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10 Aprile 2024Welfare Italiano: Sfide Demografiche e Soluzioni Innovative
11 Aprile 2024Una riflessione sullo scontro tra democrazie compiute e dispotismi merita spazio e tempo. Mi legga chi se la sente di arrivare in fondo a un testo lungo.
Le democrazie compiute, basate su una “società aperta” – il binomio, lo si vedrà, è d’obbligo- sono ancora una minoranza nel mondo.
Per molti, e io tra questi, esse sono tenute in scacco dalle autocrazie e dai totalitarismi di varia natura diffusi nel pianeta, e a cui soggiace ancora la maggioranza della popolazione mondiale. La nostra Silvia Rizzo in un articolo scritto su Luminosi Giorni nel mese di marzo (https://www.luminosigiorni.it/mondo/democrazia-il-migliore-dei-mondi-possibili-teniamocela-stretta/) fa una utile e approfondita disamina di tale situazione e la vorrei ringraziare per la chiarezza espositiva, oltre che per la condivisibile analisi. Anche se, forse con qualche buona ragione, è più cauta di me sul primato assoluto delle democrazie compiute.
Io, per chiarezza espositiva, ritengo che la democrazia sia compiuta non solo se c’è un sistema democratico di scelta della conduzione politica (elezioni e rappresentanza parlamentare), ma anche e soprattutto se tale sistema garantisce una società libera e fondata sullo stato di diritto e che chiamo, l’ho già detto, “società aperta”. L’equazione democrazia + società aperta=sviluppo e benessere non è un’equazione perfetta, ci mancherebbe, ma ci vi si avvicina più delle altre per approssimazione. Le società con assetti politici autoritari, più o meno mascherati, coincidono, anche in questo caso con approssimazione, con le aree geografiche del sottosviluppo e delle sacche di povertà; e, dove non coincidono del tutto, l’economia del ‘loro’ sviluppo o in via di sviluppo è ispirata da una logica, a noi occidentali ben nota, basata sulla quantità indiscriminata della produzione e sullo sfruttamento del lavoro, senza ritegno e scrupolo per le conseguenze sociali da una parte e soprattutto ambientali dall’altra e senza troppi principi di transizione ecologica. Che invece da tempo, e pur con resistenze, è trainata, anche in tal caso, dalle democrazie compiute e aperte attuali. (Vero che a queste il resto del mondo rinfaccia di aver basato la loro affermazione proprio sulla quantità di produzione e consumi inquinando alla grande per quasi due secoli di fila, per pretendere ora che chi è stato in ritardo non lo faccia; ma si può dimostrare che lo hanno fatto in tempi in cui la loro compiutezza democratica non era ancora maturata e che comunque l’errore di prima non va ripetuto con l’errore di poi).
Che fare dunque per estendere il modello aperto e democratico, nell’ipotesi che sia il migliore verso la felicità universale e perpetua, la finalità ultima della politica? Dimostrarlo con una tesi è arduo, ma poiché ci credo, proverò a immettere elementi di riflessione, parziali, forse alcuni ingenui e semplificatori, ma penso utili almeno a pensare anche per la loro consistenza un tantino sognatrice.
La prendo molto, ma molto larga e siccome ho in mente uno schema semplificato, dico subito che mi lascerò andare a soluzioni che possono apparire utopiche, bizzarre e sconsiderate e in qualche modo lo sono. Il che contraddice il principio di razionalità che mi induce a considerare le democrazie compiute e aperte proprio come la traduzione collettiva della razionalità. Ma tant’è, la coerenza è merce rara e il rischio di incoerenza o, meglio, di irrazionalità, seppure a partire dalla razionalità, lo corro volentieri.
Dunque.
Il buon vecchio Karl Marx aveva uno schema in testa che era una sua fissa, schema con una versione economica e una politica.
