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10 Luglio 2023Una domanda che mi viene posta – e che io mi pongo – è “C’è posto nel PD per i liberali?” Allora, per cominciare, dovrei definire chi siano, per me, i liberali. E non è semplice. Richiamati, solo per cenno storico, i primi teorici del liberalismo filosofico e politico, da John Locke agli illuministi, da Immanuel Kant a John Stuart Mill e le correnti culturali ispirate a principi liberali, Contrattualismo e Illuminismo (in parte, anche l’Utilitarismo): come si vede non mancano al pensiero liberale “quarti di nobiltà”. Al pensiero liberale mi ha condotto, a 16/17 anni (un po’ più in là pascolavano i dinosauri) la lettura di Norberto Bobbio del quale voglio citare un passo. “Il pensiero liberale continua a rinascere… perché è fondato su una concezione filosofica da cui, piaccia o non piaccia, è nato il mondo moderno: la concezione individualistica della società e della storia.” Ebbene, sì; ho evocato – citando Bobbio – una delle parole-tabù della vecchia sinistra: individualismo. Dare a qualcuno dell’individualista equivaleva – e forse per alcuni equivale ancora – a dargli dell’egoista – se non, addirittura, dell’imperialista – esprimere una forte riprovazione morale, bollarlo, in sostanza, come un asociale, un “nemico del popolo”. Eppure, come dice ancora Bobbio, “... il punto di partenza di ogni progetto sociale di liberazione è l’individuo singolo, con le sue passioni (da indirizzare o da domare), coi suoi interessi (da regolare e coordinare), coi suoi bisogni (da soddisfare o reprimere).” La tesi di Bobbio – che condivido appieno – è che il contratto sociale , fondamento della società politica, nasce dalla necessità degli individui di associarsi sulla base di regole condivise per garantirsi alcuni diritti e alcune tutele (dalla sicurezza alla libertà personale, dalla giustizia all’assistenza, ecc.), che nessun singolo individuo potrebbe, da solo, garantirsi (se non a prezzo della violenza su altri). Il “soggetto collettivo” società si fonda su negoziati tra individui, che conducono ad accordi, definiti, poi, in norme con validità nei confronti di tutti, da istituzioni politiche . La società, cioè, non preesiste all’individuo, ma consegue ad un atto di volizione di un insieme di individui e, poi, per libera determinazione degli stessi, assume poteri anche sui singoli individui. Uno dei limiti della sinistra è stato, per l’appunto, non aver voluto considerare il valore dell’individuo anche a prescindere dalla sua collocazione in una collettività; da qui molti equivoci, molte cantonate e – magari non volute – oggettive discriminazioni. L’idea che la societas civilis sia fondata sulla partecipazione può essere una nobile aspirazione, ma non è in essa che sono tutelate le libertà; tant’è vero che sono esistite, ed esistono, società dove la partecipazione è fortissima, ma i diritti di libertà sono scarsamente garantiti; in esse la foresta conta più dell’albero e, per preservare la foresta, si giustifica il sacrificio di un singolo albero. Il fondamento del Liberalismo, invece, è l’individuo, con i suoi diritti connaturati, riconosciuti e tutelati da una Legge positiva. Una volta stabilizzato tale fondamento, il Liberalismo non ha obbiezioni di fondo nei confronti di diverse forme di organizzazione sociale ed è compatibile sia con quelle che esaltano l’individualismo, sia con quelle che sottolineano la socialità. “Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo, cioè quello che possiede istituzioni di questo genere e tutti gli altri; vale a dire fra democrazia e tirannide.”1 Per questo non nego la qualifica di liberale a filosofi e scienziati della politica molto diversi tra loro; hanno pieno diritto alla qualifica di liberale Popper e Berlin, Rawls e Sen, Nozick e Dworkin; e, in fondo, anche alcuni comunitaristi “soft” come Sandel e Walzer. Il Liberalismo, in sostanza, delimita, fissa i confini entro i quali ogni individuo può esercitare le “sue” libertà; è una “cultura del limite”, a partire dal noto assioma “La mia libertà finisce dove comincia la libertà degli