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29 Giugno 2022Ogni giorno, mi capita di affrontare il tema del costo del lavoro e dei nostri salari, così come tutte quelle persone che sono impegnate nella identificazione e selezione dei fornitori, a servizio delle imprese italiane.
Indubbiamente il costo del lavoro influenza le nostre valutazioni e, di conseguenza, determina le catene di fornitura, creando e distruggendo posti di lavoro.
La mia è, contemporaneamente, una visione allargata – dato il parco mondiale di fornitori che seguo -, e ristretta, visto che riguarda solo il comparto industriale, nello specifico, il settore metal-meccanico.
L’accordo raggiunto tra Consiglio e Parlamento Europei sul progetto di una direttiva volta alla definizione di salari minimi adeguati, copre invece un ambito più ampio e prevede che ad ogni lavoratore dipendente, assunto regolarmente, sia corrisposto uno stipendio orario minimo, che permetta una vita dignitosa.
È un passo importante, in linea con i principi che dovrebbero caratterizzare l’Unione Europea, e necessario per cercare di rendere più uniforme il panorama salariale nel nostro continente.
Ritengo che questo aspetto dell’accordo – purtroppo sottovalutato da molti commentatori e da molti politici -, in questo momento, costituisca una condizione imprescindibile per la nostra economia.
La pandemia prima e la guerra in Ucraina poi, hanno messo in crisi il sistema delle relazioni industriali mondiali e sempre più alla parola “Globalizzazione” si sostituisce il termine “Reshoring”. Molti gruppi internazionali, ma anche le aziende di minori dimensioni, stanno rivedendo le proprie catene di fornitura, cercando di accorciarle e di riportale in ambito europeo.
A fronte di Paesi sufficientemente industrializzati, che hanno una manodopera pagata poco meno di 2 €/h, e che per questo mettono in pericolo certi equilibri economici garantiti dalla libera concorrenza, la scelta di dove produrre componenti e prodotti è quasi vincolata. La decisione assunta, al riguardo, dalla Comunità Europea va dunque nella giusta direzione, indicando una strada, anche se lunga e impegnativa, di sempre maggior integrazione e uniformità del sistema Europeo.
L’accordo in questione punta a realizzare due aspetti importanti della relazione tra datore di lavoro e lavoratore: infatti, chiedendo che venga fissato un valore minimo del salario orario negli Stati in cui i contratti collettivi sono poco utilizzati, essa non intende solo garantire una vita dignitosa a tutti i lavoratori, ma anche sostenere la contrattazione collettiva, dando più autorevolezza alle associazioni dei lavoratori e alle attività di collaborazione tra queste ultime e le Unioni Industriali.
La predetta direttiva infatti si rivolge ai Paesi in cui meno dell’80% dei rapporti di lavoro dipendente è regolato da un contratto collettivo.
Al riguardo, le varie tabelle pubblicate sui quotidiani in questi giorni, descrivono l’Italia come un paese felice, in cui il 90% dei lavoratori dipendenti è garantito da un contratto nazionale: parliamo di oltre 900 contratti, depositati al Cnel e firmati da organizzazioni sindacali, siano esse le maggiormente rappresentative (CGL, CISL e UIL) o di piccole dimensioni (alle volte anche costruite ad hoc), che già garantiscono un corrispettivo salariale frutto di accordi con le associazioni dei datori di lavoro.
Purtroppo, alla richiesta della Comunità Europea di regolamentare i salari minimi, parte della politica italiana sta rispondendo in modo incoerente e, come sempre, demagogico. Sull’onda dell’accordo tra Consiglio Europeo e Parlamento Europeo, infatti, alcune forze politiche propongono di introdurre un valore minimo salariale imposto dallo Stato, in barba alle contrattazioni nazionali. Ciò potrebbe portare ad effetti contrastanti, dato che il valore proposto, spesso, risulta minore di quanto previsto dalla maggior parte dei contratti nazionali, di cui parlavamo prima.
Ma quanti lavoratori sono protetti da un contratto collettivo nazionale? quanti lavoratori sono riconosciuti come “dipendenti” dalla legge? Nei tempi della “gig economy”, del precariato e delle finte partite iva, cosa potrà servire avere un salario minimo garantito, per chi è già protetto?
Valentina Furlanetto nel suo reportage: “Noi Schiavisti”, descrive egregiamente la situazione dei lavoratori deboli in Italia, che non sono tutelati da contratti nazionali: non servono certo indagini approfondite, per capire, ad esempio, come il caporalato diffuso tra le campagne italiane ci dia la possibilità di comprare i pomodori di Pachino a pochi euro al kg. Così come basta uscire di casa verso, l’ora di pranzo o di cena, per vedere quei lavoratori precari che sfrecciano nel traffico, pagati ben al di sotto dei limiti salariali e spesso non garantiti da nessun contratto di categoria.
Queste tristi realtà costituiscono la punta di un iceberg, che comprende anche i liberi professionisti come ad esempio i free lance, che si spaccano la schiena per salari da fame, senza possibilità di far valere i propri diritti in quanto lavoratori.
C’è infine un altro tema legato al rapporto tra il salario degli Italiani e la produttività del nostro paese: il calo del primo sembra essere direttamente legato al calo della seconda.
A parte qualche caso specifico (e penso a qualche stabilimento Fiat rigenerato dalle positive iniziative di Marchionne), l’Italia è un paese in cui, chi lavora nelle piccole e medie imprese sa che spesso deve sacrificare buona parte della sua vita privata, per garantire l’efficiente funzionamento dell’azienda; in cui il gran numero di partite IVA non si ferma quasi mai, a parte le cosiddette feste comandate; per non parlare dei protagonisti del già citato reportage di Furlanetto.
Dunque, difficilmente la scarsa produttività può essere legata al rilevante impegno e contributo dei lavoratori italiani.
La produttività è, in effetti, un parametro complesso, legato al sistema Paese e che dipende da molti fattori, tra cui: la difficoltà di fare impresa, anche a causa della cattiva burocrazia; la mediocre competenza e professionalità; le carenze strutturali e i bassi livelli di investimenti in Ricerca e Sviluppo, anche a causa dell’elevato frazionamento del tessuto produttivo.
Un’altra importante ragione del calo della produttività è legata alla deindustrializzazione che sta riducendo, tranne alcune eccezioni, il valore aggiunto del nostro lavoro: trasformare Venezia in una città-museo, facendo morire le imprese artigianali, come le fonderie del vetro, è un esempio di riduzione della produttività. Così anche trasformare le nostre eccellenze in prodotti di massa, come si è verificato con il formaggio Asiago, a mio avviso, non aiuta ad aumentare il valore aggiunto del sistema Italia.
Insomma prima di pensare a stabilire un salario minimo per chi è già protetto e garantito, servirebbe intervenire di autorità su “lavoro nero” e “lavoro grigio”. Per permettere ai salari dei lavoratori Italiani di crescere, dobbiamo intervenire, soprattutto incrementando gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, incentivando gli strumenti che consentiranno di valorizzare la forza lavoro del nostro Paese, indiscutibile quid pluris.