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11 Giugno 2022Il risultato del ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi offre un’occasione di riflessione sul funzionamento della democrazia e dei meccanismi di consenso. Considerazioni favorite dalla semplificazione imposta dalla natura del ballottaggio che, come noto, mette a confronto due opzioni secche e quindi inevitabilmente contrapposte (Macron e Le Pen nella fattispecie).
Ebbene, l’analisi della stratificazione del voto (peraltro confermando tutti i sondaggi precedenti il voto) ha fotografato una realtà per certi versi spaventosa: Macron ha nettamente prevalso tra i ceti più colti, più ricchi e nelle città più popolose. Le Pen (che ha conquistato circa il 40% dei voti) ha avuto successo nei piccoli centri e tra i ceti meno ricchi e colti.
Con una regolarità quasi matematica: i parametri “abitanti del comune di residenza” o “reddito” o “livello di istruzione” potrebbero tutti costituire un coefficiente di proporzionalità lineare con il voto per Macron: tanto maggiori, tanto aumenta la percentuale di consenso per il Presidente; tanto minori, tanto prevale la Le Pen. Non è un segno di salute per la società francese. Non tanto, si badi bene, perché divisa in due parti (il che è perfettamente naturale in un ballottaggio) quanto perché le due parti rappresentano mondi che non comunicano. Sembra manchi il concetto di un “futuro comune” di dove andare (insieme).
Vale la pena di cercare di approfondire il fenomeno e trarne qualche lezione in prospettiva per il nostro Paese (che temo corra rischi analoghi). La prima tentazione, di fronte a un risultato così eclatante, è quella di concludere semplicisticamente che il programma di Macron (europeista, molto spinto sui temi ambientali, più consapevole dei vincoli di bilancio, attento al welfare ma con juicio) sia quello “giusto” e che i ceti più progrediti e informati lo abbiano capito mentre i campagnoli, rozzi e ignoranti, si siano bevuti il programma tutto difensivo, novecentesco negli slogan fondanti e (molto) confuso quanto sostenibilità economica della Le Pen.
C’è naturalmente un po’ di verità in questa caricatura ma io penso che ci siano motivazioni molto più profonde e serie. Chi ha votato Le Pen lo ha fatto, magari inconsciamente, senza preoccuparsi punto della verosimiglianza delle promesse. Tanto per capirsi: Le Pen sosteneva che 16 milliards seront économisés en arrȇtant l’immigration massive, altri 15 nella lotta alle frodi, 8 nella riduzione del train de vie de l’Etat, 5 miliardi addirittura seront économisés riducendo il contributo alle UE. Più un libro dei sogni che un programma serio. Un programma molto virato sul welfare assistenziale, sulla lotta all’emigrazione e sul sovranismo (da animalista registro con soddisfazione anche un project de loi contre la maltraitance animale.. brava Marine). Ora, quelli che hanno votato Le Pen, che si sono attaccati a promesse suggestive (aumento dei salari, abbassamento dell’età pensionabile, blocco dell’immigrazione) anche se improbabili lo hanno fatto perché non avevano niente da perdere. Perché, perso per perso, che il Paese vada a ramengo per loro cambia poco: miseria e sensazione di esclusione, di essere ai margini la sentono già oggi sulla propria pelle. Attenzione: credo sia un fenomeno sensibilmente diverso da quello che in Italia ha visto trionfare (nei sondaggi) la Lega salviniana, il partito sicuramente più affine alla Le Pen: in Italia c’è stato un innamoramento collettivo su un tema unico – l’immigrazione – grottescamente e abilmente enfatizzato, che ha fatto pensare che quello fosse IL problema. Tant’è che poi il fenomeno si è sgonfiato presto. In Italia si è trattato di una effimera bolla comunicativa, in Francia il consenso di Le Pen è sicuramente più solido e consapevole.
Ora, se l’analisi sopra è fondata, il segnale è molto grave. Perché viene meno la condizione che Jean Jacques Rousseau poneva come fondante l’esercizio della convivenza: che la società si basi su una progettualità e obiettivi comuni dove tutte le azioni individuali hanno un’implicazione “sociale” proprio perché tutti ne fanno parte a pieno titolo e ne godono potenzialmente i benefici. Al contrario, una società spaccata che non ha, appunto, prospettive comuni, apre la strada a pericolose avventure, viene meno il terreno comune di confronto, la prospettiva stessa con cui si valutano tutti gli avvenimenti.
In Italia, per fortuna, la situazione non è così definita (in compenso soffriamo di una netta, storica, divaricazione tra nord e sud). Ma il rischio è dietro l’angolo. Ed è per questo che temi come la qualità dei servizi, misure “sane” di welfare, un salto di qualità nell’istruzione che favorisca nei cittadini di domani lo spirito critico e la capacità di intelligere quello che accade, il ripristino del cosiddetto ascensore sociale (oggi drammaticamente bloccato) devono diventare punti prioritari di governo. Prima che il cittadino venga del tutto assuefatto all’inefficienza, al collasso del funzionamento della macchina dello Stato e voti per muoia Sansone con tutti i Filistei. L’offerta politica nel nostro Paese presenta al contrario prevalentemente partiti che agiscono senza prospettiva e senza un “orizzonte lungo”. Quasi tutti inchiodati ad una miserrima politique politicienne che al massimo produce proposte di piccolo cabotaggio attenta solo all’elettorato di riferimento. Urge ricreare un senso di cittadinanza condiviso, consapevole e responsabile.
Prima di ritrovarci anche noi nelle condizioni della Francia.