COSTUME E MALCOSTUME La pèsca, l’Esselunga e il pandemonio
10 Ottobre 2023Cavallino Treporti, turismo “open air” e Blue & Green” community
11 Ottobre 2023Prodi ritorna sull’argomento che definirei più in generale della perdita di attrattività e competitività del sistema Italia. Già poco tempo fa aveva richiamato l’attenzione sulle politiche europee tendenti giustamente a sottrarci dalla dipendenza da Cina e Stati Uniti quanto alla produzione di semiconduttori e di batterie per auto e più in generale il trasporto su gomma elettrico, evidenziando come le scelte degli investitori quanto alla localizzazione degli stabilimenti di produzione sia orientata verso Germania, Francia, Svezia, Repubblica Ceca, Spagna, Ungheria, saltando l’Italia dove è ipotizzato un impianto minore a Termoli nel 2026 per entrare in funzione nel 2030.
Aggiunge che Stellantis concentra molta produzione in Francia, lasciando all’Italia volumi assai ridotti. Lo conferma Carlo Calenda quando accusa gli Elkan di aver ceduto la priorità della produzione dell’auto alla Francia.
La vicenda della Marelli è emblematica. Al momento della cessione da Fiat al colosso giapponese Calsonic Kansei, a sua volta controllato dal fondo d’investimento americano KKR, aveva 43.000 dipendenti dei quali 10.000 in Italia. Oggi, sottolinea Prodi, i dipendenti sono saliti a 50.000 ma in Italia sono scesi a 7.000.
Scelta simile aveva fatto Safilo nel chiudere la fabbrica di Longarone, che mi sembra abbia trovato un investitore che almeno salva gran parte dei posti di lavoro. Ancora quanto all’occhialeria, pur rimanendo produzioni nell’agordino da parte di Luxottica, ancora in vita Del Vecchio aveva fatto un’operazione di fusione in Essilor, quindi con sede in Francia.,
Ma, più in generale, è una tendenza che dura da anni. Abbiamo perso le aziende più grosse, alcune anche per miopia del management come a mio avviso è accaduto per Olivetti, altre perché è mancata una politica industriale o lo Stato ha venduto anche aziende “strategiche” solo per tappare buchi di bilancio in un clima di mancato sviluppo e di aumento del debito pubblico, altre ancora cedute o fuse con multinazionali, le quali ovviamente fanno un calcolo di convenienza, di dove e come localizzarsi. E qui l’Italia risulta perdente.
La reazione dei sindacati è comprensibile ma inutile e purtroppo demagogica. Giusto difendere il posto di lavoro, ma più la proprietà è non italiana, specie se di una multinazionale, più prevale il ragionamento di convenienza, di ritorno dell’investimento, e se si sceglie di andare altrove vuol dire che da noi è meno conveniente operare. Triste dirlo ma purtroppo realistico.
Il problema si sta esasperando oggi, ma è presente oramai da troppi anni, in un paese che secondo molti economisti, tra questi Salvatore Rossi, già Direttore Generale di Bankitalia e docente alla Luiss, ha bensì dei problemi strutturali di debolezza, quali un reddito pro-capite contenuto, riflesso di un tasso di occupazione ancora basso nel confronto con gli altri paesi avanzati; una dimensione media delle imprese relativamente piccola e un assetto proprietario ancora per certi versi premoderno, basato sul controllo e sulla gestione familiari, il dualismo Nord-Sud; una specializzazione produttiva mediamente poco incline alle tecnologie innovative, mercati dei beni e, soprattutto dei servizi con residue imperfezioni della concorrenza[1], ma vi è stata un’inerzia della politica, indipendentemente da destra o sinistra, nel non reagire ai cambiamenti imposti dalla globalizzazione e nel non fare quelle riforme necessarie a rendere più attraente, più produttivo e competitivo il paese.
Le conferme sono tante. Luciano Gallino scriveva 20 anni fa nel 2003: Politici e manager senza visione del futuro hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale. Per recuperare terreno occorre una politica economica orientata verso uno sviluppo ad alta intensità di lavoro e di conoscenza[2].
La letteratura in proposito non manca. Cito solo da ultimo Alfredo Macchiati[3] che parla di una classe politica che si è dimostrata incapace di fronteggiare i nuovi problemi dell’economia. E parla di un peggioramento del livello di istruzione e più in generale della qualità degli eletti in parlamento – pag. 156 – e della modifica della natura dei partiti di fronte all’affievolimento delle grandi opzioni ideologiche, dando così spazio a gruppi d’interesse, dando così spazio quanto a rilevanza decisionale sia a grandi burocrazie, sia soprattutto trasformando gli esponenti politici in un ruolo di trasmissione delle istanze delle lobby. E cita Forza Italia come esempio di trasformazione dal liberalismo a un moderatismo fondato sugli interessi.
Quindi, la tendenza ad investire non da noi, ma anche in paesi dove il costo della manodopera è maggiore, conferma la criticità del nostro sistema paese che ha perso attrattività e non assicura un ambiente favorevole a chi fa impresa. Carlo Cottarelli[4], peraltro in linea con il FMI da cui proviene, ne ha elencato le principali cause, ossia le mancate riforme che riguardano:
- Evasione fiscale troppo diffusa
- Corruzione
- Eccesso di burocrazia
- Lentezza della giustizia (e, aggiungerei, over-regulation e spesso confusione e incertezza normativa)
- Crollo demografico (e, aggiungerei ancora, demagogia quanto alle politiche contro l’immigrazione)
- Divario Nord e Sud
- Col risultato di una stagnazione economica che crea maggiore povertà, aumento dek debito e difficoltà di convivere con l’Euro (ma non per tornare alla Lira perché questo comporterebbe un aumento dell’inflazione tipo anni ’70).
Considerazione conclusiva: vi è una cultura diffusa nel ns. paese che tende a demonizzare il profitto, sterco del diavolo, il capitalismo come sistema di sfruttamento dei lavoratori. Il problem è che se non creiamo ricchezza non possiamo assicurare un livello di welfare adeguato. La politica sociale è compito dei governi, ma senza risorse adeguate non si risolve alcun problema.
[1] Salvatore Rossi: La politica economica italiana dal 1998 ad oggi, Anticorpi/Laterza, 2020.
[2] Luciano Gallino: La scomparsa dell’Italia industriale, Giulio Einaudi editre.2003.
[3] Alfredo Macchiati, Perché l’Italia cresce poco, Il Mulino, 2016
[4] Oggi professore alla Cattolica di Milano e Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani – OCPI. V. I Sette Peccati Capitali dell’Economia Italiana, Feltrinelli, 2018.