“Sotto il segno del MOSE”, libro che provoca: considerazioni e qualche nota
7 Giugno 2020Strategia o tattica?
10 Giugno 2020Dobbiamo prendere per buono l’invito del segretario del PD Zingaretti alla “Concordia Nazionale” per questa fase di grande ricostruzione? Ci sono analogie tra questa nuova formula e il “compromesso storico” proposto e in parte attuato da Berlinguer quasi mezzo secolo fa?
Che cosa guidava allora Berlinguer? Quella formula sostanzialmente prevedeva una sinergia politica tra i due grandi partiti popolari, PCI e DC con i suoi satelliti, per far fronte alla prima grande crisi economica dopo l’età dell’oro dei ‘50 e dei ‘60 e soprattutto per far fronte alla plumbea azione terroristica. C’era l’esigenza di una forte risposta istituzionale congiunta, non necessariamente con un ingresso diretto del PCI nella sfera di governo, anche se poi si era perfino giunti ad un passo da questo ingresso, un processo bloccato dall’uccisione di Aldo Moro.
Mutatis mutandis c’è una consapevolezza di questo tipo anche nella proposta di Zingaretti, in un contesto di evidente emergenza come quella che stiamo vivendo?
Zingaretti non è Berlinguer, qualcuno dirà che non ne ha la levatura. Tuttavia si ha l’impressione che quella di Zingaretti sia una “voce dal sen fuggita” da cui è difficile arretrare, perché, a seguire, diversi autorevoli esponenti del suo partito l’hanno confermata, chiarendo in anticipo agli ipotetici detrattori che non si tratta di proporre ‘inciuci’, ma qualcosa di molto più ampio e strategico. Per quanto non sia ben chiaro se la ‘concordia’ vada estesa e offerta, oltre che agli attori economici e sociali, citati esplicitamente, anche a tutte le forze politiche dell’arco parlamentare. E se sia un modello applicabile anche a scala locale, insomma una strategia complessiva per cambiare una prassi politica che sta riducendo (e queste son parole di Zingaretti) “il parlamento a un ring”. E aggiungo anche i consigli comunali ridotti a un ring e, peggio di un ring è la battaglia sui giornali a colpi di dichiarazioni, laddove i consigli comunali sono ‘svuotati’.
Se così fosse, se fosse una strategia di grande respiro, verrebbe la voglia allora di prenderli sul serio e cominciare a sostenere quella che da parte di alcuni, io tra questi, sembra veramente una strada obbligata se si vogliono risolvere i grandi problemi che abbiamo davanti con la forza del consenso. In Italia ed anche nelle partite cittadine che ci riguardano da vicino, perché sarebbe strabica una sola strategia nazionale.
Prima di tutto c’è da definire il concetto di emergenza visto che ne abbiamo davanti un esempio tangibile come la ricostruzione economica post Corona Virus. La maggior parte delle opinioni considera l’emergenza un momento eccezionale dovuto come si dice a causa di forza maggiore di grande portata. Solo in una siffatta condizione si è portati ad accettare l’idea che ci voglia un consenso e una partecipazione alle scelte con un’ampia rappresentanza di forze politiche e sociali. Seppure se s’è visto che, almeno sino ad ora, nemmeno in questo caso ci si riesce, nella condizione emergenziale si accetta quantomeno il proposito ora riformulato da Zingaretti e dal PD.
Ma ci si domanda se anche tutto il resto, apparentemente indipendente da questa condizione sanitaria e dalla necessità di ricostruire economicamente e socialmente il paese, non abbia ugualmente il carattere dell’emergenza.
Non è emergenza la questione ambientale su scala planetaria? E venendo alla scala locale, alla città di Venezia, per capirci meglio, non è emergenza, tanto quanto, il tema della residenza o il tema del turismo riferito ai livelli insostenibili di solo qualche mese fa? Non è emergenza la riconversione di Porto Marghera? Si potrebbe continuare.
La politica ha continuamente di fronte ciò che ‘emerge’ con urgenza, dovrebbe essere ‘emergenziale’ di natura e comportare sempre risposte ‘emergenziali’ supportate da largo consenso.
C’è un pregiudizio nella politica, comprensibile perché indotto dall’equivoco prodotto dall’esistenza stessa dei partiti, concepiti come ‘fazione’ di parte e quindi di conseguenza non vocati al ‘bene comune’. Il sistema elettorale a doppio turno per le elezioni comunali esaspera la ‘faziosità’ partitica. C’è una lunga tradizione di pensiero che vuole, ‘esige’, il conflitto nella politica considerato il ‘sale’ della democrazia, dove tutti si devono esprimere e gareggiare, vinca il migliore. Qualcosa da risolvere solo con il voto e con l’affermarsi della maggioranza.
