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19 Aprile 2024Incompiuta: un giudizio che più volte, in ambito psichiatrico, è stato emesso sulla legge Basaglia.
La legge 180 del 1978 rappresentò una svolta storica nel trattamento dei malati di mente; meglio nota come legge “Basaglia”, fu presentata dall’on. democristiano Bruno Orsini, psichiatra. Sostituì la legge n. 36 del 1904, che prescriveva la custodia del malato oltre che per motivi sanitari anche per motivi di ordine pubblico.
La legge aveva come fondamento l’opera di Franco Basaglia e i suoi collaboratori negli ospedali di Gorizia, Colorno e Trieste. La sua approvazione seguì un iter velocissimo, per due motivi principali: evitare il referendum indetto dai radicali per l’abrogazione della legge del 1904, al fine di chiudere i manicomi, per il quale non era da escludere la reazione negativa di gran parte della popolazione; ed evitare uno scontro, nelle fasi del dibattito, che avrebbe provocato divisioni tra le forze politiche in un paese in allarme per il terrorismo delle BR, a soli pochi giorni dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.
Il fine della legge 180 era la chiusura dell’istituzione manicomiale. All’art.6 si legge: “Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri”. E all’art.7, riguardante il “ Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica”, al comma 7) si legge : “E’ in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche.”
Questa disposizione legislativa drastica, prescrivente un’immediata attuazione, non ne valutò l’impatto: provocò innumerevoli problemi sia agli ospedali comuni sia difficoltà insormontabili a tante famiglie che sperimentarono le difficoltà e la sofferenza di convivere con un familiare dimesso all’ospedale psichiatrico; anche situazioni peggiorative per lo stesso ammalato, dato che spesso l’ambiente familiare aveva contribuito al disturbo mentale. Oltretutto, nella situazione di emergenza che ne conseguì, la mancanza di disponibilità negli ospedali civili favorì il trasferimento dei malati in cliniche private, con grande beneficio di queste ultime.
Ebbe buon gioco lo psichiatra e scrittore Mario Tobino , che operava nell’ospedale psichiatrico lucchese di Maggiano, a scagliarsi contro i “novatori” che sostenevano il nuovo regime sanitario.
La 180, salvo poche eccezioni, risultò irrealizzabile nell’immediato per l’impossibilità di procedere alla chiusura dei manicomi su larga scala, e altresì monca per la mancata trattazione della parte organizzativa.
Il suo aspetto positivo fu il messaggio, il cambio di atteggiamento nei confronti della malattia mentale che non doveva essere considerata uno stigma, ma una condizione di insania da trattare come oggetto di cura e di studio. L’attività di Basaglia e dei suoi collaboratori ebbe il merito di produrre una sensibilizzazione di medici, operatori della sanità, e a lungo andare di cittadini.
In verità già da tempo, sull’esempio della Gran Bretagna con le sue comunità terapeutiche, erano stati avviati fin dai primi anni ’60 anche in Italia esperimenti di cambiamento, a Trieste, Perugia, Arezzo, Reggio Emilia, e di umanizzazione dell’esperienza manicomiale. Anche in Italia vari ospedali psichiatrici non erano più i luoghi impenetrabili e maleodoranti di un tempo.
La posizione di Franco Basaglia era radicale, tendeva ad una organizzazione tipo rete di appartamenti anti-crisi, una formula già sperimentata in Inghilterra. Basaglia puntava all’abolizione dell’ospedale psichiatrico come apparato principe di controllo : psichiatra decisamente anti-istituzionale, fu considerato – a torto o a ragione – uno degli esponenti del movimento antipsichiatrico: è difficile appurare quanto lui stesso supportasse le posizioni antipsichiatiche.
La spinta antipsichiatrica fu un fattore di esasperazione del dibattito, tra i medici e nella società. I sostenitori dell’antipsichiatria consideravano la psichiatria una disciplina finalizzata a curare e contenere i disturbi psichici considerati prodotti delle “contraddizioni sociali” derivanti dall’assetto socio-economico; lo psichiatra e la sua prassi erano funzionali al mantenimento dell’ordine “borghese” che andava abbattuto. La salute psichica era un concetto relativo. L’antipsichiatria si coniugava con l’antiautoritarismo delle giovani generazioni, per cui Il delirio e la follia venivano spesso idealizzati come manifestazioni di stampo antiautoritario, come momenti di ribellione; gli psicofarmaci erano considerati come camicia di forza chimica. E, in tempi di ubriacatura ideologica, si predicava che il superamento del capitalismo avrebbe comportato la sparizione o quasi del disturbo mentale.
