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30 Maggio 2023Vi siete mai chiesti se anche il lessico sia soggetto a mode effimere, come succede coi nodi delle cravatte?
Beh, anche sì.
E non riguarda solo il “raga”, il “cringe” o il “boomer” di ordinanza.
Esistono termini e frasi che, magari solo per un tempo, diventano farcitura stilistica di qualsiasi discorso o argomento.
Tipo… “Senza soluzione di continuità” oppure “Secondo il combinato disposto…” per non parlare del melenso “Ti ringrazio davvero…” o di quel “Piuttosto che…”, quasi sempre utilizzato in modo improprio, come già rilevato dai redattori dell’ Enciclopedia Treccani.
(qui per chi volesse approfondire).
Questi modi rimangono, al più, vuote chiose stilistiche.
Magari utili a celare una qualche povertà di contenuto, o inserite nel maldestro tentativo di nobilitare l’ elementare costruzione del nostro eloquio con la frase ad effetto del momento.
Ecco, il termine “Rigenerazione Urbana” rischia di fare la stessa fine.
Perché ormai viene usato e abusato un po’ da tutti: intellettuali, tecnici, amministratori, semplici cittadini. La si cita in continuazione quando si parla di città e, ovviamente, di degrado.
Un po’ perché fa figo e richiama una certa modernità, ma anche perché, diciamocelo, non indispettisce nessuno.
Trovereste voi qualcuno che si infastidisca di fronte al “…ristabilirsi di un’integrità strutturale o fisiologica in tessuti, organi o parti del corpo precedentemente perduti o asportati …”?
Non credo.
Pertanto, ci si fregia di ri-generare qualsiasi cosa: dal semplice manufatto, all’ area produttiva dismessa; se ne parla per l’ ex-cinema a luci rosse o per il caseggiato popolare che diventa complesso residenziale up to date.
E la gente? Dov’è la gente?
A me spiace dirlo, ma non è proprio così che funziona…
Questa non è rigenerazione urbana.
Un’ esaustiva spiegazione del termine la potete leggere qui.
Storicamente, la Urban Regeneration dell’ epoca moderna nasce da quella sperimentata per la prima volta a metà ‘800 nel Regno Unito, precisamente nel quartiere di Westminster, sede di una delle baraccopoli più degradate e pestilenziali della Londra industriale.
Una zona così degradata da essere definita da Charles Dickens ‘Devil’s Acre’, terra del diavolo.
La borghesia del tempo, inorridita da tale inferno, ne pianificò così la rigenerazione.
Scelse peraltro, in modo lungimirante, che una parte degli investimenti fosse destinata alla costruzione di abitazioni per le classi più povere, con l’ obiettivo di risolvere contemporaneamente i tre aspetti principali dell’imperversante degrado di quei luoghi: in primis, la precaria condizione sanitaria; quindi quella economica e, infine, gli aspetti legati alla dilagante criminalità.

Si decise, attraverso un piano di edilizia (housing) finanziato da un privato – George Peabody Trust – di costruire delle abitazioni a mo’ di condominio, con affitti accessibili, provviste di un sistema di drenaggio che ne migliorasse la salubrità e una conformazione edilizia a corte che favorisse la vita in comune dei residenti.

