Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale
20 Dicembre 2023La strategia della mediocrità
21 Dicembre 2023Leggere resoconti e commenti dalla COP28 di Dubai è un esercizio improbo. Perché si passa da atteggiamenti entusiasti ad altri di scorata insoddisfazione. Per cui davvero è difficile, per il lettore non addentro alla materia (e anche per chi faticosamente cerca di capire) darsi la risposta alla domanda: ma dobbiamo rallegrarci o no di come è andata a finire?
La risposta, probabilmente, sta nel mezzo. O, detto in altri termini, possiamo dire che gli ottimisti e i pessimisti hanno entrambi buone ragioni. Cerchiamo di raccapezzarci un po’.
Preliminarmente, direi di togliere di mezzo uno degli argomenti più strombazzati dagli irriducibili ottimisti: il fatto, rappresentato come storico, rivoluzionario, epocale, che sia esplicitamente detto che il problema per il cambiamento climatico sono i combustibili fossili; carbone, petrolio, gas. Grazie tante! Vero che è la prima volta che lo si mette nero su bianco ma la cosa è talmente lapalissiana, acclarata da decenni, che non credo proprio sia un particolare successo aver scritto un’ovvietà.
Altro dibattito infinito è il palleggio di terminologie (che immagino deve aver fatto impazzire gli sherpa incaricati di redigere i testi, come nella migliore tradizione) tra phase out, phase down e, l’ultima adottata, transitioning away. È una questione di lana caprina: il concetto di fondo è uscita progressiva dalle fonti fossili. Non è un problema di terminologia bensì di tempi entro i quali questo avverrà.
Veniamo ora al cuore del documento finale, l’art. 28 altrimenti detto Global Stocktake, che trovate qui sotto:
In premessa riconosce la necessità di ridurre le emissioni di gas serra, in modo incisivo, rapido, sostenuto in linea con l’obiettivo di contenimento dell’aumento di temperatura a 1,5°C (temo velleitario) e fa appello a tutti i Paesi nel contribuire all’impresa e, qui la parte che ha fatto storcere il naso ai pessimisti, in nationally determined manners e considerando le different national circumstances, pathways and approaches. In altri termini, si pone un obiettivo comune ma si consente di perseguirlo con “ricette” diverse da Paese e Paese. Facile capire che le circostanze, approcci e percorsi diversi consentono tutte le eccezioni del mondo. Però, oggettivamente, possiamo sostenere che non sia una concessione inevitabile?
E come si dovranno perseguire questi obiettivi? L’unico obiettivo quantitativo è triplicare l’energia rinnovabile e (obiettivo invero piuttosto fumoso) raddoppiare il tasso di incremento dell’efficienza energetica (sarebbe interessante capire cosa si intende e come la si misura). Tutto il resto è il compendio (corretto ma scontato) di tutte le possibili strategie già note.. Peraltro espresse nella forma indefinita di accelerating.. gli sforzi verso la dismissione delle forme di energia dannose per l’ambiente.
E torniamo al quesito iniziale: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? È mezzo vuoto perché gli obiettivi sono sostanzialmente inviti e raccomandazioni ma nulla di cogente e pure espresso in modo abbastanza fumoso, leggere a proposito il testo del punto f) che sintatticamente è privo di senso compiuto (verosimilmente volevano scrivere accelerating the substantial reduction). Né, come detto, ci esalta particolarmente la citazione esplicita delle fonti fossili come IL Problema perché è un fatto già acclarato.
Il bicchiere è del resto anche mezzo pieno perché, oggettivamente, gli obiettivi del Global Stocktake sono quelli corretti. Tra le altre cose è apprezzabile l’inserimento, tra le misure da intraprendere, dell’adozione del nucleare (senza il quale è oggettivamente velleitario porsi obiettivi concreti) e la cattura di CO2, oggi una tecnologia di nicchia ma che è importante esplorare. Anche opportuno l’accenno al rapid development of zero and low emissions vehicles. Dunque non viene, saggiamente, imposto un futuro della mobilità solo con l’elettrico (i cui impatti sulla rete di distribuzione, a mio modesto parere, non sono oggi valutati appieno) ma si lasciano aperte altre strade (e io penso soprattutto all’idrogeno, che potrebbe davvero rappresentare una soluzione molto più efficiente). Bene anche aver previsto un fondo di compensazione per i Paesi in via di sviluppo (loss and damage) per aiutare le nazioni più povere a far fronte ai cambiamenti climatici. Le promesse sono sostanziose (si parla di più di 400 milioni di dollari) anche se, come facilmente intuibile, i danni indotti dal cambiamento climatico (alluvioni, uragani e siccità) in tutto il mondo raggiungono importi di tre ordini di grandezza superiori. È dunque una misura largamente simbolica ma fissa un principio di giustizia importante: i Paesi più ricchi, e inevitabilmente più inquinanti, compensano quelli più poveri, in minima parte responsabili dei mutamenti climatici ma tra i più danneggiati da questi.
Ma l’aspetto forse più importante è quello propriamente politico. La COP è un’emanazione dell’ONU, per la precisione è la riunione dei Paesi che hanno ratificato la UNFCCC United Nations Framework Convention on Climate Change (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). L’ONU è ormai una nave senza nocchiero, non ha più nemmeno la parvenza di un organo superiore riconosciuto dalle parti. Ma soprattutto, si legga il lucidissimo editoriale di Panebianco sul Corriere del 18 u.s., cito lo stesso Panebianco, “le Nazioni Unite sono una tribuna e un’arena (..) l’ONU serve per misurare i rapporti di forza, per mostrare all’opinione pubblica mondiale chi sia alleato con chi..”. E la inanità (se non addirittura dannosità) dell’ONU l’abbiamo appena constatata con le vicende di Ucraina e Palestina. Un organismo sovranazionale drammaticamente condizionato dalla contrapposizione tra blocchi che presentano idee di mondo, di valori, di società e civiltà spesso agli antipodi. Ebbene che un’istituzione così screditata sia riuscita a produrre un documento condiviso unanimemente e sostanzialmente corretto è poco meno che un miracolo. Certo favorito dal fatto che nessuno nel pianeta può ritenersi indenne dalla possibile catastrofe imminente ma resta comunque un fatto politicamente molto rilevante. Non dimentichiamo che fino a 4 anni fa alla Casa Bianca stava un tizio che diceva I’m not a great believer in man-made climate change..
Quasi quasi, a pensarci bene, il bicchiere è più pieno che vuoto.