Brugnaro bis
22 Settembre 2020Stand back, stand by
2 Ottobre 2020Per la maggior parte delle persone la risposta sembra ovvia: 2!
Ma in politica la fantasia e la logica aritmetica spesso non valgono.
E allora magari ci sarà qualcuno che risponderebbe 11!
Fuori dal calembour vorrei fare un ragionamento sullo stato dell’arte del campo di CentroSinistra.
Che tutti continuano a definire sempre così, anche se ci piacerebbe trovare una definizione meno novecentesca.
Alle ultime regionali (7 Regioni su 21, un terzo) il Pd primo partito col 19,8%, Lega secondo col 13,9%, Fratelli d’Italia terzo col 10,6%.
Il M5S precipita al 7,9%.
Il dato aggregato delle liste nazionali sul totale dei voti validamente espressi alle elezioni Regionali dice questo. Ma la verità è che dal voto nelle 6 Regioni (7 se si considera anche la Valle d’Aosta) emerge un quadro a dir poco disomogeneo, in cui ogni Regione fa letteralmente storia a sé.
Ma assumiamo per semplicità il risultato del voto aggregato.
Per altro alle ultime Europee i risultati erano questi
Consideriamo pure che le elezioni europee sono interpretate come una sorta di “liberi tutti” in cui il voto è un voto di opinione, con poche, pochissime implicazioni di ordine pratico, considerato l’approccio “leggero” dell’elettore.
Anche se poi è l’Europa che alla fin fine comanda e governa.
L’abbiamo visto in occasione di questa emergenza sociosanitaria provocata dal Covid-19.
Dove saremmo senza l’Europa?
Ma il dato da cui parte il ragionamento si sostanzia nell’esito delle ultime politiche 2018
La mobilità del voto degli italiani è sotto gli occhi di tutti.
Il Governo Conte 2 si regge su una maggioranza di seggi parlamentari composta dall’aggregazione del M5S, del PD, di Italia Viva e di LEU.
Dopo il ribaltone di un anno fa, quando Matteo Renzi (ancora autorevole membro del PD) fece la mossa del cavallo e il suo gioco tattico provocò la fine del Governo giallo-verde con Salvini – ubriaco di sé stesso più ancora che di mojito – messo all’angolo, i rapporti di forza a livello parlamentare si sono rovesciati.
Il Governo giallo-rosso si è comportato con assennatezza nella straordinaria emergenza pandemica, ha scontentato molte componenti economiche italiane, ma ha accontentato la plebiscitaria richiesta di protezione sanitaria che il “popolo” italiano ha saputo interpretare con sacrificio e con una dedizione persino inaspettata.
Si sono però generati gravi problemi di carattere economico e finanziario. Il Debito Pubblico è esploso, il PIL è in crollo costante da alcuni mesi.
I segni di una ripresa in molti comparti della struttura economica nazionale sono ancora lontani. Molti settori sono in grave sofferenza: la filiera del Turismo su tutti.
L’occupazione è crollata con la perdita di più di 1Milione di posti di lavoro.
Le ore di Cassa Integrazione sono schizzate a livelli inimmaginabili.
Eppure siamo ancora qui, l’Europa, rassicurata da una maggioranza di Governo fortemente europeista – in cui il ruolo assunto dal PD, da Italia Viva, da Leu, più ancora che dal M5S, è stato determinate nell’acquisire il necessario credito politico a Bruxelles – ci ha consentito di sforare sul debito per assistere le fasce più disagiate, per garantire il più a lungo possibile il lavoro.
I fondi straordinari europei sono stati messi a disposizione con il SURE, con gli interventi della BEI, c’è il MES che aspetta di essere attivato.
E la BCE che continua a comprare i titoli del debito pubblico italiano.
Ma soprattutto c’è all’orizzonte il New Generation Plan (prosaicamente definito Recovery fund) con una dotazione straordinaria di 172 miliardi, divisi tra oltre 90 miliardi di prestiti e circa 81 miliardi di sovvenzioni (a fondo perduto).
Tutti debiti che in ogni caso bisognerà ripagare, nel tempo, ma che sostanzialmente verranno lasciati sulle spalle delle prossime generazioni.
