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19 Febbraio 2024Ho assistito qualche settimana fa ad un incontro pubblico molto partecipato sul tema migranti, organizzato dall’associazione Left Wing al Centro Candiani. Al di là del fatto che sui contenuti non ero d’accordo su tutto – ma è normale – in quella sede sono emersi alcuni dati incontrovertibili che mi hanno fatto riflettere e in particolare uno: il fenomeno migratorio – è emerso negli interventi di tutti i relatori dell’incontro – è un fenomeno strutturale e non può e non deve essere trattato come fosse emergenziale, pena il fallimento di ogni azione per affrontarlo. Ne ero già convinto, ben inteso, ma il convegno, come dire, mi ha rinfrescato il concetto. E mi soffermo su questo aggettivo “strutturale”, perché fa la differenza per qualsiasi azione della politica, intendendo per politica tutto ciò che riguarda le opzioni e le azioni esercitate dalle istituzioni, cioè governi e parlamenti.
Ciò che è strutturale va accettato come fenomeno duraturo, costante, in alcuni casi ineliminabile sempre, o comunque per una lunga durata. Fa parte, cioè, della struttura portante delle dinamiche sociali ed economiche, che nel nostro presente si giocano e si giocheranno sempre più a livello globale. Sarebbe persino ovvio sottolineare il livello globale, ma è sempre bene ricordarcelo. Quanto poi alle migrazioni questa loro strutturalità è addirittura presente da quando è esistito l’uomo scimmia che è in noi; è una considerazione quasi lapalissiana e non voglio, come si dice, ‘stracciarla’; ma anche in tal caso è bene considerare che il fenomeno del migrare è connaturato alla specie umana fin dalla sua origine ed è avvenuto costantemente senza interruzioni. Le migrazioni moderne a ondate durano poi da due secoli in tutte le direzioni, quelle contemporanee che ci hanno riversato in Europa i popoli degli altri continenti durano da almeno ottant’anni e quelle verso l’Italia da quaranta; senza contare quelle interne a tutti i continenti, e interne all’Europa stessa.
Miope non considerarle strutturali.
E se strutturali sono, ne consegue che per la politica istituzionale italiana ed europea è obbligatorio farsene carico al livello più adeguato, il che vuol dire leggi adeguate e non irrealistiche (come lo è per esempio la ormai sin troppo famosa “Bossi Fini”), vuol dire investimenti strutturali, graduati per capacità economiche degli stati e dei contribuenti. Azioni dettate da un semplice realismo, che dovrebbe essere sempre la stella polare della politica. Tutto il contrario di molta politica europea, e italiana in particolare, che sul tema migranti attua invece sistemi e accorgimenti legislativi che in definitiva si segnalano come buona intenzione di voler fermare il vento con le mani. Con scelte irrazionali e ignoranti, nel senso letterale e non offensivo del termine. Non mi esprimo sulla creazione dei centri di raccolta in Libia e in Albania perché sono sufficientemente inesperto sulla loro potenziale efficacia, ma, a impressione, mi sembrano palliativi, magari utili sul breve tempo, che non risolvono la strutturalità del fenomeno, anche al netto delle condizioni di vita brutali che pare esserci in quei luoghi, specie in Libia.
Nel corso del convegno al Candiani un accenno alle cause che provocano questi massicci flussi costanti di migranti l’ho considerato semmai un po’ più frettoloso e superficiale. Oltre al rifugiato politico, che graziaddio è bene o male accettato ormai incondizionatamente, anche per precise norme costituzionali, ma è una minoranza netta, il migrante ‘economico’ si muove da casa sua – è stato detto nel convegno, senza altri approfondimenti- per migliorare le sue condizioni di vita, materiale s’intende. Per vivere meglio quindi.