Tantomeno, la rigenerazione urbana è solo ripristino di valore immobiliare.
E non è nemmeno il semplice quanto positivo concetto di rammendo urbano proposto a suo tempo da Renzo Piano.
Ora – con la speranza che avrete la bontà di seguire il mio ragionamento – proviamo a fare nostro il concetto fondamentale sopra descritto: la rigenerazione urbana riguarda prima di tutto la comunità, le persone.
Solo parallelamente i manufatti e il territorio fisico.
È, a tutti gli effetti, un atto politico di gestione della polis, ovvero della molteplicità che la compone, volto a migliorare gli standard della qualità di vita, indagando le criticità e le opportunità di carattere sociale, economico e ambientale.
La sua attuazione contempla, altresì, tutti gli interventi di funzionalità urbana.
Dal risanamento ambientale, alla scelta di destinazioni d’uso alternative; dalla riqualificazione edilizia all’ implementazione di nuove infrastrutture ma, in ogni caso, deve avere sempre e comunque chiaro l’ obiettivo finale dell’ intervento: il miglioramento del benessere collettivo.
Senza questa complessità, il termine rigenerazione urbana viene svilito e banalizzato, perdendo la valenza migliore cui fa riferimento.
Occorre comprendere come un intervento di vera rigenerazione urbana sia ben più ampio ed articolato degli sgangherati “rattoppi” con i quali disinvolti amministratori credono di risolvere le problematiche del territorio.
Peraltro, ormai dovremmo essere fin troppo avvezzi alla vacuità delle pompose affermazioni di cambiamento epocale sciorinate da ogni nuovo amministratore. Immancabilmente, sono sempre rimaste disattese per la cronica assenza di una visione d’insieme della città.
Tra l’ altro, non va trascurato che anche il piano Veneto 2050 della Regione Veneto, promuove testualmente:
“misure finalizzate al miglioramento della qualità della vita delle persone all’interno della città e al riordino degli spazi urbani, alla rigenerazione urbana in coerenza con i principi del contenimento del consumo di suolo”.
Quindi, anche a livello istituzionale l’ attenzione a queste problematiche è trasversalmente condivisa.
Bene, veniamo a noi allora…
”Ah signora mia che degrado…dove andremo a finire…!”
Ma che cos’è veramente il de-grado di una città?
È degrado un isolato cadente stile south Bronx anni ‘70? – Certo che sì!
È degrado un essere umano che passa la notte sotto un portico, coperto da cartoni? – Chiaro che sì!
È degrado il non poter circolare in certe zone senza una qualche inquietudine? – Assolutamente sì!
È degrado ritrovarsi gente che si strafoga di pizza sui gradini di casa tua? – Anche!
È degrado avere metri cubi di fanghi tossici nel sottosuolo di mezza città e fare spallucce? – Ovvio che sì!
È degrado che nel XXI secolo ci siano ancora abitazioni senza un sistema fognario moderno? – Altrochè!
E la lista potrebbe proseguire ad libitum se volessimo.
Ma di chi è figlio Mr. De-grado? (cit.)
Beh…è figlio di un degrado ancora più pericoloso e subdolo, invasivo e devastante.
Un degrado culturale che, negli ultimi decenni, ha contaminato e si è impadronito anche della nostra comunità.
Qualcosa che è di fatto diventato atteggiamento inconscio a reattività costante: la rinuncia sistematica ad occuparsi del futuro!
Rinuncia ad essere leader di cultura dell’ innovazione, del cambiamento propositivo, della sperimentazione e di nuova progettualità.
Qualcosa che nella storia millenaria del nostro territorio non si era mai visto, sia che si faccia riferimento alla storia della Repubblica della Serenissima, sia che si consideri quella novecentesca legata allo sviluppo di Porto Marghera.
E va detto con chiarezza e senza timidezze: questo è frutto della colpevole ignavia e cinismo di tutti.
La città è afflitta, ormai in modo patologico, da questo male strisciante, con i risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi quotidianamente.
Da decenni vive come bloccata, petulante e spocchiosa nella sua staticità, chiusa in un imbarazzante e antistorico provincialismo, completamente sorda a qualsiasi monito e sollecitazione intellettuale proveniente dall’ esterno.
Quotidianamente, si celebra il festival del procrastinare, dello sbuffo, del dileggio del Mondo, mentre sfila impietoso il desolante corteo dell’ incompiutezza…
Per quanto tempo ancora la città si potrà permettere questo atteggiamento?
È l’ ONU stessa che ci mette in guardia dal sottovalutare le nuove sfide che si delineano all’ orizzonte:
- una popolazione mondiale che crescerà rispettivamente sino a 8,6 miliardi di persone nel 2030 e 9,8 miliardi nel 2050.
- una maggiore longevità con ulteriore invecchiamento della popolazione
- un tasso di natalità che continuerà a calare e che, già da decenni, in Europa è sotto la soglia di sostituzione demografica
- un’ immigrazione fisiologica che andrà a concentrarsi soprattutto nelle aree urbane, ovvero dove le dinamiche della conoscenza e della ricchezza sono più rapide.
(qui il documento completo).

Come spiegato bene in questo articolo dell’ ISPI, oggi le città occupano appena il 3% della superficie terrestre, eppure ospitano il 55% della popolazione globale, sono responsabili del 60% delle emissioni inquinanti e producono il 70% di rifiuti solidi. In Europa, vivono in zone urbane circa i tre quarti dell’intera popolazione.