La versione politica in sintesi, da applicare, da quel che è dato capire, al pianeta intero, prevedeva che dopo l’età del potere feudale e monarchico, a sua volta frutto di un’evoluzione più o meno traumatica dal mondo antico, ci fosse una rivoluzione democratica, che lui, pur essendo borghese (!), con una punta di studiato spregio chiamava ‘borghese’, a cui ovviamente doveva succedere quella democratica e ‘proletaria’. Tanto democratica quest’ultima che prevedeva anche lui una sorta di felicità perpetua con l’annullamento delle classi, in un eden egualitario perfetto per l’eternità, senza neppure aver più bisogno dello Stato (anche se come via intermedia, ‘sine die’ però, bisognava passare per la dittatura del proletariato, quanto di più antidemocratico ci fosse, ma la cosa faceva parte della dialettica ed era un passaggio obbligato dalla storia, che, come lui asseriva, aveva un andamento scientifico senza sconti). Or bene con questo castello pirotecnico lui però in qualcosa ci pigliava giusto, asserendo che le tappe, e quindi anche la rivoluzione ‘borghese’, non si potevano saltare. E infatti la rivoluzione democratica in effetti è stato un passaggio chiave, che alcuni stati all’avanguardia hanno poi effettivamente compiuto nei termini che Marx aveva già visto. E non so quanti in pieno ottocento, laddove questo processo è avvenuto, avessero la stessa sua percezione e si rendessero conto che quel processo politico rivoluzionario borghese era proprio ciò che Marx stava osservando dal vivo con maggiore lucidità dei suoi contemporanei. Va dato atto alla dialettica hegeliana, pur rovesciata, che il filosofo tedesco aveva in testa, di avergli fornito uno spunto utile per capire.
La Rivoluzione francese, più ancora di quella americana, e anticipata da quelle inglesi del ‘600, è stato il punto culmine del processo rivoluzionario democratico o molto più probabilmente un nuovo inizio, a seconda di come si guardi la clessidra della storia. Si sa che c’è una Rivoluzione Francese buona quella dei primi tre anni fino all’ottobre ’93 e quella cattiva che è la sua negazione operata dal ‘terrore’, un nuovo sanguinario dispotismo. In cinque anni dall’89 al ’94 in Francia si sono bruciate tutte le tappe politiche della vicenda umana in modo impressionante, con il passaggio traumatico in soli cinque anni dalla società feudale ad una società egualitaria e livellatrice di stampo radicale, almeno nelle intenzioni, che fu gestita dal terrore in modo poi non molto dissimile da quella dittatura del proletariato che leninismo e stalinismo centotrent’anni dopo avrebbero imposto di fatto, utilizzando Marx. E non per caso Lenin sarebbe poi stato un grande ammiratore dei giacobini terroristi francesi Robespierre e Saint Just, interpreti del radicalismo estremo della Rivoluzione, visti come suoi diretti precursori (e in questo senso affossatori dispotici della stessa rivoluzione democratica). Marx, a proposito del momentaneo e solo apparente fallimento di quella rivoluzione in Francia, osservava: calma, troppa fretta, la storia ha bisogno delle sue tappe tutte compiute e di metabolizzare i passaggi, la restaurazione era in quel momento inevitabile. Ma in seguito la rivoluzione ‘borghese’ si affermerà definitivamente. Scientifico.
Gli eventi rivoluzionari europei del 1848 sembravano dargli ancora ragione.
A distanza di oltre due secoli dall’evento francese si può ben dire che Marx aveva avuto invece ragione a metà. La Rivoluzione francese non è stata solo una rivoluzione ‘borghese’ (e lo era, perché trainata da quel ceto sociale), ma, a mio modesto parere, la rivoluzione tout court con il suo apice nella Costituzione nel 1793, l’unica che si è affermata e, esportata dove è stato possibile, ha prodotto democrazie e uguaglianza di partenza in uno stato di diritto, pur non sempre realizzato in modo compiuto ed esteso. Ma si è affermata, con processi non certo lineari e passando per involuzioni e dittature, solo in Occidente, in Europa e in Nord America e poco altro, e in ritardo, nell’estremo oriente. È questa l’area del mondo libero assediata e accerchiata dal mondo dispotico. Non è vittimismo, è realtà. (L’amico e storico Federico Moro magari dirà, con corsi e ricorsi storici, che è lo stesso accerchiamento del dispotismo persiano di 2500 anni fa verso e contro la Grecia libera e democratica, lo stesso assedio, anche allora non riuscito, dell’Oriente contro l’Occidente).
E il resto del mondo?
