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24 Maggio 2021Studenti: meglio ligi o saltafila?
24 Maggio 2021L’editoriale serve a dare senso alle cose scritte che produciamo. A interpretarle e a inserirle in un progetto. Perché prendo in parola Federico Moro, che su questa pagina ci indica con una certa lucidità la necessità per chi esprime pensiero – e aggiungo pensiero di natura civile, politica, sociale, che ambisca a farsi storia – di passare dal dire al fare, colmando il proverbiale mare che sta sempre lì in mezzo (http://www.luminosigiorni.it/2021/05/occorre-un-pensiero-tre-dal-dire-al-fare/). In mezzo al mare tra il dire e il fare ci dovrebbe stare appunto “il progetto”, un’ingegneria pur sempre astratta, che punta tuttavia alla concretezza. Per sgombrare il campo da malintesi: d’ora in avanti desidererei che chi scrive su queste colonne lo facesse come portatore di un pezzo di progetto da condurre in modo condiviso con tutti gli altri, come una tessera di un puzzle che si combina con le altre verso un fine o anche solo verso una prassi. Il concetto di progetto per Federico si incardina nelle quattro domande fondamentali di ogni aspirazione pragmatica: Cosa? Dove? Quando? Come? Ne manca una quinta, che aggiungo io: con chi? Ma il “con chi?” per quanto riguarda LUMINOSI GIORNI l’ho già chiarito prima: con chi scrive su queste pagine e si sente portatore di un progetto condiviso che ambisca, a partire da una piccola testata, ad essere universale, carattere che ogni azione umana dovrebbe sempre possedere. Immodestamente iscrivo questa testata a quelle che Federico chiama “….’comunità operative’, che si auto-organizzano e danno origine a comportamenti emergenti”, la cui proiezione più alta è l’istituzione pubblica, che a qualcuno piace ancora chiamare Stato, termine gravido di malintesi che andrebbe resuscitato nel suo significato originario.
Progetto, sembra facile a dirsi, ma verso dove?
Per la direzione, prendendola molto alla larga, mi servo della lunga disamina sulla guerra, fornita, sempre sulle nostre colonne, da Silvia Rizzo (http://www.luminosigiorni.it/2021/05/la-guerra-metafora-del-900/); che non tralascia nulla, facendo un quadro completo di tutte le implicazioni sociali, culturali, tecnologiche, psicologiche in cui le guerre si muovono e si sono mosse; osservando che, per quanto in diminuzione negli ultimi decenni, esse permangono in forme occulte, simulate, sempre latenti. Ovunque le guerre avvengano lasciano il loro segno, e il bandirle per sempre dalla faccia della terra, quel ‘bandir la guerra’ della nota canzone anarchica “addio Lugano”, dovrebbe essere per l’umanità la sfida del secolo, bandendo anche quella ‘agli oppressor’, su cui invece il testo della succitata canzone ideologicamente indulgeva. Nel senso che le garanzie di ogni assetto istituzionale democratico dovrebbe frenare sul nascere, bandendolo a sua volta a-priori, ‘l’oppressor’. E facendola così finita con l’ipocrisia della “guerra giusta”.
Ma questa riflessione, come tutte le riflessioni sulla guerra, porta sempre lì all’arcinoto teorema di von Clausewiz, che Silvia non può non richiamare e che una volta di più ricordo, perché, pur stracitato in molte circostanze, ai più sfugge il nesso politica-guerra-politica che contiene: “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Ai più il nesso sfugge, oppure i più fan finta di non vederlo, in quanto scomodissimo perchè investe la politica in se stessa e la sua intangibilità, quasi un tabù. E vengo al punto: chi aspira a bandir la guerra ma salva la politica così come la conosciamo e come l’aveva forse in mente von Clausewiz, persegue un fine a metà. Perché in tutta evidenza è la politica che vuole la guerra, sempre: con le armi, in tempo di guerra, e senz’armi ma con altrettanta violenza sociale, verbale soprattutto che è anche peggio, in tempo di pace. Che infatti pace mai non è. Se non si vede o non si evidenzia il male nella matrice politica a monte, anche in tempo di apparente pace, si è semplicemente ipocriti e si occulta la verità: la politica è di fatto guerra civile permanente. E metto così in evidenza una leggera contraddizione nel testo di Silvia quando, una riga prima della citazione clausewiziana, scrive che la guerra è ‘la momentanea sospensione della politica’. No no, nessuna sospensione, è sempre lei la politica, cambia solo armi e continua nel suo essere divisiva con la sua violenza come lo era prima, nella pre guerra e come sarà poi nella post guerra, cioè sempre guerra.
