La scuola che merita
24 Novembre 2022OSSESSIONE IDENTITA’
27 Novembre 2022La lettura dell’ultimo lavoro di Alessandro Campi e Sergio Rizzo mi ha sollevato alcune perplessità. Innanzitutto, per il merito che i due autori si attribuiscono e cioè quello di aver svolto, per primi, una puntuale ricognizione attraverso la Penisola ma deviando anche in Africa, delle tracce monumentali ed epigrafiche ancora presenti del regime fascista. È un peccato non abbiano voluto ricordare neppure uno dei tanti lavori in materia che, nel corso dei settantasette anni trascorsi dalla morte di Mussolini, si sono occupati dell’argomento. «Perché nessuno ha mai fatto il nostro lavoro, andando a vedere cosa è rimasto?» Si è chiesto Rizzo durante la presentazione del volume, martedì 22 novembre all’Ateneo Veneto. In realtà se lo sono già domandato parecchi e talvolta hanno pure fornito le loro risposte sul perché ciò sia accaduto. D’altronde L’ombra lunga del Fascismo è un pamphlet giornalistico e non un saggio vero e proprio, a dispetto della presenza di Alessandro Campi come co-autore, e questo è un limite del volume.
Un altro è dato da quello che io chiamo il “catalogo”: siamo di fronte a un ricco elenco di quanto sopravvissuto fino ai giorni nostri con l’aggiunta di ciò che è stato nel tempo aggiunto per volontà di politici, amministratori e funzionari a vario livello, inclini a ricordare con nostalgia il regime ovvero a dimenticarsi con facilità i suoi crimini. Esaustivo, senza dubbio, ma alla lunga inutile. Contrasta con la natura di pamphlet del libro senza elevarlo a saggio. Semplicemente, denuncia la matrice giornalistica del lavoro, dove l’autore ritiene di aver esaurito il suo compito con la fase della “denuncia”. Visto il tempo trascorso e il perdurare del fenomeno, però, sarebbe forse il caso di passare dalla pura e semplice enunciazione del problema al suggerimento di qualche risposta sul perché persista. Evocare i fantasmi, datati anche loro, di Umberto Eco e del suo Ur-Fascismo o Fascismo Eterno[1], una delle invenzioni meno felici del grande semiologo, o ancora peggio del Tradizionalismo di Julius Evola non ci permette di muovere alcun passo in avanti.
Secondo Eco, il Fascismo è una costante culturale, italiana ma non solo, riducibile a quattordici elementi di base variamente mescolati e arricchiti a seconda dei tempi e delle circostanze, basati sul concetto fondamentale di Tradizione. In base a tale approccio, possiamo rintracciare fascismi a ogni latitudine e in ogni tempo. A partire, almeno, dalla Sparta dei guerrieri Dori. Il punto di partenza di Eco è un clamoroso errore: ritenne, infatti, peculiare del Fascismo non possedere una propria ideologia definita e che in questo differisse radicalmente dal Nazismo, fondato sul Mein Kampf di Adolf Hitler. Ora, stupisce che Eco sia potuto cadere in tale abbaglio, visto che è noto da tempo quanto il Nazismo affondi le radici nella cultura völkisch tedesca, sviluppatasi a partire dal Romanticismo e consolidatasi per più di un secolo, prima che Hitler se ne appropriasse. Quindi non è vero che il Nazismo abbia una base ideologica monolitica fondata su un unico testo sacro, come d’altronde il nome stesso del partito, nazional-socialista, denunciava sin dall’inizio.[2] La conclusione logica, il Fascismo e il Nazismo sono intrinsecamente diversi, è storicamente vera, ma foriera delle peggiori conseguenze: è il primo alimento per la corsa all’alibi e al giustificazionismo tanto cari alla mentalità italica, motore immobile dell’Ombra lunga del Fascismo. Da qui l’equivoco, per esempio sulle Leggi Razziali, viste nella Penisola come mera concessione di facciata all’alleato germanico.