Risposta piuttosto facile, che Silvia Rizzo, forse involontariamente, ci suggerisce: è politicamente fermo al 1788, ancora lì con sistemi che, semplificando all’osso, quanto ai diritti di cittadinanza (e non solo quanto al voto democratico che può anche esserci, ma non è sempre dirimente) sono fermi all’arbitrio e al despotismo, non poi così dissimili nella sostanza a quelli delle superate società monarchico feudali. Si dirà che il colonialismo occidentale ha contribuito al congelamento del resto del mondo, mantenendolo in quella fase ancora semi schiavistica. Ma, a parte che il colonialismo è finito da un pezzo, il dato, nonostante un doveroso e incisivo mea culpa occidentale, non cambia: due terzi dell’umanità deve ancora compiere la sua rivoluzione democratica, il suo ottantanove, la sua Rivoluzione Francese, e ottenere un vero stato di diritto. Di lì devono comunque passare, prima o poi.
E non è forse un caso che le guerre ad alta o bassa densità avvengano quasi tutte in quello che si chiamava un tempo “terzo mondo”. Assomigliano molto in chiave moderna alle guerre feudali, confini, etnie, interessi particolari. Si dirà che le due guerre in corso, sovraesposte sulle pagine dei giornali e dei telegiornali, coinvolgono il mondo occidentale. Ma una, quella ucraina, è una guerra di difesa proprio da un despotismo orientale e quella israeliana sembra invece anch’essa una guerra tra despoti; laddove stento ad assegnare ad Israele la palma di mondo libero occidentale, per il sistema teocratico che lo ispira almeno nelle frange estreme ( per dritto o per storto sempre al governo però) e che annulla del tutto le altre sue potenziali credenziali occidentali.
E allora, ancora: che fare?
È qui che inizia il mio fantasticare, perché se dovessi stare alla realtà concreta e dando per buono che le democrazie compiute e aperte riguardano solo due miliardi di persone (ma sto largo), non ho la minima idea al momento di come qualcuno o qualche fatto possa far intraprendere a tutti i restanti sei miliardi di umani la via della rivoluzione democratica, che continuo a ritenere l’unica via da percorrere verso un mondo giusto, in grado di promuovere sviluppo economico e sociale anche per il resto del mondo. Con una certezza interiore: per chi deve ancora intraprendere il cammino ‘verso’, si tratta ancora di un cammino attraverso un processo politico di ‘rivoluzioni’, il termine resta valido e non è superato. Cioè, per chi vive da suddito all’interno di quei sistemi, si tratta di mettersi di fronte al loro potere costituito in modo sovversivo, non accettando la ‘loro’ legalità; in quanto poteri essi stessi per primi sovversivi rispetto alle leggi universali, che si credevano stabilite per sempre dopo la Seconda guerra mondiale con le dichiarazioni universali dei diritti, che indicavano la legalità planetaria. Va da sé che, rispetto alla legalità planetaria di quelle dichiarazioni, sono quei sistemi politici nell’illegalità. In fondo, entrando negli organismi internazionali, quelle dichiarazioni le hanno accettate, per poi farsene beffe.
Se si dovesse essere coerenti l’ONU non dovrebbe ammetterli più e, se vi sono dentro, espellere gli stati privi dei diritti di cittadinanza e di democrazia sostanziale (eccola la mia prima pazzesca fantasticheria, con vagabondaggio del pensiero: l’espulsione). La controindicazione facile, del resto, sarebbe: come si fa, espulsi i trasgressori, ad avere un ONU che rappresenta un quarto, se va bene, della popolazione mondiale? Probabilmente il vulnus stava nel filtro iniziale dell’ammissione troppo facilmente concessa. Bastava fare come fa la tanto criticata Europa attuale, che richiede requisiti minimi, economici e politici, per ammettere stati membri. E infatti la Turchia non c’è, e l’Ungheria è sempre sul punto di essere messa fuori. Certo lo spirito ecumenico di tolleranza e di apertura di quei tempi di quasi ottant’anni fa non richiedeva rigidità, ma poteva esserci, proprio sulla base delle dichiarazioni universali, un cammino di progressivo allineamento, con adeguato controllo, a tali valori per tutti i membri.