Attribuisco alla politica, o meglio alla politica nella sua banale accettazione attuale, esattamente il carattere che lo scrittore e filosofo Wiesel, citato da Silvia, attribuisce alla guerra: “spezza i rapporti tra gli esseri, li allontana gli uni dagli altri e, sottoponendoli alla pressione della sua persistente violenza, li costringe a disfare anche i loro giuramenti”. Perfetto, ma perfetto non solo per la guerra-guerra, ma anche e soprattutto per la sua legittima madre politica. Quindi la sfida del secolo è doppia, ma deve andare a monte e se non tocca i marcescenti meccanismi della politica per come la conosciamo oggi, sarà del tutto inutile puntare sull’abolizione della guerra, lasciando intatta la sua perversa matrice politica, il vero diavolo dell’umanità. E dico diavolo volutamente e a ragion veduta, il principe delle tenebre, per il suo illuminante etimo greco: Διάβολος (diábolos), da “dividere”, cioè “colui che divide”.
Vero è che questo Διάβολος riguarda la lettura pigra della politica, assestata su una dimensione di democrazia altrettanto pigra, basata sul rapporto conflittuale tra minoranza e maggioranza in una comunità, perennemente in guerra civile tra di loro, sancito da leggi elettorali, come in Italia quella dei sindaci, che inevitabilmente portano al bipolarismo conflittuale con la scusa della governabilità. Governabilità magari anche si, ma governabilità faziosa che non rappresenta tutti, quindi comunque fallimentare. Perchè gli ambiziosi assetti democratici e anzi liberal democratici presenti nelle migliori carte costituzionali, quantomeno in Europa non vogliono questo concetto diabolico divisivo: parlano sempre di coesione sociale, di inclusione, di rispetto, di condivisione soprattutto, di politica come rappresentanza di tutti. Si tratta perciò di riportare la politica alla sua dimensione di garanzia della volontà non della maggioranzina, spesso maggioranza della minoranza, ma della volontà dell’intera comunità, se no, accettando pigramente il meccanismo al ribasso ( voti, rissa partitica, 51%, insomma le alchimie consuete), nulla cambia.
Tornando allo scritto di Federico egli ci richiama ad un altro aspetto, che sempre dovrebbe essere presente nel passare dal dire al fare, vale a dire quello della complessità. Chi non è consapevole della complessità troverà sempre scorciatoie e finirà per cadere nella politica pigra e nel suo essere diabolica, cioè divisiva. Nella complessità bisogna tener conto di tutto e di tutti e non di una propria presunta fazione. Che poi inevitabilmente ci riporta agli “odi di partito” con cui ‘Dio è morto’, come diceva il testo, apparentemente ingenuo ma illuminante, di una vecchia canzone dei miei diciott’anni.
Poi però Federico chiosa il fenomeno complessità scrivendo: “Un progetto serio compie delle scelte e queste, inevitabilmente, finiscono per scontentare qualcuno. Impossibile essere sempre tutti d’accordo quando gli interessi toccati sono molti e conflittuali”. E qui mi permetto di dissentire in modo deciso da quell’ ‘inevitabilmente’, dissentire per capire, perché la sfida che propongo è proprio questa: andare oltre con progetti condivisi da quell’intera comunità che dev’essere invece “tutta d’accordo”, vale a dire quella che si riconosce nel patto istituzionale, un patto largo con una base di consenso larghissima. Perché troppo spesso si indulge su quell’accettazione, anch’essa pigra, della conflittualità su cui casca anche Federico. Sembra quasi che la conflittualità sia una legge ineluttabile di natura, come le piante, le rocce, la forza di gravità. Un’accettazione da riconsiderare.
Che nella complessità gli interessi siano conflittuali o percepiti come tali, che è quasi lo stesso, è un dato di fatto, sarebbe semplificatorio e anti-complesso il negarlo. Che però il conflitto, per non darci guerra civile permanente, debba essere superato dalla mediazione incessante e continua è la sempre più necessaria conseguenza da trarne. La nuova dimensione della politica per me è questa e su questa intenderei chiamare a raccolta i portatori di un progetto targato LG.
