
JACOPO LUXARDI. La mia città dei prossimi 5 anni
4 Agosto 2020
FEDERICO ROSSI. La mia città dei prossimi 5 anni
4 Agosto 2020Luminosi Giorni, con spirito di servizio al fine di accrescere la consapevolezza per il prossimo voto alla Amministrative del Comune di Venezia, ospita una serie di interventi di personalità che riteniamo offrano spunti di riflessione per un voto ponderato e consapevole. Gli amici che hanno cortesemente offerto il loro contributo provengono da aree culturali, politiche e ideali le più diverse e offrono visioni talvolta molto confliggenti tra loro. Ma mai banali. Come Redazione ci piace pensare di poter contribuire a un confronto sereno e non fazioso sui temi che riguardano il futuro della nostra città. Alcuni degli autori scenderanno personalmente nell’agone elettorale. A loro, indistintamente, va il nostro in bocca al lupo e a tutti, candidati e no, un sentito grazie per la collaborazione.
Sono un cittadino veneziano e un docente universitario. Appartengo probabilmente all’ultima generazione nata e cresciuta in una Venezia storica città a tutto tondo, in cui le sezioni a scuola andavano dalla A alla H, e i turisti erano quelli che mandavi per scherzo fuori strada quando interrompevano le tue partite di calcio in campo. Considero uno straordinario privilegio essere riuscito a rimanere qui, trovarvi un lavoro e una ragione di vita, crescervi un figlio. Conosco le tentazioni della nostalgia. Sì, piacerebbe anche a me tornare alla Venezia di una volta, che voleva dire il Lido di estate, i nonni a Mestre con il cortile magico pieno di automobili, girare pieno di ansia prepartita per i campi di calcio della laguna e della provincia con la nostra squadra del Saccafisola, ballare Madonna in Piazza San Marco durante i mitici carnevali anni ’80. Ma tornare indietro non si può, e francamente peggio della nostalgia – che se non altro può carezzarti l’anima – ci sono il piagnisteo, la protesta ipocrita di chi difende le proprie rendite di posizione senza ammettere che di solo turismo si muore, e la mancanza di prospettiva. Qui, per citare due illuminanti libri recenti, da un lato l’alternativa secca è tra l’estrattivismo selvaggio analizzato da Giacomo-Maria Salerno in Per una critica dell’economia turistica (Quodlibet 2020), e l’enorme potenziale progettuale mappato in Venezia secolo Ventuno (Anteferma 2020 da Sergio Pascolo, che ci ricorda anche come tutte le città del mondo aspirino ai criteri di vivibilità di cui già godiamo nella città d’acqua.
Venezia è la città più vivibile del mondo ma per rimanere città ha bisogno di più cittadini e meno turisti, e per questo può e deve investire con coraggio e lungimiranza per diventare centro internazionale dell’arte e della ricerca. Non sono idee nuove ma sono idee che vanno oggi inserite nel contesto di un’emergenza planetaria ambientale che rischia di sommergerci entro l’arco di vita di mio figlio. Ha scritto lo studioso e romanziere indiano Amitav Ghosh nel suo fondamentale saggio La grande cecità (Neri Pozza, 2016) che viviamo nella consapevolezza che entro pochi decenni Kolkata, New York, Bangkok, Venezia potrebbero essere completamente sommerse, eppure la nostra cultura si occupa prevalentemente di altro. Ci ammonisce che i nostri posteri ci accuseranno di essere stati ciechi a questa condizione e sceglie proprio Venezia come città in cui osservare la combinazione epocale tra cambiamenti climatici e migrazioni di massa. La considera una città così importante per le sorti del mondo da dedicarle un avvincente romanzo incentrato su questi temi e intitolato L’isola dei fucili (Neri Pozza 2019), dove facendo viaggiare il suo libraio protagonista tra la Fondazione Querini, il Ghetto, la Chiesa della Salute, indica anche lo straordinario patrimonio culturale e creatività che caratterizzano la nostra storia e contengono la chiave per il nostro futuro.
Venezia può ripopolarsi puntando su studenti, studiosi e professioni creative (artisti e artigiani), popolazione che è sul breve periodo meno redditizia del turista mordi e fuggi, ma che è meno volatile e porta benefici estesi, creando necessità di altri servizi e altre tipologie di residenti. Che cosa ci hanno mostrato la catastrofica acqua alta dello scorso novembre e il lungo confinamento del Coronavirus se non che nessuna città può sopravvivere senza abbastanza elettricisti, idraulici, case occupate e giovani volontari? E se anche si decidesse cinicamente di abdicare a ogni altra economia, quanto dureranno i pavimenti alla veneziana, gli affreschi e le pietre d’Istria che costituiscono la bellezza di Venezia se non avremo più gli artigiani e i restauratori che sanno prendersene cura? Adesso che usciamo faticosamente dalla pandemia, ricordiamo l’esempio della Serenissima, che dopo le pestilenze seppe rinascere costruendo magnifiche opere d’arte e importando nuovi cittadini e saperi.