altri”. Ne dà una efficace definizione Anna Elisabetta Galeotti: “ … il liberalismo politico (…) e la democrazia come forma di governo ad esso appropriata, non sono eticamente vuoti, poggiando invece sul principio morale dell’Eguale Rispetto.”2 Il liberale rispetta tutti, considerandoli suoi pari in quanto persone; è un principio etico, che precede, almeno sul piano teoretico, l’attribuzione di Diritti, che è un principio normativo. Il connotato essenziale della democrazia – quella occidentale, ché all’interno di altre culture è dubitabile poter riconoscere i caratteri fondativi della democrazia – è dato dai “diritti di libertà”, ben più che dal principio pratico del voto; in tal senso si può dire che nel termine “democrazia liberale” l’aggettivo conti più del sostantivo. La dialettica democratica è finalizzata a creare le condizioni ottimali per la convivenza fra diversi, e, di conseguenza, il suo primo obbiettivo è quello di far sì che i cittadini accettino di rispettarsi fra sostenitori di diverse e concorrenti opinioni. Rawls scrive “ … il liberalismo politico non parla di verità, ma solo di ragionevolezza della propria concezione politica …”3 Sono – per il pochissimo che può contare – totalmente d’accordo: la verità è fuori dalla portata umana, la ragionevolezza è ciò che distingue una società da una mandria. Rawls postula una nuova e moderna sintesi fra libertà e giustizia, intendendo la giustizia come equità, diretta a tutelare e riconoscere parità di diritti e pari opportunità di esercitarli anche agli individui svantaggiati dalla nascita, individuale, territoriale, sociale. E non si tratta di adeguare, come invece temono alcuni liberali integralisti (e questo sì è un ossimoro), il liberalismo al socialismo; è piuttosto il contrario, sono i valori del socialismo (la solidarietà sociale, l’uguaglianza come antidoto all’emarginazione, l’equa distribuzione della ricchezza) a “contaminarsi” con la concezione liberaldemocratica dei diritti individuali. La cultura liberale non conduce a opzioni politiche univoche e necessitate; è, questo, l’ elemento che consente una differenziazione fra le due correnti del liberalismo contemporaneo, quelle che potremmo schematicamente definire come “destra” e “sinistra”. Un liberale italiano, che ha avuto non irrilevanti responsabilità politiche, Valerio Zanone, osservava: “Salvo il nucleo essenziale intorno ai valori di individualità, il liberalismo ha molte radici e molti rami. La biblioteca liberale contiene molti libri ma nessun testo sacro, il linguaggio liberale esclude le parole d’ordine. Insomma, la ricostruzione della mappa intellettuale del liberalismo si può formare seguendo tracciati diversi, che conducono a differenti opzioni politiche.”4 Se, però, il fine del liberalismo è l’individuo capace di autodeterminarsi, cioè di essere davvero libero, non si può rifiutare di contrastare le diseguaglianze che originano dalla casualità. Mi pare significativa una riflessione di uno al quale neppure i neo-con possono rifiutare la qualifica di liberale, Popper. “Ciò significa un’enorme estensione del campo delle attività politiche. Noi possiamo chiederci che cosa vogliamo conseguire e come possiamo conseguirlo. Possiamo, per esempio, attuare un razionale programma politico per la protezione degli economicamente deboli. Possiamo fare leggi atte a limitare lo sfruttamento. Possiamo limitare la giornata lavorativa, ma possiamo fare anche molto di più. Per legge, possiamo assicurare i lavoratori ( o meglio ancora, tutti i cittadini) contro l’invalidità, la disoccupazione, la vecchiaia. In questo modo possiamo rendere impossibili certe forme di sfruttamento come quelle fondate sulla debole posizione economica di un lavoratore che deve accettare qualunque cosa per non morire di fame…”5 Ecco perché il liberalismo – almeno come lo intendo io – può essere “di sinistra” senza smettere di essere liberale; può, cioè, accogliere tutta la ricchezza, e l’impegno, della dimensione sociale, senza mai abbandonare la centralità dell’individuo. Nel Partito Democratico vi è posto, in condizioni di pari dignità, per chi si