Diversamente prevale quella lettura della politica che spesso è sottintesa in una ricorrente frase condita di ipocrita realismo, che, mutate le sfumature lessicali, suona sempre pressappoco così: “amici miei, diciamocela tutta, la scelta qui non è tecnica, ma politica”. E chi la pronuncia, con quella pseudo consapevolezza un po’ cinica di chi la sa lunga, allude al fatto che quella scelta va fatta in modo intrinsecamente di parte, cioè è l’accezione della politica come scontro e prevalere di una parte; e non contento con quella frase vi allude con una punta d’orgoglio, attribuendo a questo carattere selettivo della politica una natura di arte nobile, che sa scegliere; scegliere si, ma solo a favore di una parte, sai che bravura. Scambiando per un passo avanti quella che è invece sempre una sconfitta, un arretramento: insisto, la scelta di parte è una sconfitta. Sempre.
Recentemente la nostra testata ha promosso insieme a ‘Passaggi a Nordest’ e a ‘Ideeventure’ una interessante video conferenza sul tema attuale ‘Ricostruzione e comunità’; in cui uno dei relatori Marco Bentivogli, persona equilibrata e apprezzata, un innovatore, parlando dell’urgenza condivisibile di molte riforme, anche lui si lascia andare ad una considerazione disarmante sulla natura intrinsecamente di parte che dovrebbe avere, secondo lui, ogni riforma, dicendo, più o meno, vado a senso: “Se una riforma accontenta tutti ha già fallito”. Qui sta una disarmante debolezza. Non se ne va fuori. Bisognerebbe invece fare un ragionamento pensando che cosa c’è a monte di ogni riforma. Se è ispirata ai cardini della nostra carta costituzionale non può non essere invece che una riforma che accontenta tutti, proprio tutti o quantomeno coloro che nella carta comune si riconoscono. Accontenta tutti nella misura in cui tutti, se proprio c’è conflitto, accettano di perdere qualcosa nella mediazione riformatrice.
Per essere chiaro e onesto fino in fondo: chi partecipa al progetto di LUMINOSI GIORNI sarà in sintonia tanto più il suo pensiero e i suoi obiettivi faranno coincidere il suo punto di vista con quello della larga maggioranza dei cittadini a cui intende rivolgersi.
Sapendo che una cosa, un’idea, un progetto può essere più o meno giusto a seconda che si sappia anche scegliere il tempo più opportuno per offrirlo. Cito ancora e per l’ultima volta Federico: “il ‘quando’? La medesima risposta non avrà i medesimi effetti spostandosi lungo la linea temporale. Quella giusta nel momento e nel luogo A si può tramutare in errore, spesso fatale, nel punto e nel tempo B: cogliere l’attimo, scegliere l’ora, questo è il punto. Peccato che un dato tanto banale venga così spesso ignorato a causa dell’incapacità di valutare le conseguenze di un ritardo”. O di un anticipo, aggiungo io.
Per fare un esempio di scelta con eccesso di anticipo, il segretario del PD Enrico Letta propone un provvedimento che considero in sé stesso sacrosanto – una sorta di patrimoniale per finanziare politiche giovanili (parliamoci chiaro è qualcosa di coerente con elementari principi liberal democratici, che sempre devono prevedere, piaccia o no, la redistribuzione del reddito, come da art.53 costituzionale) – ma lo propone adesso in questo momento in cui c’è la percezione più o meno fondata di forte impoverimento complessivo nei redditi. Bene. Lui fa questa proposta hic et nunc perché non pensa in tutta evidenza all’intera comunità, ma pensa solo alla sua fazione, la sua parte politica e gli strizza l’occhio per darsi identità. Certo ottiene identità, per carità, ma finisce ovviamente per essere divisivo, diabolico, oltre ad offrirsi facilmente, ma è forse quello che vuole sempre per la questione identitaria, alle strumentalizzazioni dei suoi avversari, per altro maestri nell’arte divisiva. Divisivo anche quando in linea teorica esprime un progetto giusto, ispirato ai principi non negoziabili costituzionali, ma che è veramente tale se espresso con ben altra tempistica, se no scopre l’essere solo un espediente di propaganda E’ ancora e sempre la vecchia politica, la sua, quella di sempre da cui vorrei dissociarmi e far dissociare chi scrive su questa testata. Ripeto: la vecchia politica.
La nuova? Sta tutta nella lapidaria risposta che a Enrico Letta, di fronte alla sua proposta di tassazione adesso, ha dato un giovanotto di 74 anni, a nome Mario Draghi: “Non è questo il momento di prendere soldi ai cittadini, ma di darli”. Facendo intendere con quel ‘non è questo‘ che, poi, appunto, in tempi più maturi e meno ansiogeni, sapendo attendere, “il momento di quella tassa verrà”, sarà letta con maggiori chance di venire accolta e i contrari si dovranno scoprire senza ragioni plausibili rispetto al non negoziabile art.53.
Per chi ci sta nel progetto LUMINOSI GIORNI è detto tutto.