INCHIESTA. Quale futuro per il PD. Risponde Federica Fratoni
22 Febbraio 2023Sull’astensionismo
2 Marzo 2023Nella contesa tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein è chiaro il tentativo di una virata a sinistra proposta dalla Schlein; con l’appoggio di Dario Franceschini che sembra corrispondere più a logiche di posizionamento. E, rispetto al passato, con l’anomalia della partecipazione, fin dalle prime fasi, degli iscritti ad Art.1.
Il PD è un partito diversificato che ha tralasciato un’opera di unificazione delle sue culture di provenienza, cattolica, socialista e comunista. Un nodo di fondo non sciolto, questo amalgama delle diverse culture politiche “vissute in una condizione di reciproca indifferenza”, come ha scritto Antonio Floridia.
Ma sussiste un altro nodo non sciolto, che complica il lavoro di amalgama: ed è l’atteggiamento verso l’esperienza storica comunista dopo che il percorso comunista si è concluso. Ufficialmente il richiamo al comunismo viene evitato. Eppure, si ha la percezione che una buona parte dei militanti non riesca o non voglia fare i conti con quanto di negativo, in termini di regime totalitario, questo mondo ha rappresentato.
Nella dialettica interna quanto pesa questa parte di militanti? Che abbia peso è innegabile, come si è constatato in occasione delle primarie del 2019, in cui Nicola Zingaretti prevalse grazie all’apporto dei vecchi iscritti con il loro bagaglio culturale tradizionale e la valorizzazione del patrimonio ideologico.
Militanti che confermano una doppiezza di lunga data, trattata da Umberto Ranieri nel libro “Eravamo comunisti”, del 2021. Ranieri, da giovane nel PCI, ripercorre la storia del partito, nella sue varie trasformazioni, con i suoi personaggi prestigiosi e con i suoi momenti di contributo rilevante al progresso sociale del Paese, e con le sue occasioni mancate.
Il libro analizza varie fasi politiche alla luce della tensione comunismo / riformismo. La contrapposizione tra socialdemocrazia e comunismo ha accompagnato la storia del partito, anche quando questo dette prova di concreta capacità riformista; un “riformismo pratico”, accompagnato tuttavia dalla negazione del riformismo in quanto non rientrante nel proprio impianto ideologico.
La politica del PCI – scrive Ranieri – si è dispiegata su un doppio binario, uno pragmatico, di adeguamento alla Costituzione, di integrazione dei propri militanti e sostenitori nell’alveo costituzionale, e di difesa delle classi subalterne; e l’altro nella prospettiva sempre coltivata di superare l’assetto capitalistico, per tendere ad una finale società comunista.
L’ideologia comunista presentava – e presenta – una “visione profondamente teleologica, nel senso di una visione finalistica dello sviluppo storico: il sogno di un’altra società rispetto a quella capitalistica”. E quest’ultima opzione ha alimentato il rifiuto e il disprezzo verso qualsiasi esperienza di stampo socialdemocratico che pragmaticamente poteva essere intrapresa, in tal modo contribuendo all’espansione delle socialdemocrazie quali si sono affermate nei paesi del Nord Europa.
Esisteva nel PCI una cultura di minoranza che verteva su un giudizio non liquidatorio della socialdemocrazia, con Giorgio Amendola tra i rappresentanti più prestigiosi, con la sua denuncia delle corresponsabilità del PCI rispetto allo stalinismo; ma il partito, nella sua maggioranza, manifestava una preoccupazione nei confronti di una sua “socialdemocratizzazione”.
Ed i rinnovamenti successivi non hanno rimosso questa fonte di ambiguità.
Biagio de Giovanni, nel commento alla fine del libro, Quale eredità lascia il PCI? scrive che “Nella massa, rimasta senza la colta direzione mediatrice, prevalgono le rimembranze della promessa di un altro mondo che andava creato”. Permangono il rigetto della casta, il giustizialismo vendicatore, suggestioni che un tempo vivevano dentro “un complicato quadro politico-culturale diretto dall’alto”, mentre adesso sono “resti di una visione senza più il grande disegno alle spalle”.
Salvatore Veca nel commento al libro Perché eravamo comunisti? scrive che il mito fondativo del superamento del capitalismo, ritenuto irriformabile, collassa nell’89 con il crollo del Muro. Invece della previsione marxiana della “irriformabilità del capitalismo”, e della sua caduta, la Storia ci ha riservato l’irriformabilità del comunismo, o del “socialismo reale”, alla luce del fallimento del tentativo di Gorbaciov di riformare dall’interno il sistema sovietico, e della sua successiva implosione.
Il partito comunista è stato uno dei maggiori custodi della lealtà costituzionale e delle regole del gioco democratiche, disciplinando il conflitto sociale durante il suo percorso; e il partito restava un punto fermo, un mito politico, e la lealtà al partito fondamentale, ricorda Veca.
Un ricordo condivisibile; è un mito che ha suscitato passione e impegno, e che in tanti militanti resiste ancora. Ma una lealtà già messa in discussione: si pensi al tiro al bersaglio contro Matteo Renzi, un segretario legittimato dalle primarie, e di cui era conosciuta, prima della sua investitura, la linea politica. Un tiro al bersaglio riuscito, ma che ha minato la credibilità del partito.
Un mito offuscato inoltre dalle dimissioni di Nicola Zingaretti nel 2021 da segretario del PD, con l’accusa alle correnti interne di “pensare più alle poltrone che al bene del Paese“; un gesto insolito, a confronto con l’aurea di autorevolezza posseduta dai vecchi segretari. E adesso, la novità della Schlein non iscritta al partito, e la partecipazione alla contesa di Art.1, un’altra formazione. E’ un mito logorato.
Probabilmente, una delle ragioni per cui , dopo la nascita del PD, non si è proceduto all’amalgama delle diverse culture è che sarebbe stato un processo divisivo, in quanto si sarebbe imbattuto in nodi da sciogliere, e avrebbe provocato reazioni e prese di distanza delle altre componenti. Però, non sciogliendo certi nodi, ne ha sofferto la sua identità.
E oggi? La contesa in atto, con la fumosa mozione presentata dalla Schlein, fa pensare che permanga questa tensione tra un richiamo comunista ed una prospettiva liberalsocialista. Non è da escludere che si continui con questa doppia presenza nel PD, una perdurante fonte di identità confusa.