rimangono per un attimo basiti. Poi si voltano in direzione del punto da cui pare sia provenuto il suono croccante, e scorgono, in un ambiente attiguo alla cappella, presumibilmente una sagrestia, una suora un po’ corpulenta e rubizza, non giovanissima, in talare nero, che se ne sta comodamente seduta, con un sacchetto di patatine Amica Chips in mano, e che, fissando imperterrita gli altri due religiosi, sgranocchia patatine una via l’altra.
Il pay off dello spot è l’espressione “il divino quotidiano”. Si tratta, come si vede, di uno spot un po’ impertinente: mentre infatti in convento c’è chi è immerso nella spiritualità dell’eucarestia, qualcun altro, una “pecora nera”, è invece immerso in un piacere affatto terreno e mondano. La scenetta, così descritta e limitata a questo che abbiamo detto, può suscitare forse un’innocente ilarità. In fondo viene messa alla berlina una singola suora un po’ buontempona e sfrontata, da cui ben si distingue la nutrita schiera delle altre consorelle timorate di Dio. In ogni caso la scenetta attira l’attenzione sulle patatine e sul marchio pubblicizzato.
Senonché, dicevamo, di questo spot è circolata anche una versione più lunga, più esplicita, più irriverente, anzi, “blasfema” (così è stata definita) e di gusto, aggiungiamo subito, alquanto dubbio. Nella versione completa e integrale dello spot ci sono infatti due inquadrature in più, non certo irrilevanti. La prima inquadratura mostra la suora birichina che prende la pisside (il calice), lo trova privo di ostie e (non si sa se per carenza di altre ostie o per impertinenza) lo riempie di patatine croccanti. Nella seconda inquadratura il calice impugnato dal sacerdote che si accinge ad officiare il sacramento questa volta lo si vede bene: è pieno di patatine, altro che ostie!
È dunque questa versione sacrilega dello spot, quella che ha provocato la protesta, nonché la richiesta di non mandare in onda il video, da parte dell’Aiart (Associazione Italiana Ascoltatori Radio e Televisione; d’ispirazione cattolica, ci consta), nonché la decisione di sospendere la messa in onda dello spot da parte del Comitato di Controllo dello Iap (Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria).
Senonché, ci si domanda, come è potuto accadere che sia già stato visto (e sia ancora visibile in rete, ci risulta) tale versione empia della pubblicità in questione, prima ancora che l’altra, la versione castigata, abbia fatto i suoi passaggi televisivi? Ciò è stato possibile perché tale versione “spinta” – avrebbe spiegato il suo ideatore, Lorenzo Marini – è comparsa sul sito e sui social della casa di produzione che l’ha girata, la Film Good (e anche su altri social). Si tratterebbe, secondo Marini, di una prassi normale: si lancia una pubblicità su alcuni canali, per testarla, per vedere l’effetto che fa, riservandosi poi di procedere agli aggiustamenti del caso (tipicamente dei tagli) onde mettere a punto la versione definitiva, quella destinata ai passaggi in tivù.
Ora, sarà anche vero che le cose stanno così, e tuttavia, ci sembra che social e affini non siano precisamente dei luoghi privati, sono pur sempre dei canali pubblici. Sicché lo spot, nella sua versione “blasfema” è già circolato parecchio nella rete ed anzi pare sia diventato, come si dice, virale. Morale della favola? Questa prima diffusione, forse, si poteva evitare. Forse esistono modalità meno invasive, più riservate e discrete, per verificare la bontà e l’efficacia di un filmato pubblicitario. Oppure è lecito ipotizzare che il risultato sperato era precisamente quello di scatenare un gran clamore, un pandemonio, e far parlare tanto di sé?
E che ne sarà, invece, della versione castigata dello spot? Ci sembra ragionevole supporre che tale versione più breve potrà essere messa in onda, guadagnare i suoi passaggi televisivi, perché in tale versione (quella che abbiamo descritto all’inizio) non si ravvisano, ci pare, gli estremi della offesa ai sentimenti di una categoria di persone (i cattolici).
Personalmente, poi, nessuna delle due versioni arreca offesa alla sensibilità del sottoscritto. Così come non mi arrecherebbero offesa, che so, apprezzamenti sarcastici sul mio aspetto fisico, per dirne solo una. Ma bisogna pur mettersi anche nei panni degli altri. Facciamo esempi diversi. Che ne direste di una pubblicità che dileggiasse i disabili? O di una che mettesse alla berlina la balbuzie di tanta gente? Oppure di un’altra che sbeffeggiasse chi è affetto da pinguedine? O che sbertucciasse le persone di bassa statura? O che deridesse pubblicamente le preferenze sessuali e di genere di una categoria di persone?
Perché una cosa è fare dello spirito, magari un po’ pesante, in separata sede, farlo diciamo inter nos; altra cosa è irridere pubblicamente (è questo il punto), con quel tanto di disprezzo che il sarcasmo e la beffa portano con sé, un intero gruppo di individui e la loro sensibilità. Questo non ci pare affatto bello, non ci pare lecito, ci pare una manifestazione di bullismo mediatico verso una collettività. Questo non va bene. Non è certo segno di buona civiltà. Al contrario.
Sicché, in definitiva, personalmente ci sembra ragionevole affermare quanto segue: pollice verso per la versione lunga e diciamo pure blasfema della pubblicità in questione; pollice alzato, invece, per la versione breve e moderatamente spiritosa dello spot sotto accusa, quale è stata descritta nella prima parte di questo articolo.