Per una realtà così complessa e delicata come Venezia, col suo assetto duale e muticentrico, di terra e di acqua, pianificazione e rigenerazione urbana dovrebbero essere tema di quotidiana priorità.
Eppure, nonostante la nostra fortuna sfacciata di abitare in un’ area geograficamente, economicamente e culturalmente di primissimo ordine, sia a livello europeo che mondiale, continuiamo a ragionare, pianificare e progettare secondo logiche di contingenza, di piccolo cabotaggio, deprimendo e mortificando qualsiasi spinta innovativa con visione di medio e lungo periodo.
Un esempio su tutti? La mobilità.
Della città, di ogni città, l’infrastruttura del trasporto ne costituisce lo scheletro sul quale poggia il tessuto economico-produttivo, si sviluppano le relazioni sociali e fiorisce il flusso della conoscenza e della ricchezza.
Nel corso degli ultimi 40 anni, i decisori hanno sempre snobbato, se non osteggiato, la realizzazione di un lungimirante e moderno piano infrastrutturale.
Due i progetti che in questo senso potrebbero ancora essere decisivi:
LA SUBLAGUNARE
Il recupero delle funzioni residenziali e produttive della città non si possono realizzare se non rendendo “vicini” i luoghi del territorio, attraverso collegamenti rapidi e sostenibili.
Questo vale, a maggior ragione, se si persegue l’ obiettivo di una rilevanza europea di tutta la Città Metropolitana di Venezia.
Pensiamo ai potenziali collegamenti con tutti i gangli vitali che fanno riferimento al bacino lagunare, dall’ aeroporto a porto Marghera, da Punta Sabbioni a Murano e così via.
Come si faccia ad annunciare nuovi insediamenti produttivi al Lido di Venezia senza porsi il problema degli spostamenti che essi genererebbero lascia francamente basiti.
Quale soggetto, pubblico o privato, potrebbe sostenere i costi di recupero e gestione di una struttura tipo l’ ex-Caserma Pepe al Lido di Venezia – una tra le tante inutilizzate presenti sul territorio- senza innervare la città di collegamenti che la rendano fruibile ed economicamente sostenibile, contribuendo così a richiamare una nuova generazione di residenti e imprese?

LA STAZIONE INTERRATA DI MESTRE
In una visione metropolitana e intermodale del trasporto pubblico, l’interramento della stazione risolve la cesura fisica tra Mestre e Marghera, i problemi legati alla devastante presenza dei cavalcavia, generando un nuovo spazio urbano dove poter realizzare, secondo le migliori prassi di eco-sostenibilità e innovazione tecnologica, un’ area con funzioni residenziali e terziarie, immediatamente raggiungibile da tutti i punti della la città.
Questo con la conseguente e immediata riqualificazione di tutto il tessuto urbano circostante, sia sul versante di Marghera che sul versante del Quartiere Piave.


Senza nulla togliere alle intenzioni, qualcosa di un tantino più ambizioso che un’ ulteriore sovrastruttura a forma di passerella o di un container dei gelati piazzato al posto dell’edicola dismessa.
Quelli descritti sono solo due esempi dei tanti temi progettuali sui quali sarebbe opportuno cominciare a ragionare col contributo di tutti, imprese, amministratori e cittadinanza.
Perché la Venezia del futuro, deve avere un focus rigenerante su tutta la città, non solo su singole aree.
Deve poter realizzare una rigenerazione urbana profonda e radicale, secondo una pianificazione che abbia un orizzonte temporale di almeno 30-50 anni e di cui la comunità ne arrivi a condividere la visione, accetti gli inevitabili disagi realizzativi, e della quale possa legittimamente rivendicarne il merito.
Oh, non c’è dubbio: occuparsi di futuro è faticoso, impone spesso il doversi misurare con l’amara realtà di un presente non sempre limpido, farsi carico del dialogo e del dissenso, tentare di identificare soluzioni sia innovative che sostenibili, oltre a fornire motivazioni di rinnovato entusiasmo, magari percorrendo sentieri progettuali sconosciuti, pur se apparentemente ostici.
Ma se si perde questa spinta ideale verso il futuro, questo desiderio di miglioramento, se si rinuncia a credere nel lascito generazionale, cosa ci si può aspettare se non ulteriore frustrazione?
Come nella Londra vittoriana, allora, i decisori dovrebbero preoccuparsi di rinsaldare il patto fiduciario tra cittadini, imprese e amministratori.
Patto che oggi sembra tragicamente andato perduto.
Piantarla di rimanere abbarbicati a micragnosi calcoli di bottega e provare a proiettarsi in una dimensione progettuale di ampio respiro, di livello internazionale e rivolta ad una crescita virtuosa, al futuro.
Per farlo va coinvolto, innanzitutto, chi di quel futuro diventerà fruitore e protagonista: le generazioni più giovani.
La storia, sfortunatamente, non attende nessuno.
E chi specula sul tempo, alla fine ne viene irrimediabilmente travolto.
Questo è quello che politici e amministratori avveduti di una grande città dovrebbero fare.
Se e quando lo faranno…