LA CITTÀ FUTURA di Roberto D’Agostino. Focus su: Urbanistica
11 Marzo 2024Sinistra in bancarotta
11 Marzo 2024La crisi di Gaza e in generale la decennale, tragica, contrapposizione tra Israele e i Paesi Arabi è il frutto di una matassa inestricabile di torti e ragioni (soprattutto i primi, direi) da ambo le parti. Inestricabile anche perché, per quanto ovvio è opportuno ricordarlo, ogni “fronte” è in realtà una galassia di posizioni, di interessi, di visioni del mondo molto diverse. Non solo: le stesse parti sono di fatto ostaggio di innumerevoli partite più grandi di loro: le contrapposizioni tra i blocchi, le rivalità tra i Paesi arabi (ai quali, del destino dei palestinesi, è da sempre fregato meno che meno), le ambizioni geopolitiche di potenze regionali, gli appoggi strumentali all’una o all’altra parte determinati da motivazioni del tutto estranee al destino di israeliani e palestinesi.
Per quanto sopra, un approccio razionale e “terzo” al problema non può che arrendersi all’impossibilità e, in definitiva, all’inutilità di soppesare e discernere le ragioni degli uni e degli altri e può solo dedicarsi a immaginare una soluzione possibile, con la consapevolezza che questa è difficile, improbabile, certamente non indolore, per nulla scientificamente definibile (perché sia chiaro che anche la formula “due popoli, due stati” è teoricamente perfetta ma la sua applicazione è complicatissima) per le mille implicazioni di qualsiasi scelta.
Questo per la parte razionale. Ma poi c’è il nostro emisfero irrazionale.. E in questa tragedia decennale sono tante e tali le implicazioni di carattere ideologico, religioso, politico, storico, pertinenti alla visione stessa del mondo che ciascuno coltiva in sé, da coinvolgere nel profondo e inevitabilmente la componente, appunto, irrazionale dell’individuo. Difficile che ogni soggetto pensante, nell’approccio al tema, anche se non coinvolto personalmente, pure del tutto sinceramente proclive a cercare una soluzione equa per tutti, non abbia nel suo profondo una postura, un’inclinazione che pende verso l’una o l’altra parte. È una circostanza inevitabile e in un certo senso fisiologica. Io stesso, lo dico per trasparenza, mi rendo conto di avere maggiore attenzione per le ragioni degli israeliani.
È sempre stato così e, ripeto, è del tutto fisiologico. Legittimo, come essere di destra o di sinistra, tè o caffè, Beatles o Rolling Stones.. non c’è una posizione giusta e una sbagliata. Questo è stato vero fino all’ultima tragica puntata della crisi, il pogrom del 7 ottobre e la reazione feroce degli israeliani. Questa serie di eventi sembra aver segnato un cambio di passo e aver dato la stura a un evidentemente sotterraneo ma preesistente e diffuso sentimento antiisraeliano (o anti-ebreo?..). Ha prodotto infatti una simultaneità di manifestazioni di espressione tutte mono orientate verso la parte palestinese. Si è imposto il termine genocidio, un termine che contiene caratteristiche precise che neppure lontanamente si possono applicare alle intenzioni e all’azione dell’esercito di Israele, azione che può certamente definirsi feroce, sproporzionata, inutile ma il cui obiettivo non è certamente sterminare una stirpe. Si è velocemente archiviato l’orrore di quanto successo il 7 ottobre (salvo, da parte di frange estreme, addirittura considerarlo un’azione legittima di “resistenza”). Si è generalmente sorvolato sul fatto incredibile che funzionari dell’UNRWA (l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) hanno partecipato in prima persona al massacro del 7 ottobre. E ancora: le manifestazioni studentesche, tutte orientate in una precisa direzione. L’appello degli artisti per escludere Israele dalla Biennale. Lo sdoganamento della formula “from the river to the sea” ovvero l’inno alla cancellazione di Israele. Financo convegni che teoricamente erano di confronto e pacificazione come quello organizzato dal Comune di Firenze (leggasi la dolente testimonianza del capo rabbino di Firenze https://www.soloriformisti.it/lo-scandaloso-convegno-antisemita-del-comune-di-firenze/?fbclid=IwAR1pEp6oMmK7LzKMpiixhTCi3VwDY0AFqRkzjIJrAxKtch3I10Dug1CjEhc) che si sono risolti in una kermesse a senso unico. Ed è proprio l’asimmetria delle reazioni che personalmente mi lascia perplesso. Perché accanto alle certo giustificate critiche al comportamento di Israele (o meglio sarebbe dire del suo grottesco Primo Ministro e delle frange fanatiche dei religiosi), accanto al raccapriccio e allo sgomento per i 30.000 morti palestinesi e alle sacrosante riserve sulla gestione dei territori occupati (che data da molto prima del pogrom), un segno di vicinanza anche al dramma collettivo di un popolo, vittima