Anche scomodare Evola è fuorviante. È noto come Giulio Cesare Andrea Evola, che si faceva chiamare Julius, appartenesse a una famiglia assai curiosa di sincretisti novecenteschi capaci di esordire come dadaisti, nasce pittore infatti, e concludere come nazisti in uniforme e nell’anima, al punto da vedersi privato dell’uso delle gambe nel corso di un bombardamento a Vienna ormai al termine della guerra. Non c’è dubbio che diversi dei punti salienti del suo pensiero trovino accoglienza nei famosi quattordici punti di Eco e forse l’inventore dell’idealismo magico si sarebbe trovato a suo agio tra gli spartiati nella pianura dell’Eurota. Evola fu anche fascista, ma soprattutto nazista, dunque. Nei fatti e nel pensiero.[3] I neo-fascisti italiani ne hanno fatto un punto di riferimento culturale, senza dubbio, ma questo dimostra soltanto quanto Fascismo e Nazismo siano vicini. Pur nelle differenze, che, infatti, ne fanno due fenomeni storici diversi.
Sarebbe stato più utile per comprendere cosa davvero accada nelle menti degli italiani, incapaci di liberarsi dal fantasma di Mussolini, un’occhiata a un libro di qualche anno fa, ma sempre di grande attualità e cioè Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza del compianto Claudio Pavone.[4] Già in queste pagine, infatti, è delineata la questione della rimozione di cosa davvero sia stato il Fascismo: bastano le parole a commento di un comandante partigiano del calibro di Nuto Revelli, il quale disse del libro di Pavone
Non fu una guerra civile nel senso pieno del termine perché i fascisti per noi erano degli stranieri come e forse più dei tedeschi, li odiavamo più di quanto non odiassimo i tedeschi (…).[5]
Eccola qua la scissione dalla realtà: i fascisti non sono neppure italiani. Appartengono a un’altra dimensione. Ovviamente, lo diventa anche quanto hanno fatto. Per osmosi, si potrebbe dire, dal 1919 al 1945. Gli italiani sono faccenda diversa. Il fascismo, in buona sostanza, non li riguarda, è stato un misterioso incidente della Storia. E chi sono, allora, questi italiani?
Stupisce chi si stupisce: sono il popolo di «italiani, brava gente»? Quello per cui prima di tutto «tengo famiglia»? Subito seguito dall’altrettanto ripetuto «ma io lavoro»? Del perdono a prescindere, perdonare fa sentire bene e poi c’è sempre quella questione, «Scagli la prima pietra…» e via dicendo. Hai visto mai che un domani, passata la famosa soglia oscura, venga anche chiesto come mai tu, proprio tu, ti sia arrogato il diritto di giudicare un fratello? «La trave e la pagliuzza», ricordate? In conclusione, nel fondo della nostra anima restiamo cristiani, anzi cattolici per la precisione, e non è facile liberarsi di duemila e passa anni di egemonia, rinforzata, a partire dal Cinquecento, dallo straordinario fenomeno della Controriforma a guida gesuita. Perché questo è capitato. Il sentire profondo degli italiani è stato plasmato da tale cultura: ognuno fa sempre qualcosa di buono per cui, alla fine, può essere recuperato al fine della Salvezza.
Sulle tendenze appena descritte, che portano a riciclare potenzialmente tutto e tutti, le prove abbondano, ma tanto per non andare troppo distanti pensiamo solo al mulinello di “cambi di casacca” così caratteristici del nostro Parlamento. È risaputo che senatori e deputati abbiano l’abitudine a farsi eleggere in una lista per cambiare appartenenza nel corso della legislatura. Sfruttando una norma pensata a suo tempo per altre ragioni e cioè il diritto di svolgere il proprio incarico senza vincolo di mandato. Il Trasformismo, del resto, è stato a cavallo tra Ottocento e Novecento elevato a dottrina politica. E poi anche loro, i parlamentari, al pari di chiunque altro, «tengono famiglia». Avete osservato la metamorfosi radicale dei Cinquestelle? Sono passati dal voler aprire la celebre «scatoletta di tonno» all’immersione profonda nel suo olio. Il pasdaràn Roberto Fico ne ha appena fatte due in un colpo solo, di immersioni intendo: si è trasferito nel lussuoso ufficio con assistenti da ex-presidente della Camera, uno dei più invisi privilegi della «casta», ed è pure riuscito nella mirabolante impresa di licenziare un bilancio del ramo del Parlamento da lui fino a ieri presieduto con una previsione di spesa esattamente uguale a quella dell’anno precedente: peccato che i deputati, nel frattempo siano vistosamente scesi di numero. Come ha fatto? E non vorrai mica che i vari Crimi e Taverna restino senza stipendio, vero? Hanno già dovuto rinunciare al seggio! Perché la regola in Italia è semplice: chi occupa un posto o non lo molla più oppure viene risarcito con altro equivalente o giù di lì, riciclandolo.
