Diritti Universali. O “non diritti”
23 Dicembre 2023COSTUME & MALCOSTUME Com’è bella la città!
29 Dicembre 2023Quando ancora i centri commerciali non avevano raggiunto l’attuale livello di diffusione, qualcuno già paventava il rischio di alienazione e di smarrimento connesso al loro moltiplicarsi. Erano gli Anni ’90, e il filosofo e antropologo Marc Augé coniava il neologismo del “non-luogo”. Per lungo tempo questa espressione finì nell’oblio, chissà, forse perché, considerati gli innegabili vantaggi che un congruo risparmio di tempo e un’infinita offerta di prodotti, tutti a portata di mano, favoriscono, non se ne è voluto vedere alcunché di negativo e, men che meno, di pericoloso. Solo qualche mese fa è morto il filosofo e, grazie a un inaspettato ossigeno mediatico, la sua teoria è ritornata in vita da ceneri lungamente lasciate riposare in pace. Anche perché se i centri commerciali sono i luoghi più simbolici, quelli che meglio rappresentano l’essenza del non luogo, dall’elaborazione della teoria del filosofo ad oggi, i non luoghi sono decisamente aumentati.
Negli anni l’intelligenza artificiale ha sostituito in maniera così capillare il lavoro umano che neanche l’intellettuale più lungimirante o il sociologo più acuto avrebbero potuto prevederne l’evoluzione. L’offerta sempre più ingente delle merci negli spazi infiniti dei centri commerciali ha coinciso con una progressiva spersonalizzazione di questi ultimi, dove le casse automatiche, i codici a barre, le mappe interattive disseminate nei corridoi, i QR Code sostituiscono il personale addetto a ricevere e a servire il pubblico. Ed è poi quello che avviene anche negli aeroporti, nei cinema, negli hotel, finanche nelle sale d‘attesa dei poliambulatori.
Uno degli aspetti più rilevanti dell’opera di Augé – di estrema attualità – è la presenza del linguaggio vuoto, tipico di questi spazi senza anima. “Benvenuto, schiaccia il pulsante, digita a destra, componi il numero, inserisci la tessera, estrai la carta”: rappresentano, queste formule, quel linguaggio silenzioso a cui siamo ormai abituati. Quante librerie, quante lavanderie, quanti negozi di alimentari o di ferramenta sono scomparsi in nome di un progresso che ha accelerato le nostre vite chiudendo l’interruttore delle relazioni? A quante occasioni di incontro e di condivisione abbiamo rinunciato per perderci negli spazi ineffabili dei social, che sono poi i non luoghi per eccellenza, cui ben si attaglia il neologismo del filosofo?
L’esperienza del Covid ha accentuato l’isolamento e la spersonalizzazione degli spazi. Anche la scuola, suo malgrado, ha dovuto aderire a una didattica a distanza che le ha permesso di sopravvivere e di non interrompere, pur con dei limiti, il suo ruolo educativo e di formazione. Grazie al cielo, la straordinarietà di questa esperienza non ne ha snaturato l’azione. Trascorsa l’emergenza, insegnanti e studenti sono ritornati nelle proprie aule e hanno ripreso a guardarsi negli occhi, senza il filtro dello schermo.
A tutt’oggi la scuola resta un avamposto – uno degli ultimi – di spazio reale dove l’interazione è la sintesi di storie e di pezzi di umanità che si toccano, si parlano, si guardano, si stringono, si arrabbiano, si commuovono e parlano tra loro a stretto contatto di gomito. È un luogo reale dove si cresce, anche e soprattutto, grazie a una cooperazione tra pari, un luogo dove la trasmissione di conoscenze o l’acquisizione di competenze non può essere demandata all’algoritmo di una macchina. È un luogo dove le lacrime, il sudore, gli afrori tipici di gruppi di adolescenti e l’odore della carta si imprimono nelle ghiandole tubulo-alveolari della mucosa olfattiva e danno quell’inequivocabile sensazione di stare a scuola, e non altrove. È un luogo dove l’accudimento – talvolta necessario -, la comprensione, l’ascolto del disagio non possono diventare oggetto di una chat, ma richiedono una comunicazione viva e calda, a prova di kleenex, di pacche sulla spalla e di sguardi rassicuranti. Elementi, questi, senza i quali mancherebbe qualcosa all’evoluzione di ciascuno. Qualcuno ha ipotizzato che la classe virtuale potrebbe sostituire la classe reale, grazie al potenziamento degli strumenti tecnologici in dotazione. Guai, però! L’eccesso determinerebbe inevitabilmente carenza di qualcosa, e una scuola non-luogo diventerebbe uno spazio vuoto, esangue e privo di battito vitale. Ciò non significa che si stava meglio quando si stava peggio, quando, cioè, la tecnologia non aveva un ruolo così preponderante nelle nostre vite, ma un’aula muta e dei banchi vuoti infliggerebbero un duro colpo alla formazione di chi, si voglia o no, ha in mano il nostro futuro.