riconosce in tale pensiero? Nel PD delle origini, quello del Veltroni del Lingotto, sì, in quello di Ellly Schlein … mah … Non ho votato per Elly, ma, rispettando (anche se non condividendo) la previsione statutaria, le cosiddette primarie aperte a tutti, la considero del tutto legittimata ad essere la segretaria. Se guardo, però, alle posizioni assunte – più spesso NON assunte dal PD – su diversi temi, mi chiedo quanto vi sia, in esse, di liberale. Sul piano dei diritti civili mi sembra che ci siamo abbastanza; resta una certa resistenza dei cattolici, che non si convincono che nessuno voglia “negoziare” i valori, ma solo le forme normative. Sulla politica internazionale, pur con qualche residuo di antiamericanismo, mi sembra che si stia tenendo una linea equilibrata (ho anch’io parecchie riserve sull’ingresso dell’Ukraina nella NATO, ma senza dimenticare che nella NATO c’è la Turchia di Erdogan). E al mio liberalismo non dispiace in linea di principio, l’idea del salario minimo, pur se qualche perplessità mi resta sullo strumento – un legge – da usare per introdurlo; mi piace meno un po’ di corporativismo che induce a una sostanziale subalternità ai sindacati (che il salario minimo non lo amano). Quello che meno mi piace è una visibile accondiscendenza alle idee (idee?) del Movimento 5 Stelle. Non parlo solo di Grillo, del suo incauto evocare il “passamontagna” (i più vecchi di noi ricordano l’emozione che provava, nell’indossarlo, Toni Negri), della sua farneticante proposta di negare il voto agli ottantenni (e non perché io ne abbia 83) per darlo ai sedicenni (con la cronaca nera che ci induce a non dar loro una incondizionata fiducia). Parlo di Conte, delle sue vuote e ambigue affermazioni, che non mettono insieme un progetto di società realmente perseguibile. E, del resto, è tipico dei movimenti lanciare proposte scoordinate (talvolta, raramente, sensate) senza una verifica sulla fattibilità. Ho sempre diffidato dei movimenti: ricordate i Girotondi, il Popolo Viola … quanto hanno prodotto, quali risultati dopo momenti di effimero successo? Quello che dei movimenti non sopporto è la loro pretesa di rappresentare la maggioranza dei cittadini, quando sono, al meglio, delle “minoranze intense” come i “ceti medi riflessivi” di Paul Ginsborg. Con tutti i loro limiti, meglio i partiti, anche quelli, come il PD, che pur si trascinano dietro nostalgie del secolo scorso. Certo, sopravvivono, nel PD, le diffidenze delle maggiori culture fondative, marxiste e cattoliche, verso il Liberalismo. Mi ricordo un “compagno” che volle farmi i complimenti per un mio intervento ad una riunione dei DS. Mi disse: “Sei bravo; di destra, ma bravo!” Gli chiesi: “Perché di destra?” Imbarazzato mi rispose: “Volevo dire socialdemocratico.” Gli replicai: “Mai stato.” “ Ma – mi chiese un po’ interdetto – non sei marxista?” Al che la mia risposta fu, ugualmente : “No, mai stato.” Vent’anni fa. Ecco temo che ci siano ancora molti, nel PD, che ragionano così. E, se è così, si giustifica la mia perplessità. Poi, naturalmente, essendo un realista, mi chiedo se esista un’altra “casa” per un liberal-azionista come me; e non ne vedo. Del resto il Partito d’Azione (che di “belle teste” ne aveva parecchie) non ebbe mai fortune elettorali e Ugo La Malfa aveva molti estimatori, ma pochi voti. Dovendo cercare di opporsi alle peggiori destre, si giustificano alleanze anche con soggetti poco affidabili: per questo resto ancora nel PD, con scarso entusiasmo. Sperando che ci sia ancora posto e rispetto per un vecchio signore di cultura liberale. Se fossi giovane potrei imbarcarmi in qualche altra avventura politica (l’offerta non è allettante). E, poi, alla mia età, una tessera non è mica indispensabile.
1 Karl Popper, “ La società aperta e i suoi nemici”, tr.it. Roma, 19942 Anna Elisabetta Galeotti, “La politica del rispetto”, Roma-Bari, 2010 3 John Rawls, “Liberalismo politico”, tr.it Milano, 1999 4 Valerio Zanone, “Il rinnovamento del pensiero liberale”, Intervento a un convegno dell’ Istituto Gramsci , Roma, ottobre 1998 5 Karl Popper, “ La società aperta e i suoi nemici”