Una legge incompiuta
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19 Aprile 2024Una sola parola: Riconoscimento: “Riconoscere” è un verbo che richiama l’identificare, l’ammettere l’altrui esistenza. Dal lat. recognōscĕre, comp. di re– e cognōscĕre «conoscere» rendersi conto, da qualche segno o indizio, che una persona o cosa si era già conosciuta, o, più semplicemente, rendersi conto dell’identità di una persona, di una cosa.
Vai ad una conferenza, compri il libro, poi lo leggi e una sola parola si trasforma in una nuova chiave ermeneutica di decodificazione del mondo, un’ illuminazione che ti apre ad un’interpretazione del reale in tutte le sue sfaccettature dalle dinamiche relazionali, affettive, politiche, giuridiche, sociali. Il libro in questione è L’ethos del riconoscimento di Lucio Cortella e la parola “riconoscimento” diventa una nuova lente con cui guardare il mondo.
Già Aristotele ci considerava Zoon politikon. Il nostro essere-nel-mondo, secondo Hannah Arendt, ci impone l’agire, il pensare, il parlare. E l’agire ci porta alla coscienza del nostro muoverci in un palcoscenico dove tutti operiamo e parliamo e siamo al tempo stesso attori sulla scena del mondo ma anche spettatori in uno spazio pubblico che è la sfera politica dell’agire insieme che è, a sua volta, lo spazio dell’apparire dove c’è un agente che si rivela agli altri che per ciò stesso lo osservano in azione e gli assegnano identità. Tutto ciò reciprocamente. Anche se spesso ci sono persone che vivono sentendosi costantemente fuori dal contesto sociale, esclusi e relegati nel baratro dell’invisibilità.
Il riconoscimento sociale è proprio uno dei fattori più importanti per quanto concerne la creazione dell’identità. Sentirsi visti è un bisogno umano, è naturale voler essere considerati. Io attendo il tuo riconoscimento per consistere nella mia identità e al tempo stesso riconoscendoti costruisco la tua. “Ognuno di noi giunge alla consapevolezza di sé in quanto è riconosciuto e oggetto di attenzioni e considerazione da parte di un altro o degli altri”. Ovviamente non si può essere riconosciuti senza riconoscere a propria volta chi ci ha riconosciuti. In questa dinamica la reciprocità è necessaria, ognuno è soggetto e al tempo stesso oggetto del riconoscimento. Il non riconoscimento, viceversa, porta a condurre un’esistenza priva di qualsiasi rilevanza, trasparenti agli occhi di chi non ci osserva e di chi non ci riconosce. Essere significa esistere, esistere vuol dire far parte delle cose reali che devono essere riconosciute; senza riconoscimento non c’è senso e coscienza di sé.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di fare in modo che ognuno si senta oggetto di riconoscimento e, quindi, parte della comunità cui appartiene.
“L’altro quindi non è il limite alla nostra libertà ma ne è la condizione: riconosci l’altro come l’altro ha riconosciuto te stesso”. L’azione del riconoscimento mi assegna valore, dignità, e “l’essere guardati”, in un processo intersoggettivo, mi assegna identità. E la assegna all’altro che viene riconosciuto da noi.
In un processo che non è a senso unico: riconoscere ed essere riconosciuti. Necessaria la reciprocità che non sempre, però, necessita di simmetria, vedi il professore e l’alunno.
Ognuno che chiede di essere riconosciuto fa, inoltre, parte di una comunità, perché assume nella sua condotta le istituzioni e l’ethos di quella comunità. La struttura quindi sulla quale si crea un “Sé” consiste in una risposta comune a tutti, poiché l’individuo riconosce e viene riconosciuto sulla base di valori comuni. E’ anche vero che il riconoscimento che avviene sulla base di un ethos condiviso può diventare omologazione, subordinazione e neutralizzazione dell’alterità dell’altro.
Al contrario la negazione di riconoscimento assume due forme: il misconoscimento (méconnaissance) e l’invisibilità che ne è la conseguenza.
