
CONO DI LUCE Due libri in cui le case insegnano il tempo
12 Settembre 2021
DRAGHI: DEL REDDITO DI CITTADINANZA CONDIVIDO IL “CONCETTO”
12 Settembre 2021Si è dunque compiuto ancora il rito meraviglioso della Mostra del Cinema tornata al glamour dopo l’edizione forzatamente col freno a mano tirato dello scorso anno.
Certo il solo glamour non basta, certo i divi e i buoni e cattivi film non risolvono uno solo dei problemi di questa città, certo c’è ben altro.. Ma godiamoci la Mostra, percepiamo il privilegio di essere semel in anno al centro dell’attenzione del mondo cinematografico e soprattutto gustiamo la meravigliosa magia di questa arte. Lunga vita alla Mostra del Cinema!!
Come già in altre circostanze, senza nessuna pretesa di essere esaustivo, qualche nota sui film che ho avuto il piacere di vedere.
Cenzorka (107 mothers) – di Peter Kerekes
Film di pura ambientazione che racconta un mondo, nella fattispecie un carcere femminile di Odessa (Ucraina), dove si mostra la vita delle detenute che diventano madri in carcere. Con un focus particolare su Lesya, condannata a 7 anni per un delitto passionale, di cui non sembra assolutamente pentita (e così per la maggior parte delle compagne), che dà alla luce un bambino che al compimento dei 3 anni (vissuti in carcere con lei) deve lasciare in un orfanatrofio perché né la madre, né la sorella vogliono accollarsi il piccolo. Fortuna che c’è la pingue e tenera guardia carceraria..
Film documentaristico, disadorno, una fotografia volutamente piatta, nessuna ricerca dell’effetto facile, nessuna concessione piaciona alla recitazione di cui si apprezza di contro l’autenticità (raro vedere al cinema una rappresentazione così convincente di una stronza come nel breve cameo della madre di Lesya). Bravissimi tutti i bambini.
Tipico film da Mostra, lento, impegnato e un po’ palloso. Che non andresti mai a vedere, né potresti vedere, se non ci fosse la Mostra. Ma che infine sei contento di avere visto. E per questo sei felice che esista la Mostra del Cinema.
Spencer – di Pablo Larrain
Se voleva essere un biopic non ci siamo. Troppo eccessiva, troppo sopra le righe la Diana Spencer rappresentata da Larrain (e da una bravissima Kirsten Stewart). Se fosse davvero arrivata al punto di disperazione raccontato nel film l’indimenticata principessa di Galles sarebbe stata da ricovero immediato altro che divenire la popolarissima stella che fu. L’impressione è che si sia voluta sfruttare la notorietà del personaggio come veicolo di lancio per raccontare una storia con totale libertà di immaginario rispetto alla vicenda reale. Insomma, un’operazione di marketing un po’ ruffiana.
Se, altresì, togliamo ogni riferimento alla vicenda reale, il film allora è una storia di disperazione e prigionia, dai toni “gotici”, alla Daphne Du Maurier o come certi filmoni hollywoodiani, anche se non nella ambientazione e la fotografia. Con molti pregi (sontuosa la rappresentazione della casa e del cerimoniale che vi impera) e molti difetti (passaggi a vuoto, il continuo richiamo al destino di Anna Bolena costituisce un ingombro eccessivo e un po’ manieristico).
Frustante infine per chi, come il sottoscritto, crede di conoscere l’inglese, tentare di seguire la conversazione senza l’ausilio dei sottotitoli.
The lost daughter – di Maggie Gyllenhall
Tratto da un libro di Elena Ferrante. Leda, una 48enne americana (la brava Olivia Coleman), un’intellettuale riservata e un po’ scontrosa, in vacanza in Grecia. Dove si imbatte in una torma di connazionali invadenti dalle cui vicende controvoglia si lascia coinvolgere. E attraverso flash back, via via sempre più fitti (al punto che a un certo punto il film si sdoppia nelle vicende parallele della Leda giovane e di quella attuale), scopriamo che Leda in passato ha fatto scelte particolarmente difficili che ancor oggi lasciano il segno.
Peccato che passino due ore senza un vero colpo d’ala, senza una svolta narrativa che esca dal cincischiare di sentimenti materni, sensi di colpa, tradimenti, gesti incomprensibili. Fino al finale inconcludente.
Assolutamente incomprensibile la scelta della Giuria di attribuirgli il premio per la migliore sceneggiatura.
