Le forche caudine
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1 Maggio 2018“La tragedia di un uomo ridicolo” è un film del 1981 di Bertolucci. Nel film si narra di un gruppo di terroristi che sequestra il figlio di un industriale e chiede un riscatto di un miliardo di lire. Quando l’industriale si convince che il figlio sia ormai morto, escogita un piano assurdo e truffaldino per salvare la sua azienda dal fallimento.
La trama del film si sviluppa su un doppio binario, quello della tragedia e quello della farsa. La seconda, però, non riesce a stemperare la gravità della prima e la storia appare in tutta la sua drammaticità pirandelliana del tema del doppio.
Perché questa citazione cinematografica? Presto detto. Qualche giorno fa, in occasione delle consultazioni al Quirinale per la formazione del governo, è apparso un video, che in pochi minuti dalla sua apparizione, è circolato nel web con ininterrotta e feroce frequenza. Un signore, dotato di un ego smisurato e di un inguaribile sentimento di onnipotenza, una sorta di consapevolezza di eternità insomma, ha dato il meglio di sé in tema di intrattenimento circense. È un signore che ha vissuto fasti e glorie, e più volte – grazie a una fortunata combinazione di eventi che hanno orientato la sua vita come una luminescente stella cometa – ha segnato la storia degli italiani. In negativo, a mio avviso. Nel bene, a parere di tanti italiani che lo hanno votato. La sua vita politica è stata una parabola che, come suggerisce l’ordine naturale delle cose, ha avuto il suo esordio, il suo apice (fin troppo lungo e tumultuoso) e avrebbe raggiunto adesso il suo epilogo.
Il buon senso suggerisce che, a un certo punto della vita, diventa quasi fisiologico desiderare di cedere il testimone alle nuove generazioni. È un istinto sano e moralmente apprezzabile, e prima o poi raggiunge tutti. Prima o poi raggiunge gli uomini di potere. O quasi tutti gli uomini di potere. Raggiunge gli artisti di spettacolo. O quasi tutte gli artisti di spettacolo. Raggiunge le belle donne. O quasi tutte le belle donne. Insomma, se tale desiderio non insorge, la sua assenza genera confusione e ambiguità, fino a spingere nel ridicolo quanti si rifiutano di rassegnarsi al tempo che passa.
Se non fosse che lo ritengo responsabile di tanti danni, avrei provato quasi tenerezza e pena per quest’uomo, quando si è presentato ai giornalisti dopo le consultazioni al Quirinale. Di sicuro faceva ridere, ma la risata che generava era una risata amara. Davanti agli occhi ci è apparsa una scena neo fantozziana, dove l’ilarità scaturisce dalla percezione di essere altro rispetto al protagonista che, però, incarna proprio quell’alterità che è in ognuno di noi e che allontaniamo con ogni mezzo. Quello che abbiamo visto è un uomo che nasconde la canizie e copre le rughe, mostrando il ghigno di un teschio che non riesce a ridere per paura che si frantumi in mille pezzi. Un uomo che, nonostante tutto, non si arrende alla stanchezza e all’artrosi, alla rigidità delle sinapsi e a un eloquio non più fluido e convincente. Un uomo che, pur di non apparire gregario, si improvvisa ventriloquo del suo leader più giovane e finge di introdurne l’intervento e di dargli la sua benedizione finale. Ma chi glielo fa fare? Mi verrebbe da dirgli. La sua comica dissimulazione del tempo che passa precipita in una tragedia che diventa un monito per tutti noi. Se Pirandello suggeriva una riflessione illuminante e rivelatrice sul contrasto tra ciò che appariamo e ciò che, malgrado le intenzioni, vorremo dimostrare agli altri, bene, credo che questa scenetta, che difficilmente gli italiani dimenticheranno, abbia molte cose da insegnarci.