I conti in tasca all’ACTV
1 Luglio 2020Inceneritore a Porto Marghera
7 Luglio 2020di MARINA DRAGOTTO
Sono nata a Milano in pieno baby boom e sono cresciuta seguendo la mia numerosa famiglia in diverse città italiane nelle quali mio padre traslocava noi e il suo entusiasmo per nuove avventure. Venire a Venezia a studiare è stata una scelta non molto meditata, ai miei tempi ci si poteva iscrivere all’università all’ultimo momento e senza troppo fasciarsi la testa. Lussi dimenticati di una generazione che ancora veleggiava sulle onde dell’ottimismo e della convinzione che tutto fosse possibile e niente irreparabile. Venezia mi ha accolta con semplicità insieme a schiere di studenti provenienti da tutta Italia, entusiasti di essere qui, di condividere una casa magari un po’ fatiscente, ma sempre affascinante, di frequentare un’Università ricca di grandi nomi della cultura (da Tafuri a Mario Isnenghi da Aldo Rossi a Gianantonio Paladini).
Per anni la Terraferma è stato un mondo altro, completamente sconosciuto. L’uscita dalla Laguna era sempre su un treno e Santa Lucia era come una porta spazio-temporale che mi risucchiava dritta in un’altra città, altri paesaggi e a volte altre lingue. La Laguna riempiva tutti i miei spazi e rispondeva a tutte le mie domande, anche a quelle che non mi facevo, con la sua vita variegata, fatta di studio e di biblioteche piene di libri e di persone da conoscere, ma anche di occupazioni e battaglie politiche, fatta di inviti a scoprire mondi culturali sconosciuti, la musica e l’arte contemporanea gratuite, le conferenze dei personaggi più disparati, le discussioni a ruota libera, fatta di spazi infi niti, con i campi popolati da ogni genere di persone, di case, aule e bar, di spiagge a portata di vaporetto, viaggi in barca, isole e aree dismesse abbandonate (detto per inciso, oggi in gran parte recuperate a nuova vita, ma vi ricordate la Giudecca di fi ne anni 90 o Santa Marta o l’Arsenale?).
Venezia mi dava anche da lavorare consentendomi di mantenermi agli studi tra i primi passi nella ricerca universitaria, il servizio ai tavoli di alcuni ristoranti e persino un timido passo da rappresentante nel mondo del commercio. Poi, per quanto l’abbia fatta lunga, è arrivata la laurea e l’ingresso in un mondo davvero adulto, ma da Venezia non volevo staccarmi. Il caso e la fortuna, e forse una certa abitudine alla navigazione a vista, mi hanno portata abbastanza rapidamente a occuparmi professionalmente di aree industriali dismesse, di rigenerazione urbana e di pianificazione strategica.
Con questi ingredienti il salto nella terraferma Sotto lo stesso cielo veneziano si è trasformato in una vera immersione. Porto Marghera, prima di tutto, con i suoi cento aspetti fatti di storie imprenditoriali, ambientali, umane, politiche e con la sua influenza su tutta la città, la provincia e la regione. Mestre con la sua vita sociale e culturale e le sue aspirazioni ad affermarsi come centro direzionale. La città diffusa che continuava a crescere verso Padova e Treviso, con le sue promesse di diventare un modello alternativo di vita per tutti e le sue contraddizioni sempre più evidenti. Tre anni di lavoro al COSES per la redazione del Piano Strategico di Venezia sono stati un’occasione straordinaria per scoprire la vera dimensione di Venezia. Una dimensione fisica, sociale, economica, ambientale e culturale che travalica ogni confine amministrativo, geografi co, urbanistico.