El otro Tom – di Rodrigo Pià e Laura Santullo
Famiglia monogenitoriale di latinos che vive in California. Lei operaia, il padre si è rifatto una vita in Messico e manda soldi molto saltuariamente (ma non una cattiva persona). Lui è un ragazzino (ma sembra una femmina) “difficile”. Un po’ selvaggio, abbastanza fancazzista, spesso solo perché la mamma lavora e pure parecchio capriccioso. Con una certa tendenza ad atteggiamenti provocatori e moderatamente violenti. A scuola lo classificano come affetto da deficit di attenzione e iperattività e gli danno psicofarmaci per calmarlo (per farne “un altro Tom”, da cui il titolo). La mamma dopo un po’ si stufa, ritiene che tutte queste pillole gli facciano del male (anche per un incidente di cui i farmaci potrebbero essere responsabili) e interrompe la cura. Segnalata per questo ai servizi sociali rischia di perdere la responsabilità genitoriale del bambino.
Quando è nata la nouvelle vague il mantra dei giovani registi francesi era perseguire uno stile scarno, mostrare la vita vera, senza orpelli, senza abbellimenti o drammatizzazioni artificiali. Qui i due registi sembrano voler applicare questi dettami. Del bimbo si è detto, la mamma imbronciata e indurita dalla vita non suscita particolari sentimenti, la scuola e i servizi sociali attenti, si un po’ ottusi ma scommetto che da noi in certe realtà è molto peggio, nessun problema di tipo razziale, la casa in un orrido prefabbricato ma grande e più che decorosa, soldi pochi ma non una condizione di miseria o di disagio sociale, la città anonima e sullo sfondo.. il tema probabilmente centrale nelle intenzioni degli autori, l’eccesso di medicalizzazione, trattato con superficialità. Insomma togli togli, resta lo spaccato “verista” di un pezzo di vita di due individui come tanti. Ma allora o sei Truffaut ed emerge la poesia oppure non lo sei e produci solo noia.
The last duel – di Ridley Scott
Finalmente un “filmone”, cast stellare, kolossal con tutti i crismi (e una bellissima protagonista, Jodie Comer). Ambientato nella Francia del 1300, tratta di un vero e proprio caso giudiziario (realmente avvenuto) di stupro. Lo stesso evento viene raccontato attraverso il punto di vista dei tre protagonisti ma non si tratta (come invece erroneamente riportato dai giornali) di “tre verità” perché tutte le tre versioni raccontano la stessa realtà dei fatti, solo con il punto di vista diverso. Proprio la sostanziale coincidenza dei tre racconti (in particolare la vicenda centrale, ovvero lo stupro della protagonista, è raccontata in maniera pressoché identica da vittima e carnefice) rende forse inutilmente prolissa la vicenda ma resta che le due ore e mezza di proiezione scorrono via godibilissime.
A parte l’assai apprezzabile affresco d’epoca, che ci dà modo di osservare con un certo stupore un’organizzazione e una amministrazione della Giustizia che in qualche modo funziona e che ha regole condivise, pur con gli enormi limiti di applicazione, tanti i temi che vengono toccati. L’amour fou, la considerazione e la condizione della donna (lo stupro è sì per legge un reato ma la vittima è considerata il marito, non la donna stessa), l’amicizia e la rivalità, l’importanza della cultura anche come strumento di affinità, il valore della verità, la superstizione (stride ai nostri occhi che per decidere chi ha ragione ci si affidi al duello), l’ipocrisia della Chiesa. Tutto trattato con discrezione, senza fastidiose pretese didascaliche, senza saccenza.
E l’incantevole Jodie Comer che in alcuni fotogrammi preziosi sembra uscire da un quadro di Van Eyck.. Raccomando vivamente.
L’événement – di Audrey Diwan
Film potente e magistralmente condotto, che costruisce intorno a una vicenda semplicissima un crescendo drammatico da grande cinema. Siamo nella Francia degli anni ’60 dove l’aborto era punito con la prigione. Di conseguenza le donne che obtorto collo si rivolgevano all’aborto clandestino e che per qualsiasi complicazione si ritrovavano in ospedale erano di fatto alla mercè del buon cuore (e delle convinzioni) del medico che doveva certificare se si trattava di aborto procurato oppure, chiudendo tutti e due gli occhi, di aborto spontaneo.
Tocco veramente felice della regista e una grande interprete (che avrebbe meritato la Coppa Volpi se non fosse stato premiato il film). Tutto molto convincente, le piccole grandi meschinità e i gesti di solidarietà di chi sta intorno alla protagonista, la sensazione di solitudine, lo scontrarsi con un muro di rifiuti, di “non è un problema mio”, le settimane che scorrono implacabili.. La regista sceglie felicemente di non fare un film politico e di denuncia (la gravidanza indesiderata è solo il casus belli) bensì un film sulla solitudine e sul coraggio della protagonista che segue con uno sguardo affettuoso ma non invadente. Da vedere.