
Intervista a tre
13 Novembre 2025
CONO DI LUCE Le parole della poesia sono sempre parole di pace.
14 Novembre 2025Quando due persone s’incontrano, il primo gesto che si scambiano è, di solito, una stretta di mano. C’è chi abbandona mollemente la propria estremità in quella altrui e chi viceversa stringe l’altra mano in una morsa d’acciaio. Il buon senso, prima ancora del bon ton (di cui io sono quasi del tutto digiuno) suggerirebbe invece di evitare entrambi i comportamenti estremi.
Ora, parlare di simili inezie, mentre sul Pianeta incombono venti di guerra e mentre in Terra Santa non è ancora terminato, ad onta della cosiddetta pace, il secondo inaudito genocidio del Novecento (sic) dopo quello nazista della Shoah, può sembrare futile e impertinente. Ma – come si usa dire coi lutti personali – la vita continua. Anche quella del Pianeta (speriamo).
Tornando alla nostra stretta di mano, essa di solito prelude alla pratica del conversare. Ebbene, quali che siano gli argomenti di un dialogo tra due che s’incontrano (si tratti di questioni di alta politica internazionale oppure di banali riflessioni sulla vita quotidiana) ci sono due comportamenti, frequentissimi, che andrebbero evitati.
Immagino che i manuali di buone maniere contemplino tale casistica, io però lo ignoro perché, come dicevo, non sono preparato su tale materia. So soltanto che tali regole da manuale solo in alcuni casi hanno una loro chiara ratio e una vera ragion d’essere; assai spesso sono invece convenzioni del tutto arbitrarie e a volte grottesche. Senza considerare che sono regole transeunti, che cambiano col tempo e con le mode. Ma a parte ciò, ci sono delle considerazioni sul corretto modo d’interagire in una conversazione, che sono fondate sulla logica e sul rispetto per gli altri, e, come tali, dovrebbero essere intramontabili.
Talvolta la conversazione tra due persone stenta a partire, specie se i due si conoscono poco o niente. Ci può essere una fase imbarazzante di silenzio. Il modo migliore per rompere il ghiaccio non è avviare il colloquio parlando tanto di sé (situazione in cui non di rado pure ci s’imbatte: io sono questo, io faccio questo, io ho fatto quest’altro), bensì quello di porre all’altra persona delle domande su ciò che si sa (o che s’intuisce) sia la sfera prediletta della sua attività, dei suoi interessi, delle sue preoccupazioni.
Trovo che non sia difficile avviare in questo modo una conversazione, specie se si è moderatamente interessati ai casi degli altri, come il sottoscritto. A me pare che le persone abbiano sempre una propria storia da raccontare, un proprio mondo da esprimere. Aspetti dei quali io sono sempre assai curioso. Non morbosamente curioso, per desiderio sapere i fatti altrui, bensì curioso in senso empatico ed antropologico, se così si può dire.
Altra questione. In un dialogo tra due persone ci s’imbatte spesso in interlocutori inclini più al monologo che non al dialogo. Sono tantissimi coloro che parlano inesauribilmente e che ininterrottamente raccontano i casi loro. La mala creanza, qui, dipende da un duplice errore. Il primo errore è quello di arricchire la propria narrazione con fatti, antefatti, incisi, digressioni e precisazioni del tutto irrilevanti ai fini del discorso che si fa. Ciò significa che manca spessissimo la capacità di sintesi e di selezione delle informazioni pertinenti. Vieni al fatto, vieni al punto, per piacere – mi ammoniva spesso la buonanima di mio padre – e poi eventualmente aggiungi le integrazioni del caso.
Il secondo errore dei parlatori logorroici consiste nell’incapacità di leggere i segnali corporei dell’interlocutore e di comprendere se chi ascolta si sta annoiando oppure no. Il dire facondo è ammissibile solo se chi ci sta di fronte pare realmente disposto ed interessato ad ascoltarci. Oppure se noi siamo dei bravissimi oratori, capaci d’incantare, narrare, affabulare. In caso contrario dovremmo fermarci ai primi segnali d’insofferenza altrui e comunque di tanto in tanto andrebbero fatte delle pause, per dar modo all’interlocutore d’intervenire, d’inserirsi nella conversazione. Il vezzo dello sproloquio è diffusissimo nel nostro Paese anche ai livelli più alti. Non di rado perfino in convegni, conferenze e presentazioni varie, ci s’imbatte in oratori dall’intervento fiume, incapaci persino di rispettare i tempi pattuiti o raccomandati da chi ha organizzato l’incontro.
Personalmente quando parlo ad un pubblico (e lo faccio anche come insegnante con i miei studenti), mi sfilo l’orologio da polso e lo metto davanti a me in bella vista. Quanto dura la lezione? Rispettare i tempi dati (o, per chi scrive, lo spazio concesso) dovrebbe essere una regola aurea della correttezza per chi si rivolge ad un uditorio e in genere a un pubblico.
D’altro canto, egualmente intollerabile, se non peggiore, è il malvezzo d’interrompere gli altri quando non sono ancora arrivati alle loro prime conclusioni o quando hanno appena iniziato ad articolare un pensiero. Questo malcostume lo si vede oggi spessissimo nei cosiddetti talk show e affini, nelle “chiacchiere-spettacolo” di ogni ordine e grado, durante le quali non solo i convenuti s’interrompono l’un l’altro ad ogni piè sospinto, ma (peggio mi sento) sono addirittura gli stessi conduttori, spesso, che li fomentano a fare ciò.
I conduttori, che dovrebbero essere anche dei “moderatori” (così si diceva una volta), lasciano che due interlocutori (o tre o quattro perfino…) parlino insieme, contemporaneamente, che s’interrompano, che si sovrappongano. E intanto il telespettatore si esaspera, perché non riesce sovente a sentire una frase che sia una, un solo pensiero compiuto. Ah, i bei tempi delle Tribune politiche di Ugo Zatterin e Iader Iacobelli, che riprendevano e bacchettavano i politici discoli e impertinenti!
Ma dopo questa consapevole digressione, riprendo il filo del discorso per dire degli altri due atteggiamenti erronei nel conversare. Primo: è frequentissimo il caso per cui chi ascolta in realtà … non ascolta affatto. E quindi fraintende, perché si distrae, rimane ben presto “impigliato” nei propri pensieri e nei propri casi (e nella propria voglia di cogliere l’occasione data dal colloquio per parlare tanto di sé e di cose che magari c’entrano poco o nulla con ciò di cui si tratta). Ecco che spesso costoro interrompono intempestivamente chi sta parlando ed entrano nel discorso a gamba tesa con un “Ah, sì; anch’io… sai, anche a me… senti che cosa mi è successo”.
E subentrano in questo modo nel dialogo, per abbandonarsi, a loro volta, ad una sontuosa prolissità. Ma in verità un po’ tutti siamo così: poco disposti ad ascoltare gli altri, poco interessati ai loro casi, molto propensi a parlare tanto di noi stessi, di quelle quattro cose o quattro idee che ci siamo fatti nella vita, assai inclini a narrare, magari con abbondanza di dettagli irrilevanti, ciò che è capitato a noi quella tale volta, come se fosse ogni volta chissà quale inaudito avvenimento.
Devo riconoscere, ahimé, che tali malvezzi nel conversare, tendono ad acuirsi col tempo e col passare degli anni, e diventano particolarmente spiccati in quelli come me (gli anziani) che amano molto parlare di sé e che si considerano dei gran saputi solo perché hanno vissuto tanto. Salute a noi.



