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30 Gennaio 2015Nella mia lunga esperienza di insegnante non sempre sono stata immune da accessi di presunzione, ancorché autocritica nell’operato di tutti i giorni. I tranelli dell’autoreferenzialità, purtroppo, sono sempre in agguato quando si fa un mestiere come il mio. Ho di frequente nutrito la convinzione, per esempio, di essere una docente aperta e innovativa. Ho attraversato vari stadi formativi, talvolta influenzata da importanti teorie didattiche, talaltra ispirata a processi empirici. D’altra parte, ho maturato anche la convinzione che non c’è professionalità senza l’equilibrio che solo l’incontro tra esperienza e conoscenza riesce a realizzare. Ed io, forse più per buon senso che per brillante intuizione pedagogica, ho cercato e cerco ogni giorno di salvaguardare tale equilibrio.
Ma, tornando ai miei accessi di presunzione, come dicevo, mi sono sempre ritenuta un’insegnante all’avanguardia. E quanto più mi giungevano conferme in tal senso dai miei interlocutori, beneficiari di cotanta attenzione al nuovo, tanto più mi convincevo di questa gloriosa verità e tanto più guardavo con sospetto quanti sembravano impermeabili all’innovazione.
Per fortuna, nella vita, come nel lavoro – mi si perdoni la banalità – si cambia. Siamo soggetti mutevoli, esposti a continua evoluzione. Il cambiamento dovrebbe essere un sano principio ispiratore per tutti e il panta rei una specie di mantra da recitare almeno una volta al giorno. Anch’io sono molto cambiata dal mio primo giorno ex cathedra e ammetto che, da qualche anno a questa parte, sto rivalutando aspetti dell’apprendimento che ho ritenuto per lungo tempo obsoleti, come, per esempio, la cura della grafia o l’esercizio della memoria. Particolare attenzione sto riservando a quest’ultimo aspetto. Al punto che, non di rado, chiedo ai miei allievi di studiare a memoria i brani poetici del programma di letteratura. Si tratta, in realtà, di stralci di opere, brevi e facili, e adatti a ragazzi di scuola media. Ciò tuttavia mi rende invisa ai malcapitati, facendomi guadagnare l’accusa di insegnante severa e – per un’inesorabile legge del contrappasso – tradizionalista!
Questi contrasti la dicono lunga sulle abitudini dei nostri ragazzi e sulle loro propensioni ad inoltrarsi nei sedimenti della conoscenza. Ma non dispero né punto il dito su Internet, sulla televisione e sulle infinite sollecitazioni multimediali che tempestano con flusso ininterrotto gli studenti. Sarebbe peraltro incoerente con le mie abitudini digitali delle quali non riesco più a fare a meno. Queste frizioni didattiche sono invece importanti. Sono incomprensioni che servono, incidenti che suscitano ciò che Popper definiva scoppi di meraviglia, veri e propri shock cognitivi che inducono i docenti a riflettere sul proprio operato e, ove possibile, a spiegare le ragioni di alcune scelte pedagogiche.
Per quanto mi riguarda, quando i miei studenti contestano le mie sadiche prescrizioni di versi da imparare a memoria, ricorro alla metafora del muscolo. La memoria, dico, è una sorta di muscolo. Cosa succede ai muscoli che non vengono allenati? Si atrofizzano. E quando si atrofizzano non sono più in grado di svolgere quelle prestazioni elementari che ci consentono di vivere una vita dignitosa e che, soprattutto, ci rendono autonomi. Parimenti, la memoria va allenata ed esercitata perché estende l’area del sapere, e ne rigenera di nuovo, rende solido il pensiero, più elastica la facoltà di scegliere e più duttili i processi cognitivi. Se mi si obietta poi che nella vita pratica non è utile ricordare le terzine della Divina Commedia che parlano di un vecchio per antico pelo che traghetta le anime dei dannati da una riva all’altra dell’Acheronte, rispondo che è vero, che nella vita pratica non serve a nulla saper di Caronte ma che un cervello abituato a ricordare le cose “inutili” sarà facilitato a ricordare quelle “utili”. Quanto alla bellezza e alla effettiva utilità (nel senso del nutrimento dell’anima) dei versi dell’Inferno, se si ha l’umiltà di accostarsi ad essi senza pregiudiziali, rassicuro i miei interlocutori che non tarderanno a percepirne l’essenza e che, forse, in futuro, me ne saranno grati!
Se poi voglio ulteriormente motivare i miei alunni, faccio presente che una memoria allenata è fonte di arricchimento del lessico. Un lessico ricco è un formidabile strumento di pensiero. Un pensiero in movimento favorisce importanti processi logici, utili in ogni area del sapere. La memoria, quindi, con un sillogismo chiaro e accessibile ai ragazzi, si configurerà come un potente dispositivo che dà una buona mano alla logica per esplorare le diverse aree della conoscenza.
L’importante, dunque, è non imporre con modalità apodittiche scelte didattiche e cambi di rotta. Le date, le nozioni, i toponimi, possono anche essere ricercati su Wikipedia. Una volta trovati, però, vanno trattenuti nei cassetti della memoria e di tanto in tanto rispolverati, insieme agli aneddoti, alle microstorie, e alle vite raccontate nei romanzi, ai verbi irregolari, alle capitali dell’Africa e ai nomi delle mogli di Enrico VIII appresi sui libri di testo. “Abbasso il nozionismo e viva la nozione”, ripeteva un mio vecchio professore del liceo, le cui convinzioni didattiche ho recuperato dopo molto tempo. Con questo non voglio dire che ripetere a memoria La vispa Teresa o i sette re di Roma offra la chiave per entrare nei territori più profondi della conoscenza: l’apprendimento mnemonico non è che un supporto a un approccio molto più complesso col sapere, ma ha un’importanza che non va trascurata e, come diceva il mio vecchio professore, ha un suo indiscutibile valore epistemologico.