Così non è stato.
E si ripropone la domanda: come fa tre quarti della popolazione mondiale a intraprendere, sempre che lo voglia, ma lo darei per scontato per le loro maggioranze, il cammino delle rivoluzioni democratiche mai compiute e che marxisticamente restano un passaggio obbligato, per quanto, a differenza di Marx, definitivo verso la agognata felicità?
Si può partire per una parte non piccola del pianeta dalla base di democrazia formale che molti stati hanno (come sempre a renderla tale lo è almeno la possibilità di votare) anche se non è sostanziale del tutto (perché il voto non basta). Penso al più popoloso stato del mondo che è l’India, ad un certo punto, circa mezzo secolo fa, leader dei paesi cosiddetti non allineati. Oggi la leadership indiana sta immettendo, per esempio, principi di rigidità religiosa induista nei propri ordinamenti, un passo indietro per uno stato che ha elezioni, parlamenti e tutto quanto occorrerebbe. Si può far conto su élite democratiche interne? Difficile dirlo. Ma bisognerebbe far conto, visto che ancora si richiede il passaggio di una rivoluzione ‘borghese’. Tale élite in India esiste e non piccola, dato il numero enorme di abitanti. In ogni caso negli stati dove una democrazia formale c’è si può ottimisticamente pensare di ottenere la rivoluzione democratica per via pacifica, seppure con una aspra contesa politica, dagli esiti facili non scontati.
Ma non certo dappertutto.
E se si pensa ai passaggi storici effettuati uno o due secoli fa dagli attuali stati realmente democratici, le rivoluzioni democratiche sono andate a suo tempo a buon fine con la forza e, senza girarci intorno, con le armi. O forza interna come in America e in Francia, o imposta all’esterno da guerre, come per esempio quelle napoleoniche. Si può dire ciò che si vuole del generale corso, ma pur essendo dispotico per definizione e prassi, il suo era un dispotismo che ha ottenuto il fine, non si sa quanto per lui prioritario da perseguire (voluto, non voluto?), della democrazia e delle modernità dello Stato, perché anche queste due cose, democrazia e modernità istituzionale, sono marciate insieme. Per certi aspetti Napoleone ha esportato con gli eserciti la rivoluzione francese e nessuna restaurazione è stata poi in grado di azzerare del tutto il processo. Difficile, per esempio, pensare al Risorgimento Italiano, viatico per una pur atipica rivoluzione democratica, senza il passaggio napoleonico di cinquant’anni prima, come premessa di profonda trasformazione civile e amministrativa.
Quindi la forza e le armi? Interne o esterne?
Per quanto questi i passaggi storici io li veda come ineluttabili, la fase oggi evidentemente è molto diversa. Con il clima di guerre che si respira c’è da pensarci cento volte nell’auspicare focolai di aperta guerra civile per rovesciare le tirannidi, che pure hanno lo stesso volto del passato. Ed è probabilmente impensabile che le democrazie compiute muovano guerre ai paesi dispotici come sostegno dall’esterno alla causa democratica. Con tutto ciò che si dice delle aggressioni a stati sovrani come l’Ucraina, compierne una o più di una, pur in nome della democrazia, sarebbe un atto che si ritorcerebbe immediatamente contro e legittimerebbe a quel punto qualsiasi altra guerra.
La vera speranza sta nella globalità della comunicazione mondiale e nella sua ineluttabile trasparenza che nessuna leadership dispotica può fermare, nonostante tenti delle limitazioni (vedi Cina). Ai tempi del crollo del muro di Berlino si disse che le popolazioni dell’est Europa, senza più il cane da guardia dell’URSS, furono determinate a rovesciare i regimi dispotici del comunismo perché attratte, allora solo via televisione e poco altro, dal benessere di cui le società aperte godevano, soprattutto nei consumi a loro negati da decenni. (Un po’ miope la loro attrazione solo sui consumi, facendosi attrarre di meno dall’aspetto collaterale, certamente funzionale ai consumi, ma prioritario su di essi, della democrazia e dei diritti presenti nell’occidente. Intraprendendo da allora un cammino lento, monco e faticoso su quel decisivo settore, facendosi trovare adesso in ritardo, Polonia e Ungheria docent).