“La dimissione [ospedaliera] – essi dicevano [gli antipsichiatri] – è la restituzione al contesto di provenienza della contraddizione di cui il malato è portatore, perché essa vi esploda e riveli il suo vero volto di repressione classista. E anche dicevano: il malato mentale ha la funzione di “detonatore sociale”. (Luciano Del Pistoia, Psichiatria e ideologia, http://www.rivistacomprendre.org/ Fascicolo n.10, sul confronto tra ideologie e conoscenza psichiatrica).
Fu una legge controversa, e soprattutto incompiuta. Da parte delle amministrazioni pubbliche fu scarsa la collaborazione per l’attuazione della legge: si trattava di trovare strutture territoriali idonee al trattamento dei malati. Lo psichiatra Giovanni Del Poggetto portò a termine la chiusura dell’ospedale lucchese di Maggiano nel 1999, e illustra compiutamente in un suo saggio le difficoltà incontrate per reperire nuove strutture e risorse per gli ammalati, oltre alle resistenze alla chiusura da parte del personale sanitario dipendente. “In realtà le risorse sono state chieste continuamente, [all’amministrazione delle USL] ma la risposta positiva è stata rara…..Adesso, chiuso il manicomio, i disabili psichici continuano ad esistere sul territorio e, per ovvie ragioni, ad avere necessità di un tetto, di cibo, di un lavoro, di essere inseriti in una rete sociale accettante e solidale….In conclusione dobbiamo contrastare la tendenza di passare da un tipo di Semplificazione Terribile attivamente e costosamente organizzata dalla Società (il Manicomio), ad un altro tipo di Semplificazione, caratterizzata dal disimpegno della Società, totalmente disattenta all’efficacia dell’azione svolta, molto attenta, invece, al risparmio delle risorse: per questo, talora, Semplificazione non meno Terribile.” (Si veda il saggio Possiamo parlare di salute mentale? In Metodo n.18/2002, www.GiovanniArmillotta.it )
Gli operatori psichiatrici, gli infermieri, in buona parte si trovarono abbandonati, ma soprattutto non vi fu una attività di formazione che la nuova organizzazione territoriale comportava.
Lo psichiatra Giovanni Jervis collaborò con Basaglia all’ospedale di Gorizia, poi si distaccò dal gruppo e andò a operare a Reggio Emilia. Nel 1975 Jervis pubblicò il celebre “Manuale critico di psichiatria”, in cui il malato veniva considerato in una prospettiva di svantaggio sociale: “E’ la struttura sociale che causa e spiega il manicomio” scriveva Jervis, e il manicomio veniva analizzato in varie sue funzioni, visto come garante dell’ordine pubblico, come centro di potere che si autoalimenta sulla base delle sue relazioni con il potere politico; una visione decisamente di classe, piuttosto radicale. Con il tempo Jervis muterà sostanzialmente questa sua visione.
“In ‘Dove va la psichiatria’, un volume a più mani edito da Feltrinelli (1980), Jervis denunciava già apertamente il fatto che «migliaia di persone» fossero «abbandonate a se stesse», il «dilagare degli psicofarmaci» e degli ospedali privati, «sovvenzionati e non migliori di quelli pubblici». Ma non imputava tutto questo a Basaglia, che per lui era «del tutto innocente» rispetto alle conseguenze della legge nata con il suo nome. Semmai a un clima culturale e agli errori delle istituzioni”. Da La Stampa del 3.8.2009 “Jervis, l’altra faccia”.
Jervis ha sempre insistito sulla preparazione del personale sanitario, medici ed infermieri, ai nuovi compiti che la creazione di centri di ricovero sparsi sul territorio avrebbe comportato. Un’assistenza articolata su strutture facenti parte della rete socio-assistenziale del territorio non poteva riprodurre l’approccio medico manicomiale. “La mancata elaborazione di saperi e di strumenti adeguati ai nuovi compiti a cui gli operatori di salute mentale sono chiamati all’indomani della chiusura dei manicomi, è stato uno dei grandi limiti della Legge 180” ( G. Jervis, “Contro il sentito dire”, nell’Introduzione di Massimo Marraffa, BollatiBoringhieri 2014.)