Da sempre la laguna e i suoi equilibri coinvolgono un territorio di fiumi e risorgive che fissa la sua conterminazione molto oltre il bordo dell’acqua e il suo bacino di riferimento alle pendici delle montagne a nord e nel cuore della pianura a sud, in una rete di vasi comunicanti che legano, anche culturalmente, la gestione ambientale di tutta l’area. Da un punto di vista urbanistico e amministrativo l’espansione della città residenziale e produttiva avviata nell’immediato dopoguerra ha via via cancellato la separazione tra un confine comunale e l’altro e oggi, al netto delle disquisizioni tecniche tra esperti, è impossibile stabilire dove porre un confine, una rottura nella continuità urbanistica che unisce Venezia, Padova e Treviso e che determina le scelte abitative, lavorative o di uso del tempo libero dei loro abitanti. Una linea di separazione impossibile da segnare anche nelle tematiche trattate da quel Piano Strategico che, occupandosi di sviluppo sociale, economico, culturale e ambientale di questo territorio, si è arricchito di assonanze e legami che, continuamente, intrecciano le sue storie passate e presenti. A dispetto delle apparenze e delle innegabili discontinuità presenti qui più che in ogni altra città italiana (l’ultima città murata, la chiamava il Soprintendente Monti riferendosi all’acqua che circonda la città storica), infatti, nessuna parte, per quanto caratterizzata, poteva dichiararsi autonoma e indipendente dalle altre. Anzi, nemmeno i confini provinciali sembravano essere sufficienti e si cominciava a parlare di PATREVE, come di una città unica che tiene insieme Padova, Treviso e Venezia.
Erano i primi anni 2000 e ci accingevamo a votare per la quarta volta il referendum di separazione tra Venezia e Mestre, fi nito come gli altri con un niente di fatto, e ci eravamo appena lasciati alle spalle la separazione con il Cavallino (1999), i cui strascichi e conti non sono ancora conclusi. Da allora al lavoro di analisi e studio del territorio si è aggiunto l’impegno politico di base che mi ha portata ad aprire una nuova finestra sulla città e a intrecciare nuove storie e domande dei mille angoli di questo territorio, di questa città che in ogni sua parte assomiglia più a un grande paesone, ma che tutta insieme dialoga con le grandi città globali. Ancora oggi, quando ritorno in alcune delle città della mia infanzia dove la mia famiglia ha seminato qualcuno dei miei fratelli e prendo in mano un giornale locale penso alla grande differenza che c’è con Venezia.
Lì puoi distrarti per qualche anno, ma quando ritorni e leggi le storie locali ritrovi gli stessi attori, le stesse dinamiche, le stesse storie lente della bella provincia italiana. Qui se ti distrai un attimo rischi di perderti nel dedalo di attori economici, culturali e sociali che da ogni angolo della regione, della nazione e del mondo vogliono dire la loro su come governare i grandi e piccoli temi della città (porto, aeroporto, Porto Marghera, turismo, salvaguardia). Grande è la confusione sotto il cielo di questa città, grande il divertimento di vedere dove porterà il prossimo giro di giostra.
Questo scritto di Marina Dragotto, che abbiamo pubblicato per concessione dell’editore, è un capitolo tratto dal libro “Sotto lo stesso cielo” curato e introdotto da Carlo Rubini e Federico Moro, pubblicato per Toletta nel 2018, in cui si raccoglievano numerose e qualificate testimonianze di vita sulla Venezia città unitaria tra acqua e terraferma. Anche il titolo, significativo, “Complessità mon amour” è di suo conio. Il vuoto che ci ha lasciato Marina non è soltanto quello di una persona generosa con un appeal caratteriale eccezionale. Lei ha infatti rappresentato una generazione di veneziani d’adozione che si è fermata volontariamente in città dopo gli studi. E spesso questi, non casualmente, sono stati per lei e per tanti come lei studi urbanistici. Più di una generazione a ben vedere, persone che a Venezia hanno dato tanto e in qualità. E per la città e le sue trasformazioni anche Marina ha dato molto, calandosi nei problemi e fornendo, caso rarissimo, una visione positiva e ottimistica del futuro, che cominciava a prendere corpo dalla sua Giudecca. Lei in questo capitolo scopre a poco a poco la dualità della città, dopo l’impatto iniziale che effettivamente a chi viene da fuori cela ed esclude la parte di terra. Ne esce la dimensione della complessità, quella dimensione troppe volte ignorata per soluzioni all’opposto semplicistiche. E che lei invece finisce per amare. Il capitolo racconta appunto questa consapevolezza in progress, partendo dalla sua sincera condizione di ‘foresta’. Un racconto che è una testimonianza dei suoi terreni d’intervento e che dimostra tra l’altro una grande onestà intellettuale. Ci auguriamo che questa sua testimonianza sia un modo per non dimenticarla.