A Venezia è riassunta l’arte degli ultimi mille anni e offerta la migliore arte contemporanea. A Venezia si osservano, studiano e ahimé esperiscono quotidianamente gli effetti della crisi ambientale. Che sia l’acqua alta o le strade deserte del lockdown, il mondo guarda sempre a Venezia, e interrogando Venezia, interroga se stesso. Venezia può rimanere oggetto di questo sguardo compassionevole, oppure farsi soggetto e guida della ricerca interdisciplinare sull’ambiente. Ci fu un ministro che disse che con “la cultura non si mangia”, dimostrando insipienza, miopia e provincialismo. Investire in arte e ricerca significa anche investire in un’economia sana che crea nuovi posti di lavoro e nuovi residenti e a sua volta incoraggia un turismo sostenibile. Le istituzioni culturali internazionali sbarcate negli ultimi anni a Venezia sono lì a dimostrarlo: hanno riqualificato spazi, assunto persone, varato programmi che coinvolgono pubblici diversi, attirato un turismo rispettoso e intelligente, promosso la città sui media internazionali. Un esempio virtuoso per tutti quello di Ocean Space, che riesce a concentrare in sé proprio i due cardini del mio discorso, arte e ambiente.
Questo investimento in arte e ricerca può essere paradossalmente aiutato da un effetto collaterale della pandemia, che ha reso il lavoro in remoto non solo una consuetudine ma anche una necessità. E allora perché non lavorare nella città più bella del mondo se quello che ti serve è solo una buona connessione di rete e se quando hai finito le tue otto ore al computer (magari in spazi di lavoro condiviso in modo da avere una sana separazione tra casa e ufficio) puoi essere in una città che per centinaia di milioni di persone al mondo è un posto da sogno. Certo bisogna offrire case, scuole bilingui per facilitare l’insediamento di famiglie internazionali (con benefici anche per le famiglie già residenti) e per tutto questo ci vogliono delle politiche. Bisogna abbracciare la dimensione di città europea e internazionale, non trattando gli stranieri come visitatori o al massimo come generosi e benemeriti mecenati. Ci vuole una forte alleanza tra le istituzioni culturali pubbliche e private di Venezia, che non può che avere una regia politica capace di intercettare finanziamenti europei e collaborazioni globali.
Ecco quindi due proposte, una culturale e una politica, ma di fatto intrecciate. La prima è che Venezia, in un auspicabile partenariato tra Biennale, università e amministrazione pubblica, si doti di un Padiglione della Sostenibilità (o dell’Ecotopia) dove dialoghino e si intreccino i saperi scientifici, tecnici, artistici, e artigianali legati alla sfida alla crisi ambientale. Lo visiteranno da tutto il mondo e potremmo importare ed esportare idee, come nella migliore tradizione veneziana, su come creare città più sostenibili in tutto il mondo.
La seconda è che la prossima amministrazione cittadina, memore della grande tradizione diplomatica veneziana, si doti di un vero e proprio Ministero degli Esteri, un gruppo di ambasciatori di cui facciano parte anche le istituzioni culturali cittadine (a partire dalle università) e che giri il mondo a convincere i loro omologhi a impiantare i loro programmi a Venezia. Ogni istituto creerebbe posti per ricercatori, i ricercatori avrebbero bisogno di una casa, di scuole e dentisti per i figli. Un’università straniera creerebbe posti per insegnanti, addetti alle pulizie e alla contabilità, e porterebbe un numero costante di studenti a vivere qui.
Il filosofo Bruno Latour ci ha ammonito che la crisi del Coronavirus potrebbe essere solo la ‘prova generale’ della vera crisi, quella climatica. Rendiamo allora Venezia capitale internazionale del pensiero e dell’azione su questa crisi incombente. Solo così i bambini continueranno a giocare nei campi, e noi a dare un contributo unico al pianeta.
chi è Shaul Bassi: professore di letteratura inglese all’Università Cà Foscari di Venezia, vanta molte collaborazioni con istituti universali in Italia e all’estero. Autore di una vasta produzione letteraria, con particolare interesse per Shakespeare.