
LA CITTÀ FUTURA di Maurizio Cuman. Focus su: Commercio
15 Febbraio 2024
L’informazione ai tempi del sovranismo
17 Febbraio 2024Al 25 gennaio, erano 11 le persone ad essersi tolte la vita in carcere quest’anno; 152 negli ultimi due anni. Numeri impressionanti per la loro consistenza e allarmanti per il loro significato.
La semplice constatazione del dato quantitativo, infatti, consente di cogliere la gravità del disagio, della sofferenza troppo spesso tradotta in disperazione, che deriva da una restrizione che va ben oltre la mera privazione della libertà e che ci costringe ad interrogarci sulla qualità di un sistema nel quale la misura della afflizione eccede largamente i limiti del consentito in un Paese civile, governato da una Costituzione democratica.
Il senso di quelle morti, tuttavia, è ancora peggiore: non abbiamo potuto (voluto?) evitarle.
Cerchiamo di capirci. Noi accettiamo che la legge preveda la privazione della libertà personale di coloro che sono stati riconosciuti colpevoli di reato perché riconosciamo allo Stato il diritto di infliggere pene e di farle eseguire. Nondimeno, l’espiazione non è e non può essere espressione di un potere arbitrario, incontrollato e, soprattutto, implica l’assunzione del dovere di custodia, con tutto ciò che ne deriva. Conseguentemente, chi ha il potere di restringere è gravato dall’obbligo di proteggere, assicurando l’adozione di tutte le misure necessarie a garantire condizioni non contrarie ai principi umanitari (sono parole della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo) e, quel che più conta, la sicurezza di persone che non dismettono la qualità di esseri umani soltanto perché detenute.
Un suicidio è una tragedia; il suicidio di un detenuto è, anche e soprattutto, una sconfitta, prodotto di un deficit di sorveglianza ormai intollerabile.
Le cause di tutto ciò sono molteplici e vengono da molto lontano.
In primo luogo, le strutture penitenziarie sono inadeguate e rispondono ad esigenze di mera segregazione. Per molto tempo – per alcuni: ancora oggi – si è pensato che il carcere debba essere un luogo inospitale nel quale ammassare le persone private della libertà. Sbagliato. Le condizioni del luogo non devono rappresentare un ulteriore fonte di sofferenza, tale da rendere la vita insopportabile. Veniamo ai numeri, per non limitarci alla pura filosofia: le statistiche dimostrano che il numero dei suicidi è inversamente proporzionale alla qualità delle strutture.
Non solo edifici inadeguati, ma anche carenza di uomini professionalmente attrezzati. Mi riferisco alla cronica carenza di personale che costringe gli operatori penitenziari a turni, a volte, massacranti che impediscono un efficace lavoro in materia di prevenzione e protezione. Una rapida lettura delle rivendicazioni dei addetti alla sorveglianza renderà chiaro il concetto: manca il personale e non sempre quello disponibile è in grado di cogliere i sintomi del malessere che anticipano gli atti anticonservativi.
Terza questione. Non deve sfuggire il fatto che, nella maggior parte dei casi, i suicidi riguardano persone che sono in custodia cautelare (quindi in attesa di giudizio) oppure che sono condannate a pene non particolarmente severe; persone che, forse, avrebbero potuto confidare in un futuro migliore, insomma. Inaccettabile.
Infine, una causa ulteriore è data dalla mancanza di supporto psicologico, conseguenza, anch’essa della carenza di personale specializzato e di strutture di agevolazione al reinserimento. Il principio costituzionale secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato ne esce distrutto.
Migliorare si può, anzi, si deve.
Intanto, occorre ridurre il pericoloso sovraffollamento delle carceri, causa di insicurezza e fonte di inutile sofferenza. Il nostro Paese è stato censurato dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo per le condizioni inumane di detenzione, risultando inaccettabile la disponibilità di poco più di un metro quadro pro capite. E, d’altra parte, non posso non sottolineare come le misure alternative al carcere abbiano sensibilmente ridotto la recidivanza.
In secondo luogo, il carcere non è la discarica sociale, ma il luogo in cui si espiano le pene. Se questo è vero, il carcere non e’ la soluzione di (tutti) i problemi connessi al proliferare dei crimini, ma, a volte, ne diventa la fucina.
Infine, il muro dell’indifferenza dev’essere abbattuto.
Un tempo, si parlava di “pianeta carcere”, quasi ad indicare la collocazione dei penitenziari su un satellite perduto nello spazio. Sbagliato anche questo.
Il carcere è qui, come chiunque può vedere transitandovi accanto, e contiene persone.