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Sere fa ho assistito alla presentazione di un libro sulla scuola. Non era la solita denuncia, o il solito cahiers de doléances, o la solita scoperta dell’acqua calda che favoleggia sugli insegnanti brutti, sporchi e cattivi e sulle loro vacanze che sono uno schiaffo violento all’immane fatica che ogni comune mortale compie. Si trattava, invece, di un libro sulla buona scuola, contenente vicende narrate da una giornalista d’inchiesta. Sono vicende che raccontano di professori che hanno fatto dell’inclusione un imperativo categorico; di presidi esiliati in scuole di frontiera che affrontano in prima linea la piaga della dispersione; di maestri in grado di motivare e di coinvolgere i propri alunni anche laddove strutture fatiscenti e strumentazioni obsolete lo impediscono e anche laddove gratifiche stipendiali ridicole demotiverebbero il più irriducibile degli stakanovisti. Insomma, si è parlato di tanta buona scuola. O, per meglio dire, di tante belle persone che rendono buona la scuola. E vivaddio che se ne parli ogni tanto.
Dirò di più. Ho dedicato – posso dirlo senza ombra di retorica – la mia vita alla scuola. Non l’ho fatto per compensazione né per comodo, né per esclusione. Né tanto meno per missione (ogni mestiere è strumento di realizzazioni personale e fonte di reddito: non è una missione). L’ho scelto perché mi sono formata su precisi parametri scientifici e perché, forse, era l’unico lavoro che avrei saputo svolgere nella vita. Per me, come per i numerosi colleghi che ho conosciuto nel corso degli anni, è normale eccedere in generosità, senso civico, attenzione alla diversità e alla fragilità, rispetto del disagio, lotta alle ingiustizie, prudenza nel valutare e nel tener conto delle infinite variabili che condizionano il percorso evolutivo di uno studente, competenza didattica ed epistemologica. Attitudini, queste, per nulla straordinarie per i docenti della scuola pubblica, spesso impegnati a combattere contro il luogo comune della mediocrità e dell’indolenza.
Il problema è un altro, però. Da sempre, in prossimità di un appuntamento elettorale, sento proclami di rivalutazione della scuola e del ruolo degli insegnanti, cui segue il silenzio più imbarazzante a elezioni concluse. La pandemia ha disvelato le infinite contraddizioni della scuola: spazi irrisori, numeri eccessivi di alunni per classe, divario digitale e profonde diseguaglianze di condizioni di partenza e di conseguente accesso alla conoscenza. Sì, perché, malgrado sia passato del tempo da quando Don Milani denunciava i meccanismi impietosi di una scuola classista, gli scarsi investimenti, la mancanza di un progetto serio, le riforme, tutte a costo zero, hanno solo aumentato il carico burocratico degli insegnanti, a tutto detrimento degli aspetti più squisitamente creativi. Che sarebbero invece necessari per rispondere ai bisogni formativi di una società sempre più caleidoscopica. A oggi, purtroppo, non ho sentore di investimenti concreti e risolutivi.
Ciononostante, come fiumi carsici, gli insegnanti della scuola pubblica continuano a lasciare solchi profondi nella formazione delle nuove generazioni, colmando così il vuoto delle istituzioni. I giovani docenti, cui stiamo offrendo il testimone, sanno, ob torto collo, che grava sulle loro spalle, ingrossate da anni di studio e dal sacrificio del precariato, da concorsi farsa e dall’immancabile licenziamento a fine giugno, il peso di una complessità crescente. Occorrerebbe afferrare al volo l’occasione del PNRR per dare giustizia a queste legioni di operai della conoscenza, dotati di uno slancio che deve essere nutrito. Ma la scuola non è mai stata un’appetitosa sacca elettorale.
Sarebbe sufficiente capire che non vogliamo eroi, ma lavoratori impegnati e giustamente retribuiti, non vogliamo volontari romantici, ma professionisti. Non vogliamo riverniciature di facciata, fatte lì per otturare le crepe che il tempo ha fatto emergere, ma ristrutturazioni solide. L’assenza di queste priorità è stato un elemento di continuità che ha ispirato gli uomini dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Nessuno può dire loro che questo filo rosso non paga? Non vorrei dire, ma è per il futuro dei nostri figli…