RIGENERAZIONE URBANA Il fiume che divide e che unisce: la “Città del Piave”
20 Settembre 2022POSTA IN REDAZIONE A proposito delle rampe della Venice Marathon
26 Settembre 2022Una vacanza all’italiana comporta dei rituali che ci piacciono e ci rassicurano: stessa spiaggia, stesso mare, stessa fila di ombrelloni, stessi bambini vocianti, stessi schiamazzi, stessi palleggi, stessi rumori di racchettoni. Molti di noi sono malati di abitudine: d’estate, pur potendo optare per luoghi esotici, quelli da sogno, per intenderci, o per le città d’arte, non rinunciano all’appuntamento agostano, il bagno di fiducia per quelle tre o quattro settimane di ossigeno che il datore di lavoro concede loro.
Una vacanza al mare può diventare un interessante spaccato antropologico di vizi e virtù sui quali è curioso soffermarsi. In particolare, i bambini italiani sono un importante indicatore per chi voglia farsi un’idea su come vanno le cose. Osservare i loro comportamenti in vacanza può essere molto utile per capire aspetti strutturali della nostra società. Tanto più se tali soggetti sono rapportati a giovani cittadini di altri paesi.
Quest’anno, mi trovavo in spiaggia e ho avuto, come vicini di ombrellone, due amabili famiglie, rispettivamente provenienti l’una da una cittadina italiana, l’altra da una città belga. Entrambe le famiglie con due figli ciascuna. So di scivolare nel luogo comune se dico che le due coppie di bambini avevano atteggiamenti completamente diversi tra loro. E non si è trattato solo di una sensazione inquinata da stereotipi radicati nella nostra cultura. Ho fatto amicizia con entrambe le coppie di genitori e, su loro ammissione, ho avuto conferma di un’idea che in tanti anni di insegnamento mi si è ben radicata nella mente, malgrado le dovute, fortunate eccezioni.
Dal momento che sono italiana (e qui mi fermo, omettendo le mie radici cristiane e la mia condizione di madre…), mi costa sacrificio constatare quanto ben lontani siamo dall’educare i nostri figli a una completa autonomia di pensiero e quanto gravoso diventa il compito della scuola se costretta a seminare su un terreno non sufficientemente arato. Bimbi insoddisfatti, incostanti nei giochi, volubili nell’amicizia, capricciosi, erroneamente e precocemente tecnologici, scarsamente autonomi nel badare a se stessi o nel raccogliere le proprie cose, poco responsabilizzati, prepotenti e poco comunicativi, musoni, indifferenti ai richiami, avvezzi al comando fino a rasentare la tirannide. Bambini senza fantasia, in preda a blocchi verbali e di pensiero, o isterici o in crisi di astinenza, se privati dello smartphone o del tablet. Bambini destinatari di regali costosi, griffati che non riescono a nutrire il nobile sentimento della riconoscenza per i doni ricevuti. Bimbi difesi e giustificati, iper protetti, cui viene negato il valore educativo del sacrifico e della frustrazione, necessario ad affrontare le difficoltà della vita. Difficoltà che consistono, oggi, nel chiedere scusa o dire grazie o fare i compiti, domani, nello svolgere il ruolo che la società assegnerà loro.
Non parlo di mostri né sono solita abbandonarmi a sterili generalizzazioni. Simili attitudini, ovviamente, non attengono all’intero universo infantile, ma ne costituiscono un allarmante campione. Fino a che ci saranno genitori distratti, concentrati nelle loro piccole e grandi affezioni, malati di social e affetti da voyerismo fotografico, pronti a giustificare capricci e cocciute impuntature dei loro pargoli, disposti a demonizzare insegnanti esigenti, pur di non riconoscere la superficialità del proprio approccio educativo, avremo soggetti fragili e incapaci di costruire la propria ossatura di cittadini. Che comincia a strutturarsi proprio da adesso, a fronte di genitori ancora figli, nonni schiavi e insegnanti che, loro malgrado, si configurano, nell’immaginario di tanti incolpevoli bimbi, come aguzzini da sopprimere.