Le relazioni di riconoscimento sono, quindi, articolate in modo plurale a seconda del contesto storico e sociale in cui operano.
La prima modalità in cui si realizza il riconoscimento riguarda la sfera delle relazioni sentimentali, familiari e amicali. Prendersi cura dell’altro significa donare il proprio sé e ciò è possibile solo se l’altro viene riconosciuto. Aver cura significa nutrire affettivamente l’altro. L’identità dell’uno presuppone il riconoscimento dell’alterità dell’altro.
La seconda modalità riguarda la sfera giuridica dove ad essere riconosciuti sono essenzialmente i diritti degli individui in quanto riconosco le libertà e i diritti degli altri sotto forma del rispetto.
La terza modalità avviene all’interno della sfera politica, in base alla quale al rapporto orizzontale fra individui subentra un rapporto verticale fra istituzione politica e cittadini. I cittadini sono riconosciuti tali se si sottomettono ad un ordinamento politico quando riconoscono le istituzioni a salvaguardia della loro sicurezza e rispetto delle loro libertà e diritti. Il misconoscimento dei diritti genera lotte per la rivendicazione da parte di quelle minoranze i cui diritti non vengono riconosciuti e tutelati.
E infine la modalità sociale fondata sul sentimento di stima che afferma la specificità individuale che consente la piena realizzazione di sé.
Ecco, ad ognuna di queste forme di riconoscimento corrispondono altrettante forme di misconoscimento. E se il riconoscimento è fondativo della costruzione dell’identità del singolo o della collettività, il misconoscimento è lo strumento di decostruzione dell’identità e genera conflitti che nascono dal desiderio delle parti di essere rìconosciuti, scatenando conflitti interpersonali o battaglie per le rivendicazioni di dignità, autonomia e coscienza di sé. Ergo il misconoscimento è la base dei conflitti interpersonali, intersoggettivi, sociali e, aggiungo, internazionali. Se il riconoscimento è il presupposto dell’autorealizzazione individuale, il misconoscimento è la fonte di tutte le violazioni, i conflitti e le violenze conseguenti.
Tutta la nostra esistenza è giocata, così, su una continua tensione tra questi due opposti. Ed è qui che si ferma la riflessione filosofica sulla parola ed è da qui che, pragmaticamente, il termine riconoscimento, ha acquistato valore di strumento di comprensione e di analisi delle dinamiche dell’uomo sia a livello esistenziale che politico.
Il primo riconoscimento è quello della madre verso il figlio, senza il quale il bambino non si costruisce la sua identità ed è fondamentale per influenzare l’intera vita psichica. Il bambino cerca il contatto del suo sguardo con quello degli occhi delle persone che lo accudiscono per verificarne le reazioni, per avere uno sguardo di cura che coglie e accoglie le necessità di essere rassicurati dei propri bisogni, di essere identificati e riconosciuti nella propria irripetibilità. Il mancato riconoscimento di chi lo accudisce può creare problemi psichici al futuro adulto.
E che dire del misconoscimento nella sfera relazionale e sentimentale? il riconoscimento non è mai dato una volta per tutte e può anche venir meno. Negare o sottrarre il riconoscimento a qualcuno significa privarlo/a di un prerequisito basilare per il suo sviluppo e l’auto-realizzazione. Può diventare una ferita dolorosa frutto della disapprovazione da parte dell’altro. Credo che sia proprio il misconoscimento della libertà, dell’indipendenza e dei diritti della donna alla base delle violenze domestiche o dei femminicidi. Pensiamo alle umiliazioni, alla sottrazione della libertà della donna che diventa succube del maschio, è proprio il misconoscimento della sua identità che la porta a pensare che lei non vale niente e che se lo merita o che non si merita altro che essere umiliata e offesa. Negare il riconoscimento è lesivo, in quanto pregiudica l’idea che la donna ha di sé. La soggettività è compromessa e l’identità lesa, poiché il misconoscimento può provocare il crollo e la crisi del soggetto. Il venir meno della cura nei confronti dell’altra è un’espressione di misconoscimento che porta con sé il messaggio “tu non esisti”, “tu non sei niente” e ciò danneggia gravemente l’autostima e l’integrità psichica. E, inoltre, per l’uomo pensare che l’altra non è degna del proprio riconoscimento nella sua identità e dignità, reifica e de-umanizza l’altra, giustificando ogni gesto, anche il più estremo.