Per ripagarli c’è una sola strada. Investimenti strategici di ordine strutturale, in ordine al capitale umano, alla digitalizzazione, all’ambiente e territorio (ecologia e manutenzione).
Perché la produttività salga almeno vicino ad un 2%, un livello che l’Italia ha dimenticato da più di due decenni.
Appiattita com’è su valori da prefisso telefonico.
Con questo quadro tutti gli esperti, tutti gli editorialisti, i politologi prevedono che il Governo Conte 2, nonostante le molte difficoltà interne alla sua maggioranza, in particolare con i CinqueStelle in fibrillazione, durerà fino a dopo le elezioni del Presidente della Repubblica (2022) e forse anche fino alla scadenza naturale del 2023.
Anche perché, al di là delle spinte e controspinte, soprattutto dopo il risultato del Referendum sul taglio del numero dei parlamentari, ma chi volete che si metta in gioco prima della scadenza naturale?
Sì vabbè. Prendiamo atto che nulla cambia nei prossimi 2/3 anni. Ma dopo?
Ed ecco che entra in gioco la domanda iniziale: quanto fa 1 e 1?
Nel CentroDestra c’è una ricomposizione delle forze, un rimescolamento delle quote, ma sostanzialmente quella coalizione si dimostra sempre molto compatta e sostanzialmente unita, almeno fin che c’è da battere l’avversario.
Dall’altra parte, nel variegato campo di CentroSinistra (sempre in attesa di ridefinizione) il PD, partito di maggioranza relativa, che ha pur sempre inoculato nel suo DNA il senso della responsabilità, che ha un personale politico di discreto livello, affidabile, sufficientemente preparato, raramente populista – con qualche rimarchevole e contraddittoria eccezione – con il senso dello Stato come cifra politica, naviga con un’andatura di bonaccia su percentuali che da elezione ad elezione, indipendentemente dal carattere (amministrativo, politico, europeo) poco si discostano da quel 20% che lo relega “nel conservatorismo” del panorama politico.
Il PD c’è, è e rimane un punto di ancoraggio delle politiche europeiste di questo fronte, è un punto di riferimento anche se di strati sociali sempre meno dinamici.
Non offre nulla di veramente coinvolgente con un atteggiamento politico molto statico, con un approccio governativo improntato allo status quo, certamente non è in grado di catturare l’interesse dei giovani e ancor meno dei protagonisti dei settori produttivi del Paese.
Per non parlare degli strati popolari, di ampie frange di lavoratori, in particolare del settore privato.
E’ certamente ascoltato, ma non amato. Il che spiega le sue performance davvero poco entusiasmanti.
C’è Italia Viva, una formazione che aveva un ambizioso progetto di rinnovamento della politica, che voleva cercare di aggregare un fronte riformista, progressista, liberaldemocratico, ma il cui obiettivo sembra arrancare per non dire avviarsi al fallimento.
Anche se siamo solo alle prime prove, ma come dice il proverbio: “il buongiorno si vede dal mattino”.
A poco valgono le dichiarazioni di un Matteo Renzi poco obiettivo e molto autoconsolatorio, che dopo le regionali vuole accreditare la sua formazione di un 4,5%.
Solo perché la Toscana – giocava in casa – ha fatto il risultato.
O perché in Campania ha raggiunto un 7,5%. Ma in Campania ci sono sempre fenomeni elettorali strani legati ai portatori di voti. In tutte le liste. E non me ne farei un vanto. E nemmeno una certezza.
Perché l’unico vero dato che avrebbe dovuto segnare il trend di Italia Viva è quello di Scalfarotto in Puglia.
Persona di assoluta competenza, di grande qualità, di ottimo spirito, di grande esperienza. Ha messo assieme (e c’era pure Calenda a sostegno) un misero 1,5%.
Per non dire che in Veneto la generosa Daniela Sbrollini è rimasta schiacciata dal ciclone Zaia, come tutti gli altri del resto, ma ha fatto molto meno di qualsiasi peggior previsione. Ma le ragioni non vanno trovate nelle responsabilità individuali.
Di quest’area fanno anche parte +Europa e Azione di Calenda. Ma tutti assieme sembrano più i galli di Renzo (quello dei Promessi Sposi) più che quelli capaci di aggregarsi e spingere per le idee progressiste e incisivamente riformiste di cui questo Paese avrebbe un disperato bisogno.