E Luciano Del Pistoia: “Il manicomio è un attrezzo d’altri tempi e guasto per giunta. Va cambiato o sostituito con qualcosa di meglio. Per i francesi, che ho visto al lavoro, si tratta di rinnovare un pubblico servizio del loro Paese, orgoglio di tecnici, utilità generale. In Italia, si tratta invece di fare una crociata di fede pro o contro il manicomio, si spacca in due la nazione. Ma là c’è lo Stato, qui ci sono solo i partiti” [Così scriveva Luciano Del Pistoia, nel libro Il giardino delle statue di sale”, Ed. Pacini Fazzi , 1997. Un libro sugli anni del cambiamento nell’ospedale psichiatrico lucchese di Maggiano-Fregionaia, con ritratti e storie di vari pazienti, in uno scenario di disaccordo tra psichiatri di varie tendenze, ricordando le tante problematiche mediche e umane della gestione dei malati, tipo il momento di deciderne le dimissioni o meno.]
Sulla base dell’esperienza di Gorizia, si doveva passare da un’assistenza centrata sul grande ospedale psichiatrico ad una assistenza articolata nella rete assistenziale del territorio. Probabilmente, lo smantellamento dei manicomi e la costruzione dei presidi territoriali avrebbero dovuto essere due processi contemporanei e complementari .
Comunque, nessun sistema di assistenza può fare a meno di luoghi di ricovero. Non c’è altro mezzo per contenere l’acuzie, il momento dirompente della follia. E gli psicofarmaci, oltre a contenere e cercare di curare la malattia hanno, quando possibile, consentito di avviare un contatto con il paziente.
E adesso? Adesso si mette in rilievo la necessità di riorganizzare i Dipartimenti di Salute Mentale attraverso modelli organizzativi elastici, che prevedano diversificazione e specializzazione delle strutture da dedicare a bisogni specifici, a seconda del disturbo: Esordi psicotici, Disturbi del comportamento alimentare, Disturbi di personalità gravi, Autismo, autori di reato). C’è bisogno di personale specializzato in salute mentale, anche perché a differenza di altre branche della sanità che necessitano di costose apparecchiature tecniche, la psichiatria si fonda sulla relazione terapeutica, sul capitale professionale. Si esprime una esigenza, quella della formazione del personale, già denunciata all’indomani dell’entrata in vigore della legge.
E’ da considerare che in tutti questi anni è cambiata l’utenza; rispetto al passato caratterizzato da pazienti con disturbi psicotici, bipolari gravi, depressivi, sono aumentati i disturbi di personalità, i deficit di attenzione e iperattività, l’autismo, e i disturbi derivanti dall’uso di stupefacenti. (Il riferimento è all’articolo di Emi Bondi, Presidente della Società Italiana di Psichiatria, Legge 180. Sip: “Norma rivoluzionaria da riposizionare nel nostro millennio” – Quotidiano Sanità 12.5.23.)
Si vedano a tal proposito anche i rapporti sulla salute mentale del Ministero della Salute, sulla preminenza attuale di certe forme del disagio mentale e sulla differenza rispetto al passato: schede regionali riferite al 2022 https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3369_0_alleg.pdf .
Sussiste inoltre il problema delle REMS, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, di cui alla legge 81/2014, che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari, i vecchi manicomi criminali, il cui numero è giudicato insufficiente. Le REMS dipendono dal Ministero della Giustizia, e comportano problemi particolari. Finchè un malato definito totalmente o parzialmente incapace di intendere e di volere non sia giudicato degno di dimissioni dagli psichiatri – qualora ciò sia possibile -, la sua custodia è imprescindibile. Secondo le dichiarazioni della psichiatra Bondi , in attesa di essere presi in carico dalle REMS, gli autori di reato vengono affidati alle strutture sanitarie, con problemi di sicurezza per gli operatori.
Questa è la richiesta condivisa da tanti psichiatri e operatori sanitari: fondi, investimenti, e formazione del personale . Una richiesta ancora non soddisfatta, nonostante l’avvicendarsi dei tanti governi, e legata anche alla disparità organizzativa e qualitativa dell’assistenza regionale.