come quello palestinese della situazione, sarebbe stato non solo opportuno ma anche, semplicemente, logico. Al contrario, le parole agghiaccianti del leader di Hamas, Haniyeh “il sangue di donne, bambini e anziani… Non vi sto dicendo che questo sangue ha bisogno di voi. Dico che siamo noi gli unici ad aver bisogno di questo sangue, in modo da risvegliare in noi lo spirito rivoluzionario, la risolutezza, la sfida.” oltretutto pronunciate nel sicuro esilio dorato all’estero, sono passate sostanzialmente sotto silenzio. Scarsissima la partecipazione per il dramma degli ostaggi, nessun anche vago pensiero retrospettivo nel constatare che la destinazione principale dei copiosi fondi internazionali per la popolazione palestinese si sia rivelata la costruzione dei tunnel per i guerriglieri di Hamas, nessuna perplessità nel constatare che Hamas poneva il suo quartier generale sotto l’ospedale. Nulla, o quasi nulla. E non solo nel nostro Paese: anzi, nell’America di sinistra-sinistra, già ammorbata dal delirio soffocante della cultura woke, l’intellettuale (e candidato indipendente alle Presidenziali) Cornel West teorizza apertamente che è bene che gli ebrei abbiano paura, nelle grandi università (un tempo) liberal impera una retorica ostile agli ebrei, l’atteggiamento incondizionatamente filopalestinese è dominante e le stesse rettrici di tre primarie università (Harward, MIT University of Pennsylvania) si sono mostrare molto restie a condannare episodi di antisemitismo e minacce agli studenti ebrei e, chieste di esprimersi se invocare il genocidio degli ebrei sia accettabile (“calling for the genocide of Jews..”), la risposta è stata “depends on context” (!!).
Insomma, una generale e definitiva condanna a senso unico (e con scivoloni spaventosi come quelli sopra ricordati). Naturalmente, tutti coloro che hanno esibito questa postura rifiuterebbero sdegnati anche solo il vago sospetto di nutrire sentimenti antisemiti.. anzi, si direbbero inorriditi e offesi. Eppure, la corale, assoluta, immediata e senza esitazioni reazione lascia perplessi, pare quasi appunto che la strage degli abitanti della striscia sia stato il detonatore per fare emergere un sentimento che covava sottotraccia. Perché non si è letta pari esecrazione o cordoglio per le migliaia di civili ucraini massacrati dalla guerra di Putin, in una guerra puramente di conquista imperiale e non di rappresaglia o autodifesa, non c’erano state le manifestazioni di piazza per le stragi di siriani, di curdi.. non si è vista la stessa civile indignazione per le donne (e non solo donne) vittime della repressione in Iran.. perché i palestinesi sono più simpatici di altri o tutto dipende da chi è da mettere sul banco degli accusati?
Un ottimista, a paradossale consolazione, potrebbe altresì osservare, e con buone ragioni, che non si tratta necessariamente di (solo) antisemitismo. In effetti per taluni, gli israeliani sono i “cattivi perfetti” per motivi oggettivi. In prima battuta, perché sono una nazione democratica e culturalmente occidentale circondata da Paesi musulmani nessuno dei quali è democratico e nel mondo il peso demografico e politico della sfera di influenza musulmana è sempre crescente, vedasi le posture dell’ONU, vedasi il preoccupante (per chi vede con repulsione la prospettiva del ritorno di Trump alla Casa Bianca) fenomeno degli elettori democratici USA musulmani che si definiscono uncommitted (cioè non votano Trump ma neppure Biden, per punirlo di essere troppo morbido con Israele).
E perché, all’interno delle società occidentali, vellicano il diffuso antiamericanismo essendo visti a torto o ragione (oggi direi più a torto) come un’emanazione dell’arroganza e dei soprusi degli USA, sono percepiti come i “ricchi” che sfruttano i “poveri”, i forti (con le armi USA) che maramaldeggiano sui deboli Perché per molti la stessa nascita di Israele è il colpo di coda del colonialismo, perché essere pro-Palestina senza se e senza ma fa tanto sentirsi “di sinistra”, progressista, pacifista, buono e superiore. Insomma, l’incarnazione degli scheletri nell’armadio delle potenze occidentali e dei loro peccati coloniali; il bersaglio ideale per mettere insieme e saldare le pulsioni del terzomondismo antioccidentale, di un diffuso e inesausto antiamericanismo di destra e di sinistra, del pacifismo incondizionato (cattolico e no), della cultura woke.
Un mondo, insomma, in cui la cultura occidentale è ristretta in un perimetro sempre più angusto, e per di più all’interno di tale perimetro si autoprocessa e mette in discussione. Una tenaglia preoccupante. E un mondo in cui essere ebreo sarà sempre più difficile.
Immagine di copertina: © La civiltà cattolica