CONO DI LUCE Pascoli di Carta – Le mani sulla montagna di Giannandrea Mencini
16 Luglio 2021L’autogol di Salvini
21 Luglio 2021E’ mancato oggi Leopoldo Pietragnoli, “Poldo”, pietra miliare del giornalismo veneziano e veneto. E immediatamente il pensiero va a questo testimone della città Venezia, nel suo svolgersi nei decenni dell’intera seconda metà del ‘900 e nei primi del secondo millennio. Non invadente, discreto, quanto incisivo all’occorrenza. Testimone non solo da giornalista, ruolo che ha svolto con alta professionalità e intensità, accompagnando nell’informazione tutta la complessa vicenda urbana del Comune e della politica di governo e opposizione in tutte le sue espressioni storiche fino a quelle attuali. Direi testimone anche e soprattutto da cittadino, che sente primariamente l’appartenenza alla comunità, un’appartenenza che supera gli steccati.
Poldo era uomo che costruiva ponti culturali, con una capacità di comunicazione eccezionale, essendo semplice e profondo e con senso dell’umorismo quando ci voleva. Non per caso sarà ricordato con la stessa commozione dal mondo cattolico e da quello della sinistra storica, senza differenze, con una partecipazione trasversale. Perchè la sua frequentazione è stata veramente trasversale. In un momento in cui la città ha bisogno di ritrovare la sua unità per affrontare sfide decisive per il suo futuro, ricordarlo significa lanciare il messaggio che stare insieme a tutti i livelli è possibile.
Lo vogliamo ricordare allora pubblicando, per concessione dell’editore Toletta, un capitoletto da lui scritto tratto dal libro “Sotto lo stesso cielo”, da me curato e introdotto due anni fa nel clima dell’ennesimo Referendum separatista. Il libro raccoglieva testimonianze su come la città d’acqua e la città di terra sono state vissute unitariamente sul piano sociale e culturale.
Lo dedichiamo volentieri a Renata, Maddalena e Lazzaro a cui va il nostro abbraccio solidale.
SOTTO LO STESSO CIELO
SOTTO LO STESSO CIELO
Tanti anni fa, per un articolo su un argomento che non ricordo – forse una statistica sulla agricoltura– mi ritrovai a osservare che con la parola “Venezia” si potevano definire (e quindi intendere) tre realtà diverse: la Città storica, il Comune, la Provincia. Sufficiente, quest’ultima, per far sì che cittadini di località peraltro ragguardevoli di suo – penso a Portogruaro, Caorle, Noale, Chioggia, tanto per citare– si dicessero orgogliosamente “di Venezia” ben fuori dei confini comunali, scontando peraltro uno sgradito contrappasso se automuniti, ché la targa VE li additava come guidatori inesperti, anche se magari avevano imparato a guidare ancora in calzoncini corti…
Nella mia infanzia scolastica c’era dell’altro in più: c’erano una Venezia Euganea (cioè il Veneto), una Venezia Tridentina (che comprendeva anche il Sud Tirolo o Alto Adige), una Venezia Giulia (che inglobava il Friuli, perfino nella Guida del Touring Club). E insieme si chiamavano le Tre Venezie. Se dalla geografa a si passava alla storia, Venezia era quella realtà che aveva concluso la propria esistenza nel 1797, data alla quale si fermava anche la monumentale Storia di Venezia della Enciclopedia italiana, vulgo Treccani, e della Fondazione Cini: soltanto molti anni dopo, si sarebbero aggiunti i volumi sull’Ottocento e sul Novecento cui ho avuto la fortuna di collaborare anch’io.
Ma non divaghiamo.
Che il cielo della triplice Venezia di cui sopra –Città, Comune, Provincia – fosse lo stesso non appartenne alle conoscenze della mia infanzia veneziana di città: gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra non consentivano mobilità, se non per il raro viaggio in treno – dapprima rischioso, poi comunque, fortunoso – verso il paesino friulano della famiglia materna, il cui cielo peraltro (ma forse ero un bambino sveglio) non mi apparve diverso da quello di Venezia. Chissà, forse è per questo che poi, anche se non ho viaggiato molto e l’ho fatto soprattutto per lavoro, mi sono trovato sotto lo stesso cielo al Muro del Tempio di Gerusalemme e al Santuario di Apollo a Delfi , sul Cammino di Santiago o nei vicoli rivoluzionari del Quartier Latino, alla Fortezza di Belgrado e alla Madonna Nera di Czestochowa, nei cieli sconfinati delle Dolomiti o in quelli non visibili nelle Catacombe di Roma.
Ma continuo a divagare.
C’è stata, e ben oltre la mia infanzia, fino agli anni Sessanta, una Venezia – e qui sì, parlo della Città storica – sotto il cui cielo si era sostanzialmente autosufficienti, andando al di là del ponte translagunare per le vacanze o qualche viaggio, limitando a Mestre la visita a qualche amico o parenteemigrato con la prima ondata dell’esodo; ma parentela e amicizia facevano sì che il cielo fosse ovviamente lo stesso, facendo sorvolare sulla grande diversità urbana, quella del traffico motorizzato al posto di quello pedonale, ma lì si parla di terra e non di cielo.
Se la memoria non inganna, il primo rapporto funzionale con la realtà mestrina fu per andare da Coin alle Barche, il grande magazzino su sei piani che a Venezia (Città) ci si poteva soltanto sognare.
Se posso dire la mia, a metà anni Sessanta, giovane dirigente di partito, diressi un ciclo di incontri di formazione politica a cadenza settimanale ospitato al Laurentianum, che da pochi anni aveva avviato un segnale preciso di vitalità culturale in terraferma: non so se quel ciclo abbia dato buoni frutti, spero soltanto di non aver combinato pasticci, comunque posso assicurare che arrivando da Venezia (Città) il cielo mi pareva sempre lo stesso.
Quello che è successo dopo ha squilibrato il rapporto tra le due Città: per restare alla mia esperienza (che in questo caso è la stessa di molti veneziani “d’acqua”), si va a Mestre per una maggiore e spesso anche migliore offerta mercantile in vari settori, ma non mi pare il caso di approfondire troppo l’argomento. Io ci vado anche per il dentista, per Gente Veneta, per il Candiani, per il Centro Le Barche, per quegli incontri (personali o collettivi) per i quali Mestre è luogo ideale di convergenza per lagunari e terrafermieri, ci sono andato per il Gazzettino e per il Municipio: per restare in argomento il cielo mi è sempre parso lo stesso, esclusa una volta che a Mestre all’improvviso è piovuto e ho dovuto comperare dai cinesi un ombrello da tre euro.
Che il cielo sia lo stesso ce lo potrebbero dire meglio le decine di migliaia di pendolari. E a proposito, anche se dovremmo restare distaccati dal tema, alla fine io non dimentico il referendum separatista del 1979, deciso – secondo me – da una “massa critica” trasversale ai partiti: i quaranta cinquantenni nati a Venezia e trasferiti con casa a Mestre, con lavoro (e genitori) a Venezia, moglie e figli al lavoro o a scuola a Mestre. Quelli che ogni giorno, di qua o di là del ponte, stavano sempre sotto lo stesso cielo.
Leopoldo Pietragnoli*
* Di nonni paterni romagnoli e nonni materni friulani, è nato e cresciuto “nicolotto”, da mezzo secolo “castellano”, giornalista professionista, una vita al Gazzettino, poi in Comune, oggi segretario dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. Socio dell’Ateneo Veneto, studioso di storia, ha scritto saggi e libri: su argomenti veneziani.