Un vecchio nodo, nel PD
24 Febbraio 2023Politiche sociali: aprire ai privati altro che “pubblico è meglio”
4 Marzo 2023L’ignavia è un male antico. Tanto l’ignavia delle relazioni quanto quella della politica. L’ignavia è stata osteggiata dagli intellettuali di tutti i tempi, che hanno sempre sottolineato il valore della partecipazione alla cosa pubblica.
Aristotele sosteneva la naturale predisposizione dell’uomo alla vita politica. Lo zoon politicòn altri non era che il cittadino attivo che prendeva per sé e per i suoi simili le decisioni più giuste e funzionali.
Dante scaraventa, senza appello, nel vestibolo dell’inferno, gli ignavi, costretti, per una fatale legge del contrappasso, a correre per l’eternità, dietro a un’insegna, punti da mosconi e vespe. È la punizione che il poeta infligge a chi nella vita non ha mai assunto, nel bene o nel male, una posizione attiva, né si è lasciato guidare da passioni o da ideali.
La storia della nostra cultura pullula di nomi di donne e uomini che si sono spesi per rendere incisive le proprie idee e dare ad esse un’efficacia politica che fosse a beneficio di tutti. E sono gli stessi nomi che rappresentano un faro, una guida, un esempio per tutti quelli che credono nell’apporto che ogni singolo cittadino può offrire alla collettività. Che è poi l’essenza della vita democratica.
La cosa sconvolgente è che esiste ancora un folto numero di persone che ostenta l’estraneità da ogni posizione di parte, come se l’affermazione non mi intendo di politica fosse un assioma di cui vantarsi. O semplicemente un espediente per evitare coinvolgimenti in discussioni o attacchi o critiche da chicchessia.
Tempo fa, in un’intervista per la tv spagnola, Laura Pausini, invitata a cantare “Bella ciao”, si è rifiutata perché contraria a strumentalizzazioni di bandiera. È molto probabile che si sia trattato di paura di schierarsi (immotivata, dato che la lotta partigiana è stata trasversale a formazioni di diversa matrice). Una paura, in questo caso, dettata dalla ragione opportunistica di non deludere fan che non si riconoscono nella canzone del partigiano. Grazie al cielo, però, si tratta di un caso sporadico. A fronte della caduta di stile di una singola cantante, il mondo dello spettacolo è pieno di artisti che non nutrono pregiudizi nei confronti della politica, vista invece come un’arte nobile a servizio della collettività, ed esprimono orientamenti ben precisi e di parte.
C’è da dire, però, che la sfiducia nei partiti genera qualunquismo e ottenebra il senso critico degli elettori. L’attitudine a non cogliere differenze, a non documentarsi sui programmi, a non valutare in modo oggettivo l’operato di chi fa politica è figlia di questa sfiducia e mina nelle fondamenta le istituzioni democratiche. L’assioma del fanno tutti schifo, urlato senza criterio e senza distinzione alcuna, si è ormai propagato come un virus tra gli elettori ed è spesso il sintomo di un’ignoranza di fondo mascherata da sterile polemica.
Ed è quanto è avvenuto nelle ultime elezioni regionali di Lazio e Lombardia, in occasione delle quali si è registrato, come sappiamo, un preoccupante livello di astensionismo. Sfiducia, qualunquismo e – come sostiene qualcuno – depressione hanno indotto molti cittadini, soprattutto giovani, a credere che il proprio voto non avrebbe determinato alcun cambiamento, né avrebbe migliorato le cose. È quello che Bertold Brecht definisce analfabetismo politico: la distanza della politica dalla vita reale impedisce di comprendere che, disertando le urne, gli elettori subiranno sulla propria pelle gli effetti di questa non scelta scellerata, che sono gli aumenti del pane e della benzina o i mancati aiuti alla scuola o i tagli alla sanità. È un analfabetismo che ratifica una perenne condizione di sudditanza ad appannaggio di una minoranza attiva che decide per tutti.
Rinunciando al voto rifiutiamo un potente strumento di crescita e di giustizia, ci rifiutiamo di credere nel nostro potere, convertendoci in soggetti senza qualità, ciechi, sordi e indifferenti alle nostre sorti.
L’indifferenza, predicava Moravia, produce passioni tristi, noia e disagio, ma nella politica può rappresentare un pericoloso crinale, oltre il quale sono messi a rischio l’esercizio stesso della cittadinanza, l’accesso al mondo del lavoro, il ridimensionamento della povertà, un miglioramento delle condizioni di giustizia sociale.
L’analfabetismo politico è frutto di un analfabetismo strutturale e complesso. Che è ben più drammatico di un’Italia che va a destra, anzi ne è in qualche modo l’artefice. Per emanciparsi occorre scegliere, votare, recarsi alle urne, e per scegliere è necessario istruirsi, laddove – come sosteneva Antonio Gramsci – l’istruzione è l’arma vincente contro la deriva delle istituzioni democratiche. Una cultura della legalità e della cittadinanza, raggiungibile solo con una istruzione robusta e una scuola opportunamente potenziata, può rompere la bolla dell’ignavia nella quale al momento galleggia il sessanta per cento degli italiani.