Certo questa è una regola della democrazia. Che tuttavia ha mostrato tutti i suoi limiti, in primis quello di avere scarso o insufficiente supporto di consenso. Come se ciò che attiene alle scelte della politica non fosse poi un fatto oggettivo, ma variasse a seconda di chi in quel momento ottiene la maggioranza ‘tecnica’. E non è così. Perché le emergenze non hanno più soluzioni di cui se ne sceglie una a colpi di maggioranza. Non è così che si ottiene coesione sociale. Chi poi detiene, provvisoriamente, la maggioranza lavora se va bene con la metà della popolazione contro. E poiché spesso accade che ci siano forti astensioni alle elezioni amministrative ma anche alle politiche, solitamente negli ultimi tempi è capitato che chi governa ha solo un terzo della popolazione che l’ha effettivamente votato e di conseguenza due terzi della popolazione contro. La condizione dell’amministrazione comunale di Venezia uscente è appunto questa. Uno strapotere che non ha coinvolto nelle scelte se non una fascia ristretta. Questo però non significa che, se per caso vincesse una compagine alternativa a questa amministrazione uscente, tale nuova compagine si debba comportare simmetricamente nello stesso modo, anche se temo che gli eventuali vincenti alternativi all’amministrazione uscente si apprestino a fare proprio così. Ad entrambi gli schieramenti va proposta adesso e non dopo una soluzione diversa in nome della ‘coesione sociale’. Un’estensione alla città della formula zingarettiana.
“The winner takes it all” diceva amaramente il testo di una canzone del complesso svedese degli Abba negli anni ’70. “Il vincitore prende tutto” ed è la logica sottesa al sistema elettorale delle amministrative. Dove è assai più difficile applicare la ‘concordia nazionale’, già difficile di per sé.
Chi ha senso di responsabilità non può però più accettare questa logica del ‘prendo tutto e faccio tutto da solo’, logica che inevitabilmente genera di sua natura volta a volta ribellione sociale. Il consenso non può essere imposto da astratte regole di maggioranza.
Ci pensavo l’altro giorno nel corso di un collegamento via computer per una riunione di un tavolo di lavoro promosso da Italia Viva veneziana, partecipando come invitato esterno (visto che non sono di Italia Viva). Alla riunione era stato invitato anche l’architetto D’Agostino che molti ricorderanno come assessore delle giunte Cacciari. Già di per sé un segnale positivo aver invitato, oltre a me, una persona qualificata esterna e non esattamente vicina a Italia Viva, e averla invitata solo per le sue competenze in materia. D’Agostino esponeva un progetto ambizioso sia sulla residenza che sui lavori a Venezia, articolando un’accattivante quanto possibile idea di green economy. Convincente. Il mio pensiero che non ho esposto, riservando di farlo in seguito, era però rivolto al consenso e alle forze politiche e sociali con cui portare avanti un disegno del genere, proprio perché ambizioso. Mi chiedevo: se le forze politiche portatrici di questo programma suggerito da D’Agostino perdono le elezioni e non vanno al governo, cosa che è nel novero delle possibilità, tutto il progetto va buttato in discarica? Energie, pensieri competenze al macero? E, se al contrario questo progetto si inserisce in una compagine vincente che andrà al governo, lo si porterà avanti con l’estraneità e forse l’ostilità strumentale di metà, se va bene, della cittadinanza rappresentata dalla parte politica perdente?
Il punto sta qui. Le sfide che si hanno davanti esigono consensi ampi. C’è una fase di campagna elettorale cittadina. L’auspicio è che non la si impieghi a parlar male dell’avversario, ma che si sperimentino intese programmatiche che vadano oltre gli schieramenti contrapposti. Con l’impegno dichiarato in questa fase preelettorale di portarli avanti congiuntamente anche nel mandato che si chiuderà nel 2025.
La ‘concordia nazionale’ potrebbe diventare una formula ad applicazioni variabili dove per ‘nazione’ si intende in senso lato la comunità di riferimento volta a volta a qualsiasi scala.
Una postilla finale sull’ispirazione di un progetto siffatto.
Chi prospetta larghe intese o larghissime come nel caso che ho proposto o è inclassificabile secondo le tradizionali categorie sinistra destra o lo si direbbe di ispirazione centrista. Accettiamo allora per un momento anche il vecchio schema e che questa idea della “concordia nazionale” abbia un’ispirazione di centro, anche se a proporla, come nel caso di Zingaretti e del PD, è solo una parte (che peraltro non si colloca al centro, curioso no?). E chi si sente politicamente al centro deve cogliere al balzo la palla o l’assist che dir si voglia. Cosa che mi pare per ora quest’area non stia facendo.
Ci sono infatti due modi di interpretare il centro di cui uno è quello tradizionale e molto debole che conosciamo: le forze di centro per quanto sia consentito dai sistemi elettorali, si aggregano volta volta, da marginali e restando tali, a maggioranze a loro estranee (o restando in minoranze altrettanto estranee); e in generale nelle amministrative lo fanno prima, mentre nei sistemi proporzionali possono anche farlo a elezioni concluse. Un altro modo ben diverso e innovativo di interpretare il centro è invece quello di svolgere un’egemonia di centro, estendendolo alla stragrande maggioranza delle forze politiche da una parte e dall’altra, costringendole con l’idea di “concordia nazionale” entro il proprio perimetro molto allargato. Se si vuole una rinnovata idea di liberal socialismo o di liberal democrazia potrebbe essere questa. Del resto se c’è una cosa che l’emergenza Corona Virus ci ha insegnato è che la libertà dei diritti, ma anche la libertà economica e d’impresa vanno ponderati da immissioni di intervento e di gestione pubblica, da regole in campo economico e sociale, per cercare di combattere la crescenti disuguaglianze e allargare la sfera dei diritti reali.
L’equilibrio responsabile tra le due prassi, storicamente alternative e assurdamente sempre giudicate incompatibili, possono diventare la cifra vincente di un centro egemone.