Il razzismo ha alla base lo stesso meccanismo: il misconoscimento della dignità e della identità dell’altro, del diverso secondo il meccanismo per cui io difendo la mia identità misconoscendo la tua, non riconoscendo l’alterità dell’altro. Ha, quindi, uno straordinario potere svalorizzante, discreditante, stigmatizzante e così il mancato riconoscimento sta alla base delle politiche sciagurate nei confronti degli immigrati. I migranti vengono considerati più deboli, inferiori e misconosciuti nella loro individualità e nel loro diritto al movimento, alla libertà e ad esistere, manifestazione di una presunta forma di dominio e superiorità culturale. La loro dignità di esseri umani può essere calpestata in vari modi, dal mancato soccorso in mare o ai respingimenti via terra, alle politiche dell’accoglienza che negano diritti e libertà.
Come le battaglie del passato per il riconoscimento dei diritti sociali e della tutela della classe operaia. O i diritti delle minoranze, che, se non vengono riconosciuti, innescano rivendicazioni da parte di gruppi minoritari che lottano per vedere riconosciuti i loro diritti.
E infine tali dinamiche, che vanno da rivendicazioni di riconoscimento e negazione del riconoscimento di intere collettività, sono la base dei conflitti tra etnie oggetto di misconoscimento da parte di istituzioni statali che negano l’esistenza di gruppi e di popoli con una loro identità che non viene riconosciuta dall’altro. Il nazionalismo con la sua pretesa identitaria misconosce le minoranze che rappresentano una minaccia per la sua integrità. Mi riferisco, ad esempio, al popolo curdo misconosciuto dai paesi nei quali è distribuito e a cui viene negato il diritto ad avere uno stato con tutti i diritti ad esso connessi: confini certi, esercito, leggi, etc. Pensiamo al genocidio dei Tutsi nel Rwanda o dei Rohingya in Myanmar, (per fare gli esempi più eclatanti) a cui era stato negato il riconoscimento ad esistere.
L’aspirazione al riconoscimento, pertanto, è una vera e propria tensione morale che caratterizza i soggetti. E se l’individuo misconosciuto ingaggia una lotta per essere riconosciuto, altrettanto succede ad una comunità che rivendica il riconoscimento antropologico del suo esistere. Ciò favorisce, ovviamente, i diversi fanatismi e integralismi che innescano violenze, conflitti o terrorismo.
Pensiamo, infine, al conflitto che più di ogni altro è una minaccia per l’intera umanità, quello israelo-palestinese dove il più forte, lo stato “ebraico”, nega l’esistenza del popolo palestinese e dall’altro lato Hamas, rappresentante del popolo palestinese, misconosce l’esistenza dello stato di Israele. Qui secondo me sta il nodo. Amos Oz dice che una buona pratica è mettersi nei panni dell’altro per sconfiggere ogni fondamentalismo. Ecco “mettersi nei panni di” significherebbe provare a riconoscere reciprocamente l’esistenza dell’altro per poter accettare la sua identità e per promuovere una convivenza tollerante e pacifica. Invece, l’affermazione del nazionalismo sionistico da un lato e dall’altro la spinta dei palestinesi a difendere il proprio spazio da sempre minacciato, la perpetuazione di un decennale misconoscimento reciproco impedisce la possibilità di un approccio dialettico che possa consentire l’accettazione e l’accoglienza dell’altro, l’identità dell’altro senza che questo necessiti la negazione di se stessi.
Se si ha bisogno di essere riconosciuti per esistere, questo riconoscimento deve essere reciproco e intersoggettivo in ogni sfera del reale.
Una nuova lente per osservare e leggere il mondo.