
Paradosso veneziano: la “città estesa” suddivisa tra Terraferma e Centro Storico senza una metropolitana
15 Ottobre 2025All’indomani della Biennale Cinema, e dopo aver letto le recensioni di Lorenzo Colovini nella nostra rivista, ho pensato che per la prima volta in sei anni potevo dedicarmi alla recensione di un libro di cinema, una biografia critica con ampia filmografia di uno dei più longevi protagonisti del cinema dei nostri tempi. “Il cinema di Clint Eastwood”, di Alberto Castellano, mi ha permesso una serie di riflessioni dettagliate e una panoramica della sua sterminata produzione (70 anni di attività, 60 film come attore, più di 40 come regista), rendendo così omaggio intimamente alla mia passione di cinefila rivolta soprattutto alla sua produzione come regista degli ultimi decenni.
Quello che però non potevo prevedere è stata la morte di Robert Redford , avvenuta lo scorso 16 settembre , proprio mentre mettevo in cantiere questo progetto di scrittura. E con lui si chiudeva in qualche modo il cerchio, assieme a Clint, dell’ammirazione e della attenzione di spettatrice appassionata con cui da sempre avevo seguito la carriera di entrambi. Due personalità diversissime, due modi di intendere il cinema. Affrontato sul binario della grande professionalità ma anche dell’impegno civile quella di Redford, sul fronte più ampio del cinema come rappresentazione di un segno , una presenza nel mondo in diverse fasi della vita e della carriera , dalla prima apparizione come sconosciuto attore ne “La vendetta del mostro” del 1955, fino all’ultima fatica come regista nel “Giurato numero 2” del 2024 quella di Clint.
Clint resta nell’immaginario di chi non è più giovanissimo principalmente attraverso le due maschere che lo hanno accompagnato per anni : quella del pistolero silenzioso dei film di Sergio Leone, e quella dell’Ispettore Callaghan, Dirty Harry come recitava la versione originale del personaggio. Note interessanti quelle del curatore della biografia a questo proposito: Castellani infatti sottolinea da un lato quanto erroneo sia stato l’accostamento a volte fatto con la maschera di John Wayne, dall’altro mette in luce al contrario quanto la sua apparente legnosità richiami ad una scelta precisa : “Gli attori più grandi della storia del cinema sono stati quelli che sapevano esprimere moltissimo tenendo qualcosa “in riserva”, così da suscitare nello spettatore la curiosità di scoprire il contenuto di questa riserva” …Il metodo Eastwood , quindi, si basa sull’economia recitativa, lavora sulla sottrazione piuttosto che sull’accumulo : i gesti, le parole, le espressioni sono ridotti al minimo, la tonalità vocale e la comunicazione verbale misurate”.E’ quella che verrà definita da Francesco Ballo e Riccardo Bianchi “la recitazione underplaying”.
Sergio Leone e Don Siegel appaiono i due parametri registici da cui ha avuto inizio la costruzione del suo personaggio cinematografico, il pistolero leoniano e l’ispettore Callaghan siegeliano sono due eroi “Solitari, freddi, silenziosi, che parlano poco ma osservano, pensano e agiscono molto, azzerando quasi la funzione della parola; si può dire anzi che la velocità di pensiero e la rapidità d’azione sono direttamente proporzionali alla rarefazione vocale e all’immobilismo verbale”.
Ma nel frattempo il suo ruolo di regista si sta affinando sempre di più, rivelando nel corso negli anni una forma di sensibilità cinematografica sviluppata con pari straordinari risultati sia davanti che dietro la macchina da presa. Castellani, in un impeto forse di eccessivo entusiasmo, lo affianca in questo ad una serie di altri giganti come Chaplin , Buster Keaton, Vittorio De Sica, Woody Allen, ma comunque resta il fatto che queste due personalità “…si sdoppiano e si cementano in equilibrio, armonia, osmosi, per cui è una scommessa stabilire se è l’attore che preferisce dirigersi o il regista che pretende sia lui stesso a interpretare il suo film”.