Incapaci di fare massa critica, di offrire una sponda a quella parte della società che si appella al “moderatismo”. Un moderatismo illuminato che possa essere davvero trasversale ai due campi. Quelli ancora novecenteschi.
Ma alla prova dei fatti, quel centrismo, quel moderatismo non si staccano mai dalle consuete sponde di appoggio. A costo di rivelarsi del tutto insussistenti.
Più una chimera che una realtà concreta.
Perché manca innanzitutto una chiara, limpida e non contraddittoria offerta politica che sappia intercettare quei voti.
Di LEU cosa volete dire? Operazione fallita, risultati del tutto irrilevanti, formazione confinata ai margini della politica, buona solo come strapuntino, fin che dura. Si rientra nel wagon-lit del PD?
Il M5S è in caduta libera e con ogni probabilità lo vedremo rappresentato in percentuali sempre al di sotto delle due cifre.
Un “Movimento” che non fa più nemmeno opinione, che si è rifugiato negli anfratti delle aule parlamentari per sopravvivere a sé stesso. Che non ha radicamento territoriale.
Che ha perso milioni di elettori che sono tornati nei loro ambiti naturali; molti, la più parte, a destra, pochi, pochissimi a sinistra, nel PD. Vale il discorso di prima sullo scarso appeal di quel partito.
Un’altra quota è tornata nell’astensione.
Ammesso e non concesso che quello che sopravviverà del M5S alla prossima scadenza elettorale si collochi tutto nel campo del CentroSinistra (quello novecentesco), con questo quadro di riferimento come si può pensare di provare a vincere le elezioni, di proporre un programma di Governo, una Coalizione credibile e “vincente”?
35%, forse 40%, se va di lusso.
E allora lo si vuole ripensare un progetto per la ricostruzione di un CentroSinistra (sempre quello che aspetta una ridefinizione) a vocazione maggioritaria nel Paese?
Tutti dentro un unico contenitore politico, schierato sui valori fondanti della storia novecentesca di questo fronte. Che è l’unica concessione che varrebbe la pena di consolidare.
In cui si possa confrontarsi all’interno di una formazione di ispirazione socialdemocratica, liberal riformista, progressista, ambientalista, sul modello della SPD ultima maniera. O del Partito Democratico USA.
Con progetti di crescita, di sviluppo del Paese. Lontani dal conservatorismo di sostanza e dal movimentismo di facciata.
Che metta al centro i lavoratori (che non sono solo gli operai, che ormai ce n’è rimasti pochi) in un rapporto dinamico con il mercato del lavoro, non ingessato e incatenato al posto di lavoro, ma che guardi all’occupazione e alla formazione del capitale umano. Alla sua qualificazione e quando serve alla sua riqualificazione.
Che metta la scuola, tutta la struttura dell’istruzione, sul piedestallo del rinnovamento dei metodi, della serietà del percorso degli studi, delle dinamiche della didattica – dalla materna all’università – che sappia fare della crescita dello studente il suo punto di riferimento, che sappia rivalutare il ruolo del personale docente, anche con dinamiche salariali adeguate al merito.
Che favorisca la sinergia tra la protezione ambientale e lo sviluppo, quello industriale su tutti, quello infrastrutturale, quello agricolo, quello urbano.
Un contenitore di idee, di progetti realizzabili, misurabili. In un confronto positivo, costruttivo, non ideologico.
Assumendo l’informazione e la partecipazione dei cittadini come prima regola democratica.
Ma utilizzando subito dopo quella regola aurea che determina la vera capacità della politica: saper prendere le decisioni, sapersi far carico della responsabilità.
A cui non può far difetto la regola principe: è la maggioranza che determina le scelte.
Esprimendosi e votando laicamente e non ideologicamente. Nel merito e sui contenuti. Pronti e liberi di cambiare assetto alla prossima discussione.
Senza chiese, conventicole o cerchi magici a cui dover fare riferimento.
Una sfida contro i mulini a vento? Dato che l’orientamento è quello di andare verso un sistema proporzionale spinto.
Un’utopia? Forse.
Anche se fosse l’unica, potrebbe essere almeno quella che aiuterebbe a stravolgere le regole della matematica: 1 e 1 possono fare 11.
Altrimenti fanno sempre e solo 2!