Il ragionamento è indispensabile per decodificare questo libro. La tesi sostenuta andrebbe modificata: l’Italia non riesce a liberarsi del Fascismo perché non affronta il suo passato, in generale. Lo dimostrano le innumerevoli vie, piazze, monumenti intitolate e dedicati a protagonisti del famigerato Ventennio. Non solo, però. Prova ancora migliore di tale continuità la forniscono gli eredi intesi sia in senso genetico, in quanto discendenti diretti del Duce e dei vari gerarchi, sia in modo indiretto e quindi politico-culturale, tutti inseritisi sin dagli inizi ai più alti livelli della nuova, si fa per dire, società repubblicana. Il pensiero corre subito all’analogo fenomeno capitato con la Democrazia Cristiana: il partito è sparito, ma i democristiani, semplicemente, si sono infilati ovunque, da sinistra a destra con evangelica imparzialità. Moltiplicandosi. In modo analogo, si è osservato qualcosa di simile nella dispersione dei vari «rivoluzionari» anti-sistema del periodo sessantotto-settantasette, tutti pur con diverse sfumature comunisti o fascisti, all’interno delle articolazioni di quello che le Brigate Rosse avevano battezzato Stato Imperialista delle Multinazionali. Si sono messi comodi, per così dire.
Scoprire, quindi, che Gaetano Azzariti, già Presidente del Tribunale della Razza, nel 1957, notare la data, lo diventi della Corte Costituzionale, imitato poi nel 1971 da Giuseppe Chiarelli, professore di diritto sindacale e delle corporazioni nel laboratorio ideologico del regime e cioè la facoltà di Scienze Politiche dell’Università per Stranieri di Perugia, non dovrebbe poi sollevare grandi meraviglie. Non erano, forse, dei maestri del diritto? Non sono certo stati gli unici. Siamo di fronte alla più banale delle scuse e cioè la competenza professionale azzera le colpe. Italo Balbo? Un grande aviatore. Volpi di Misurata? Uno straordinario imprenditore. Giorgio Cini? Valente industriale anche lui e mecenate culturale pari al precedente. Michele Bianchi? Un benefattore della sua Calabria. Che poi siano stati tutti fascistissimi non ha troppa importanza. La continuità istituzionale, economica, finanziaria, culturale, spesso anche politica nei cambi di regime è sempre di moda, ovunque. Come ricordava in una serie di lezioni nell’allora Liceo occupato Marco Foscarini uno degli indimenticabili maestri di storia di questa città, Gianantonio Paladini: nessuna frattura, niente epurazioni. Perché in Italia la defascistizzazione, semplicemente, non ci fu. Per consenso unanime di americani, cattolici e comunisti. I soli a essere contrari inglesi, azionisti e anarchici. Come si capisce, gli assi li avevano in mano gli altri e così si ebbe la sciagurata amnistia Togliatti.
Da qui il libro avrebbe dovuto partire. Invece, la scusa con il pretesto, sempre utilizzato, che si sarebbe creato un problema di qualità del personale nei posti chiave dell’amministrazione. Questione vecchia e priva di fondamento: non si vede che talenti speciali avrebbero dovuto possedere i vecchi fedeli del regime. Hanno solo saputo riciclarsi con celerità, questa sì, “fascista”. Sfruttando le esigenze di chi aveva altre guerre da combattere dopo aver vinto la Seconda Mondiale e vale a dire, in particolare, quella diventata famosa come Fredda. È andata così. E i fascisti di ieri ben volentieri hanno indossato panni democratici, da intendersi come democristiani, socialisti, liberali, socialdemocratici, comunisti. Anche perché l’estrema confusione filosofica di un’ideologia sincretistica quale la fascista, dove si possono rintracciare cascami di qualunque corrente di pensiero del Novecento europeo, favoriva il mito di rimanere comunque “fedeli” a sé stessi. Per gli italiani, sono sempre gli altri a essere cambiati non loro. Concetto ribadito di recente dalla nuova presidente del partito Azione, Mara Carfagna, già berlusconiana di ferro date le origini della sua carriera politica.