Ora vorrei osservare che tutte le migrazioni della storia a grandissima maggioranza hanno sempre avuto questa causa di fondo del miglioramento, e lo si legge facilmente in tutti i manuali di storia e geografia. Tuttavia, avanzo dei corposi dubbi sul fatto che oggi, e questa mi pare la novità rispetto al passato, chi emigra o, meglio, la stragrande maggioranza di chi emigra, riesca poi a migliorare realmente le proprie condizioni di vita; un obiettivo in qualche caso raggiunto solo per una minoranza, per quanto significativa in Europa, e risicatissima in Italia. La massa di chi arriva qui da noi, specie in Italia, mi pare che non migliori proprio niente, a volte peggiora le proprie condizioni. Le eccezioni, che pure evidentemente esistono, confermano la regola.
La controprova si ha con il fatto che la stragrande maggioranza di chi vive nei paesi che una volta si dicevano di ‘terzo mondo’ se ne rende conto in anticipo che andandosene si migliora poco o niente. Diversamente, se non avessero questo dubbio, verrebbero tutti a miliardi e ci sommergerebbero, spopolando interamente il loro paese d’origine, cosa che evidentemente non avviene. Infatti, nonostante le masse migranti dal Bangladesh, dall’Egitto, dall’Indonesia, dall’Etiopia, dalla Nigeria, dal Senegal, tanto per citarne, e non a caso, alcuni di significativi, quegli stati continuano ad avere centinaia di milioni di abitanti con densità di popolazione doppie e triple rispetto all’Europa (il Bangladesh grande come metà Italia ha più abitanti della Russia); e le loro grandi città, Dacca, Il Cairo, Djakarta, Adis Abeba, Lagos, Dakar, decine e decine di milioni nella sola area urbana.
E dubito che queste decine di milioni stiano meglio di chi parte; hanno solo capito che non serve. Che il gioco (compreso il rischio del viaggio e la spesa per effettuarlo) non vale, come si dice, la candela.
Tutto questo ragionamento può apparire anche una oziosa elucubrazione, ma mi pare invece una puntualizzazione sulle cause che fanno troppo sbrigativamente risalire all’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita la spinta a emigrare. Semmai la causa di base è, questo sì, ovviamente, non nel miglioramento ma nelle oggettive condizioni economiche e sociali pessime. In queste condizioni Il fatto che muove una minoranza speranzosa di quei paesi, che diventa ugualmente massa, è piuttosto il credere di poter migliorare, e tanto fa. È in definitiva un’illusione fallace che non cambia però la sostanza. I migranti a torto o a ragione comunque vengono e verranno per il loro sogno impossibile e solo di ciò bisogna tener conto. Cercando, a questo punto, di dar loro quantomeno una dignitosa accoglienza e di non far peggiorare la condizione già pessima da cui partono, che può ridurli, come già succede, alla tentazione dell’illegalità per sopravvivere.
Il realismo e il pragmatismo con cui affrontare un dato strutturale come l’emigrazione può far breccia su tutta un’opinione pubblica che è sistematicamente assente in convegni come quello a cui ho assistito. Il fronte solidaristico lì presente dovrebbe prima o poi rendersi conto che se resta chiuso in quella stanza e non parla con il resto del mondo, vivrà eternamente in una bolla. Perché anche l’opinione pubblica che vive con disagio semplicistico ed emotivo l’emigrazione, l’insicurezza reale o anche solo percepita come reale da quell’opinione pubblica, sono fatti altrettanto strutturali, non un’emergenza dettata dalla fobia del momento. Liquidare quell’opinione come portatrice di bassi sentimenti e di egoismo fan parte di quella semplificazione presuntuosa che è la cifra di accompagnamento anche dei migliori sentimenti, soprattutto perché migliori. Se l’emigrazione è strutturale, strutturali sono anche le conseguenze e l’impatto che generano ed è miope risolvere la questione solo con la bontà e l’altruismo in un mondo di cattivi e di egoisti. Facendo leva sul realismo e sul pragmatismo che vede come strutturale l’emigrazione è possibile forse incidere su un’opinione pubblica poco incline alla bontà: “accogli e legalizza l’immigrato non perché sei buono, ma perché ne trai vantaggio e maggiore sicurezza personale: ti conviene”.