Ma, quella comunicazione funzionò e trent’anni dopo abbiamo una possibilità cento volte superiore ad allora. Dobbiamo allora pensare a un processo di fortissima martellante sensibilizzazione dei valori democratici autentici verso le popolazioni oppresse (continuo a chiamarle così) anche attraverso le élite intellettuali occidentali e con un’incisiva politica estera di Europa e USA. E auspicare che autonomamente le società oppresse si mettano in moto nelle piazze, per quanto in modo possibilmente non violento per non esporsi a repressioni violente, che pure vanno lo stesso messe nel conto (e il pensiero alle rivoluzioni/primavere arabe di dieci anni fa parzialmente fallite, è inevitabile). È accaduto negli ultimi anni e può ancora accadere in Iran, sta timidamente accadendo in Russia, può ancora molto accadere in Turchia che è almeno democrazia formale, è già accaduta ed è in corso in Israele, e recentemente sta accadendo nella non democratica e nella non europea Ungheria di Orban. E, ricordando quel che recentemente accadde a Hong Kong, potrebbe accadere anche in Cina, con una riedizione di Piazza Tienanmen? E’ azzardato in uno stato di un miliardo e mezzo di abitanti? Fantasie? Farneticazioni? Chiamatele come volete, io ci provo almeno a metterle sul tavolo come elementi di un sogno.
A quel punto, se lì si riempiono le piazze, dobbiamo noi riempire le nostre in Occidente, ogni giorno se occorre e avere in piazza anche i nostri governanti che dovremmo selezionare, promuovere o bocciare anche sulla base di quanto credono alla rivoluzione democratica mondiale. In piazza a loro favore. Non basta. Congiuntamente l’Occidente deve trovare strategie alternative per opporsi al ricatto dell’economia e del commercio mondiale, e sanzioni ed embargo verso i paesi dispotici dovranno essere la regola, anche a costo di sacrifici notevoli nei nostri consumi, facendola finita con la Via della Seta, già per fortuna ridimensionata, e il gas russo, anch’esso ridimensionato, lasciandoli in stand by fino a che non si è ottenuto il risultato politico. Quanto ai combustibili fossili già la transizione ecologica li ridimensiona e in ogni caso non sarà così difficile giostrarsi con i produttori assimilabili alle politiche occidentali.
Soluzioni utopiche, potrebbero obiettare economisti realisti, ma, l’ho detto, sto vaneggiando. E nel mio vaneggiamento nelle soluzioni il mondo dispotico va messo alle corde anche e soprattutto economicamente, pur essendoci la controindicazione che in alcuni casi si tratta ancora di paesi poveri. Ma solo questa ritorsione può dare una spinta corposa alle piazze dei paesi autoritari.
C’è infine da mettere nel conto che all’interno delle democrazie compiute e aperte c’è chi rema contro attraverso forze politiche che non disdegnano richiami a quel mondo dispotico e alle società premoderne. E flirtano più o meno apertamente con chi ancora le rappresenta. Le destre-destre, per esempio, hanno sempre in seno, in nome della tradizione, modelli di società pre-millesettecentoottantantanove, a volte non ne fanno mistero, spalleggiate ora qua e ora là dalle religioni, anzi dalle tradizioni religiose, e la cattolica di tanto in tanto si presta. E talora si presta anche il teismo di stampo protestante (vedi Trump, un tipico esponente del dispotismo interno all’Occidente, una vera quinta colonna dentro all’occidente dei despoti in giro per il mondo). La lotta politica per la democrazia mondiale andrebbe dunque in due direzioni, sia con la politica estera e con nuove strategie economiche, sia con la politica interna, con un’azione di delegittimazione dei sovversivi nostrani, sempre presenti sotto mentite spoglie di partiti che accettano, ma solo a parole, la democrazia aperta.
C’è infine un atto di coerenza che le democrazie aperte e compiute devono mettere in atto se vogliono essere un modello credibile. Perché si sa che poi all’interno delle società democratiche e aperte c’è anche un’opinione diffusa con caratteri di sinistra massimalista a remare contro e tanto, delegittimando la democrazia occidentale e non riconoscendola come tale per i suoi deficit di quei principi egualitari che essa stessa sancisce.