Italiani gesuiti, quindi smemorati per scelta e anche un po’ schizofrenici. Avrei voluto trovare nelle pagine del volume, che al contrario se ne dimentica, un accenno all’altro problema morale sollevato con tanta acutezza da Claudio Pavone. Perché la retorica fascista del “tradimento” l’8 settembre 1943 al giuramento dato, si deve confrontare, per esempio, con l’osservazione che chi aveva prestato fedeltà al Duce lo aveva in precedenza o contemporaneamente fatto con il Re: tutto ciò, sempre a prescindere dalla dimensione etica di entrambi i personaggi, su cui nel volume spesso si sorvola. Un caso unico al mondo: il doppio giuramento! Scordarsi, poi, i principi dottrinari del fascismo, è fatto comune a tanti che se ne occupano. Finiscono per dimenticarsi della sua natura intrinseca di ideologia della sopraffazione, della violenza istituzionalizzata, dell’annientamento dell’avversario. Tutti dati rimossi dalla coscienza degli italiani. Perché? È un popolo che non riesce ad ammettere di aver commesso nefandezze un po’ ovunque, dalla Libia all’Etiopia, dalla Slovenia alla Grecia, passando per Croazia, Montenegro e Bosnia: ovunque sia transitati, fascio littorio o scudo sabaudo in testa non importa. Eppure Tacito aveva avuto il coraggio di scrivere nel De Agricola, mettendolo in bocca al caledone Calgaco
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (dove fanno il deserto, lo chiamano pace, i Romani s’intende.)
Forse non si trattava proprio di un’autocritica, come spesso sostenuto, però poi scrisse De origine et situ Germanorum e allora i conti quadrano già meglio. Comunque Tacito era romano e stoico, due caratteristiche andate perdute con il tempo.
Gli italiani, invece, il proprio passato lo pretendono per forza a tinte rosa: devono essere i “buoni” portatori di civiltà. Idea distorta che si tengono addosso senza volere mai diventare adulti. Le grandi civiltà, invece, lo diventano quando imparano a guardarsi in faccia, strappandosi i paraocchi della propaganda. Vale come per gli individui: si acquista la maturità accettando di confrontarsi con sé stessi, i propri difetti e gli atti che non si vorrebbe aver compiuto e invece pesano sulla coscienza. In fondo, la risposta alla domanda degli autori è perfino banale: italiani, eterni adolescenti che rifiutano di crescere, gesuiti pronti a qualunque compromesso pur di salvarsi in qualche modo. Assieme alla “famiglia”. Non “brava gente”. Per questo non riescono a liberarsi di Mussolini. Quanto al Fascismo, come ogni fenomeno storico dev’essere riportato nel suo ambito cronologico. Solo lì acquista senso e contorni certi. Altro che Ur-Fascismo: ce n’è stato uno solo ed è finito a Piazzale Loreto. Tutto il resto, è un’altra faccenda. Magari anche solo commerciale. La Disneyland di Predappio, in questo caso, davvero docet.
[1] Umberto Eco, Il fascismo eterno, Milano, La Nave di Teseo, 2018, ultima edizione ma apparso la prima volta nel 1995.
[2] Anche solo la lettura di George L. Mosse, Le radici culturali del Terzo Reich, uscito in edizione italiana già nel 1968 presso Il Saggiatore, si rivela illuminante.
[3] Alcuni titoli, da Teoria dell’individuo assoluto (1927) a Imperialismo pagano (1928) oppure Rivolta contro il mondo moderno (1934-1951) e Indirizzi per una educazione razziale (1941) sono inequivocabili in materia.
[4] Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borighieri,1991.
[5] Antonio Gnoli, «Fucilavamo i fascisti e non me ne pento», La Repubblica, 16.10.1991, p. 35.