Ed infine, prima di toccare alcuni esempi della sua attività multiforme, una nota sulla sua immagine di produttore. Il suo viene presentato da Castellano come un “modello produttivo alternativo alle megaproduzioni tecnologiche hollywoodiane”. La Malpaso Company, da lui fondata, gli ha permesso di perfezionare le sue strategie artistico-commerciali, e di sottrarsi ai rigidi ingranaggi dello studio system. Controllando con meticolosità tutti i minimi dettagli della lavorazione, Clint ha girato i suoi film in tempi brevissimi , rispettando rigorosamente il budget.
Una nota adesso sulla sua passione per il Jazz (lui stesso ha suonato tutta la vita) e come sia riuscito a costruire dei film ad esso dedicati. La sua passione per tale genere fa sì che diventi un reale intenditore del campo, al punto che l’autore delle musiche di quasi tutti i suoi film sia il sassofonista jazz Lennie Niehaus, influenzato da Parker e Lee Konitz.
E quando nel 1988 produce e dirige “Bird” , biografia di Charlie Parker, esso segna uno spartiacque nella sua carriera. Dimostra anticonformismo e coraggio, e soprattutto sorpassa idealmente la fama che il suo personaggio aveva avuto sino ad allora nel cuore del suo infinito pubblico.
Un altro mito rivoluzionario sarà quello di Nelson Mandela, a cui dedicherà un film “Invictus” come regista , con un grandissimo Morgan Freeman come protagonista.
Non avendo spazio sufficiente per citare la lista infinita dei suoi film, vorrei ora sottolineare il cambio di prospettiva che assumono i suoi ultimi film come regista e/o protagonista.
Una parola sulla sua visione etica della senilità che si sviluppa gradatamente con film come Mystic River , Million Dollar Baby , Gran Torino, The mule. In ognuno di questi film appare una nuova forma di consapevolezza registica ed attoriale. Sembra fare i conti serenamente ma con grinta con il passaggio del tempo, con una nuova saggezza ma anche col persistere di un burbero atteggiamento di fastidio, insofferenza verso una società che non riesce a capire. A proposito di “Gran Torino” Castellano usa una sintesi che riporto “…Con questo melodramma/romanzo di formazione intergenerazionale-interrazziale ad alto tasso umanistico, Eastwood affronta temi come la fede, l’espiazione, il perdono, la scelta etica…e guarda ai problemi razziali e alla convivenza multietnica da un’angolazione antimanichea…” Appare per la penultima volta come protagonista, ormai novantenne in “The mule” , nel 2018, Il suo americanismo ad oltranza, che era già apparso fin dall’inizio della sua carriera, ed aveva dato prova di sé ampiamente in “Gran Torino”, qui si affianca ad una sorridente ironia su un se’ stesso assai anziano , che sulla propria età gioca per un lavoro sporco che lo porterà alla fine in galera, ritornando a fare entro quelle mura il giardiniere.
Clint insomma , come regista, protagonista e spesso produttore dei suoi film fino ad oltre i novant’anni, getta le carte anagrafiche, ci consegna sempre la sua giovinezza del cuore e dell’ingegno cinematografico, arriva addirittura, con “I ponti di Madison County”, del 1995, in cui è protagonista, regista, produttore, ad affrontare per una sola volta nella sua carriera il tema del romance, ma a suo modo anche questa volta, dando spazio magnifico a Meryl Streep, e ritagliandosi la figura di un fotografo non più giovane che trova la sua giovinezza nella libertà. Nessuno , certo non io, potrà mai dimenticare il vialetto di ghiaia da cui il suo pickup appare all’inizio del film a scompare poco prima della fine.
Ma Clint resterà sempre nelle nostre vite. Sempre.
ALBERTO CASTELLANO IL CINEMA DI CLINT EASTWOOD
GREMESE EDITORE 2025