Quale atto di coerenza? Ce lo suggerisce indirettamente Silvia Rizzo nella seconda parte del suo articolo, quando ci ricorda che le democrazie compiute sono state la patria del capitalismo, anzi la rivoluzione democratica è andata pari passo con la crescita del capitalismo. E se al capitalismo si attribuisce un’azione di distruzione di tutti o anche solo di alcuni diritti democratici, la società aperta ha un deficit pesante di credibilità per potersi imporre sui despoti, essendo a sua volta dispotica, seppure in altro modo, persino meno trasparente.
Ma bisogna intendersi su cos’è il capitalismo. Se per esso si intende semplicemente l’economia di mercato, questa è invece una pietra miliare positiva della società aperta e democratica e l’accezione di capitalismo non può in alcun modo essere negativa se si identifica con l’economia di mercato. Se per capitalismo invece si intende il liberismo anarchico e selvaggio, che, questo sì, determina disuguaglianze intollerabili, sappiamo invece che esso è messo al bando dalle costituzioni democratiche come la nostra, con perfette corrispondenze in tutto il mondo occidentale. Teoricamente con noi occidentali ‘quel’ capitalismo non c’entra niente. Nella nostra Costituzione ci sono articoli espliciti che mettono l’interesse generale sopra tutto e mettono il freno e i limiti all’impresa privata quando, va, più o meno, apertamente contro l’interesse generale, concepito come superiore.
Sappiamo anche però che concretamente e non teoricamente la questione è sempre in bilico e che a volte o spesso la società aperta concede troppo o è troppo distratta e si fa presto a scivolare nello sfruttamento del lavoro e nella dittatura del capitale, per quanto è un rischio sempre in agguato che va messo comunque nel conto, un rischio – come si dice- calcolato, impossibile da evitare. Lo Stato democratico, chiamiamola Res Publica che è meglio, da questo punto di vista gioca un ruolo fondamentale. E coerenza vuole che la Res Publica delle democrazie sia garante di regole che danno al privato ogni possibilità, a volte anche di traino e di ruolo pubblico, ma mai e poi mai quella di prevaricare sull’interesse generale. E ciò lo si può fare senza statalizzazioni obsolete o rigidità sul mercato del lavoro, ma con il costante controllo politico e sociale sulle finalità ultime e sull’azione quotidiana di ogni impresa privata.
In più l’uguaglianza che vive nelle nostre costituzioni non è uguaglianza di esiti, ma di partenza. Tuttavia, per poter partire bisogna che tutti possano accedere alla pari al nastro di partenza e, perché ciò sia garantito, lo Stato Sociale, il Welfare, che, sempre nel finale del suo articolo, ricorda Silvia Rizzo, deve poter intervenire e disporre di risorse (queste non posson non venire se non dalla ridistribuzione del reddito, ben presente anch’esso come principio negli articoli costituzionali). E intervenire anche per garantire una dignità minima nel vivere a chi, anche momentaneamente, resta indietro nella inevitabile e necessaria selezione prodotta dal merito; che è valore positivo, solo se non penalizza totalmente chi non ce la fa per demerito proprio o per concause imprevedibili.
Adeguare la società democratica a queste esigenze è assolutamente imprescindibile, ma solo essa stessa lo può fare perché ha in serbo una possibilità che le altre, quelle dispotiche, non hanno: è sempre democraticamente riformabile. Può, cioè, sempre auto criticarsi e riformarsi senza bisogno di rivoluzioni.
Questi atti di coerenza e di credibilità devono dunque assolutamente accompagnarsi al sostegno alle lotte democratiche del pianeta, pena scolorire come modello politico e sociale per i possibili deficit di uguaglianza e di pari opportunità, che anche le democrazie mature e aperte portano in seno. Deficit che, se mantenuti, potrebbero far concludere ai potenziali nuovi protagonisti che il gioco (lo sforzo immane per la rivoluzione democratica, quella Francese per intendersi, ancora da compiere) non vale la candela (ritrovarsi in una società, si, libera, ma socialmente ed economicamente ugualmente ancora dispotica e opprimente).
E almeno questo pensiero sulla credibilità occidentale da mantenere o recuperare non è vaneggiamento.