I fatti ‘strutturali’, come l’emigrazione, da accettare senza discutere, se tuttavia sono fatti che comunque generano un oggettivo disagio complessivo, percepito o reale non fa differenza – disagio per i migranti e per chi li riceve – sulla lunga distanza, in parallelo alle realistiche politiche di accoglienza, dovrebbero cominciare ad essere affrontati andando anche alla radice delle cause economiche.
Non si tratta tanto di operare sulle cause per quella autocolpevolizzazione che fa risalire la povertà del terzo mondo al colonialismo e all’occidente. E non tanto perché non sia anche fondata tale causa, ma perché risale a generazioni morte e sepolte da decenni, la cui azione colonizzatrice negativa è stupido e antistorico far ricadere sui pronipoti, cioè noi europei e italiani attualmente viventi e, mi si permetta, incolpevoli. Andare a toccare le cause economiche lo si deve fare comunque perché lo strutturalismo del fenomeno lo si affronta con il realismo in patria e con un’azione a monte, più strategica a livello globale. E devo segnalare che nel corso del convegno del Candiani ha fatto capolino anche la necessità di questa azione più strategica, con l’indicazione di cominciare a stabilire quote parti dei bilanci a favore dei paesi economicamente ancora molto depressi. Non è una novità assoluta, è un’indicazione che da tempo si scontra con il dubbio di quali mani politiche ricevono in loco potenziali finanziamenti, dal momento che c’è anche un deficit di democrazia e di trasparenza nelle leadership di molto terzo mondo (per esempio: democrazia l’Egitto solo perché a breve terrà democratiche elezioni?). Tuttavia, è significativo che in un convegno di questo tipo sia emerso, forse per la prima volta in modo evidente, il concetto dell’“aiutiamoli a casa loro”. Il concetto e non la formula, che sappiamo ha tutt’altra fonte. E che fa riflettere. Perché il fatto che Matteo Salvini sia stato il coniatore o, meglio, il ripropositore della nota formula la dice lunga su come tutto il fronte solidaristico, di cui il convegno al Candiani è stato un qualificato esempio, abbia consegnato nel passato alla destra più becera concetti che, se fossero stati presi in considerazione prima, avrebbero spuntato le armi all’ipocrita leghista. Al quale ovviamente frega poco o niente di aiutare i paesi poveri ‘a casa loro’, ma che ha sempre usato la formula per autoassolversi dei respingimenti e di una legge irrealistica che risale al fondatore del suo partito.
In ogni caso con il far venire allo scoperto nel corso del convegno la necessità di un’azione economica strategica contro la povertà, devo constatare un processo di maturazione in questo variegato mondo associazionista che fa della solidarietà la cifra della propria azione. Un mondo che può rappresentare una risorsa se solo solo comincia ad appropriarsi definitivamente di una categoria che latitava tra le sue fila: la complessità. Che non è estranea alla strutturalità dei fenomeni da affrontare, come questo delle migrazioni contemporanee. Ogni struttura è complessa, se no non è struttura.
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Questa considerazione finale fa scattare un suggerimento guida per la politica. Complessità e strutturalità, che van di pari passo, sono caratteri che hanno campi di applicazione anche molto diversi tra loro, spaziando dal fenomeno sociale a quello urbanistico territoriale, dal lavoro all’economia. E non sarà male affrontarli in sequenza nell’immediato futuro su queste pagine con questo metodo, perché possono diventare una vera e propria guida politica che, immodestamente, ci candidiamo ad offrire ai lettori.
Con un’avvertenza circa un rischio. Che il realismo verso tutti i fenomeni strutturali e complessi non porti alla loro accettazione passiva, come del resto non è stato fatto in questo editoriale per le cause dell’emigrazione. Per esempio, le disuguaglianze di partenza sono strutturali nella nostra società, ma non ci piacciono punto.
E questa però è un’altra storia. Alla prossima