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30 Novembre 2025Nel desolante panorama della cronaca mondiale, scorrendo la stampa internazionale, talvolta ci si imbatte in notizie che fanno sperare in un futuro meno plumbeo di quanto normalmente appaia. La notizia in questione l’ho scovata dal New York Times e riguarda la Cina. Il gigante energetico ha deciso di affrontare seriamente il tema della produzione di energia da rinnovabile. Tema cruciale per tutto il pianeta, naturalmente, perché la Cina ad oggi brucia la metà del carbone nel mondo (naturalmente, bene sempre sottolinearlo, con una impronta pro capite incommensurabile rispetto agli standard occidentali). Xi Jinping ha posto l’obiettivo di moltiplicare per 6 la produzione da rinnovabili e punta decisamente sul fotovoltaico. Fonte di energia assolutamente pulita ma con l’enorme difetto, oltre a quello strutturale dell’intermittenza, di occupare molto spazio. Caratteristica che, in un Paese piccolo e molto popolato come l’Italia, per esempio, ne rende la diffusione sistematica particolarmente impervia.
La Cina dispone altresì di spazi immensi pressoché desertici e ha deciso di puntare sulla Provincia di Qinghai (in rosso nella figura sotto), dal territorio immenso (720.000 kmq, quasi 2 volte e mezza l’Italia), per lo più pianeggiante e scarsissimamente popolato (5,9 milioni).

© New York Times
L’enorme spazio vuoto a disposizione si coniuga con un’altra particolarità cruciale: il Qinghai ha un’altitudine media altissima (sopra i 3000 metri s.l.m.) e quindi temperature rigide. E questo gioca un ruolo positivo per il rendimento dei pannelli perché le cellule dei pannelli sono più efficienti a basse temperature (e in modo sensibile) e perché a quelle altitudini la radiazione solare è meno filtrata. Infine, si giovano anche del fenomeno dell’albedo, ovvero la rifrazione della luce sulla neve (ovviamente abbondante a quelle altitudini).
Il più imponente impianto realizzato finora è il Parco Solare di Talastan: la sua estensione è sette volte più grande dell’isola di Manhattan. La potenza installata raggiunge i 17.000 MW, per gli standard italiani una cosa inimmaginabile; per dare un quadro comparativo, la potenza è circa 165 volte quella della più grande centrale fotovoltaica italiana ed equivale a oltre un quarto del picco storico di domanda elettrica nazionale.

@ New York Times
Ma non è finita: con una certa sorpresa si è riscontrato che i pannelli solari in queste aree sostanzialmente desertiche hanno paradossalmente un effetto positivo sulle condizioni microclimatiche del suolo e sulla biodiversità dell’area. I pannelli infatti riparano il terreno dalla radiazione solare diretta, rallentano l’evaporazione e aumentano l’umidità del terreno. In più riducono la velocità del vento, il trasporto di sabbie.. in sostanza, favoriscono la creazione di un microhabitat protetto per la vegetazione.
Naturalmente c’è un rovescio della medaglia: per esempio la formazione di neve e ghiaccio sui pannelli che se non prevenuta o costantemente pulita ne riduce la capacità di assorbimento. Ma nel complesso, il bilancio è più che positivo. Anche per il ridotto impatto sociale; si consideri per esempio, la leggendaria Diga delle Tre Gole sullo Yantze. Impianto idroelettrico, pure energia rinnovabile e pulita (nel senso che non emette CO2). Ma a che prezzo sociale: per fare posto al bacino di acqua creato dalla diga fu spostata una popolazione di più di un milione di persone. Oggi forse nemmeno in Cina sarebbe concepibile.
Ma l’inconveniente più sostanziale è ovviamente il fatto che il baricentro dei consumi in quello sterminato Paese è molto lontano dai deserti del Qinghai con la necessità, dunque, di una rete di elettrodotti di altissima tensione per il trasporto (e le conseguenti perdite di rete). Anche su questo fronte, però la Cina ha puntato all’ottimizzazione. Hanno trasferito in loco, o prevedono di farlo nel prossimo futuro, molti data center, con i loro server particolarmente energivori. A questa altitudine, i centri consumano il 40% in meno di elettricità rispetto a quelli situati al livello del mare, grazie al fatto che quasi non necessitano di aria condizionata.
Insomma una risposta molto efficace al tema ambientale, particolarmente importante perché intrapresa da un attore decisivo nella partita, per il peso appunto sull’environmental footprint di un Paese che è di fatto la fabbrica del mondo.
Giova a questo punto sottolineare che, se il gigante Cina si avvia decisamente verso politiche green, la stessa cosa certo non si può dire per l’altro grande attore: gli Stati Uniti d’America. Dove, anzi, il presidente Trump da sempre manifesta una scellerata attitudine “negazionista” ed è anche culturalmente legato alle fonti di energia fossile. Non è, naturalmente, solo una questione di sensibilità ambientale. C’è di mezzo il denaro, e la banale circostanza che gli USA hanno petrolio e gas in abbondanza da vendere al mondo mentre la Cina non ha, in proporzione, le stesse risorse. Mentre, al contrario, domina il mercato dei minerali necessari alla produzione di pannelli fotovoltaici (pure questo, va detto, di tipo “estrattivo”, non è tutto oro quello che luccica). Insomma, il tutto sottende una partita economica e di sicurezza energetica nazionale. Per usare le parole dell’esperto Domantas Miklovis, ancora sul New York Times: “We’re witnessing a race between the world’s two superpowers to define how the global economy is powered. That race is driven not just by climate change. The U.S. and China are pursuing energy strategies defined mainly by their economic and national security concerns. In both countries, there are entire industries at stake, and both countries want energy autonomy” (stiamo assistendo a una gara tra le due superpotenze mondiali per definire la fonte di energia dell’economia globale. USA e Cina perseguono strategie energetiche sulla base di considerazioni di carattere economico e di sicurezza nazionale. In entrambi i Paesi, la posta in gioco sono intere filiere industriali e ambedue vogliono autonomia energetica).
A rendere il quadro ancora più complesso, l’enorme questione del fabbisogno energetico delle nazioni emergenti, in prima fila l’India.. Insomma, la partita è complessa e tutt’altro che scontato che si arrivi a un assetto sostenibile per il pianeta e le discussioni in corso in questi giorni alla COP30 a Belem (Brasile) lo confermano. Da un lato è positivo che cresca una consapevolezza globale, anche da parte delle nazioni emergenti, della necessità di un Global Mutirão un accordo di azione collettiva internazionale per proteggere gli ecosistemi vitali del mondo, invocata dai padroni di casa brasiliani: Dall’altro le difficoltà di stabilire l’aspetto finanziario. Siamo ancora a livelli di proposte divergenti sui target e sugli strumenti.. salvare il pianeta costa e mettersi d’accordo su chi e come paga il conto è ancora un nodo irrisolto. In questo contesto, l’assenza di una delegazione degli USA a COP30 pesa come un macigno.
Spes ultima dea.. e per ora accontentiamoci delle buone notizie dal Qinghai.
Immagine di copertina © Alamy



