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19 Agosto 2021
COSTUME E MALCOSTUME Quando la forma è sostanza
20 Agosto 2021Ci sono autori di cui si è molto sentito parlare, per un loro esordio fulminante qualche anno prima, ma che per qualche motivo non si è acchiappati in quel momento.
Parlo di Paolo Cognetti che, con il suo “Le otto montagne” aveva vinto il Premio Strega nel 2017, ma che chi scrive, non ancora nel suo ruolo di recensore per Luminosi Giorni, aveva trascurato preferendo navigare in altri mari letterari.
E’ stato soltanto all’inizio di questo giugno 2021, che l’ho in qualche modo scoperto attraverso un film documentario diretto da Dario Acocella, “Sogni di Grande Nord”, in cui si racconta di un viaggio effettuato da lui e dal suo amico Nicola Negrin. Si tratta di un viaggio letterario di esplorazione, che porta la coppia di amici dalle Alpi all’Alaska, attraverso paesaggi di grandissimo impatto visivo, sulle orme degli autori che hanno formato lo scrittore : Raymond Carver (visiteranno la sua tomba a Port Angeles), H.D.Thoreau, Jack London (attraverseranno lo Yukon, dove è ambientato “Il richiamo della foresta”), Hermann Melville , fino ad arrivare in Alaska, al Magic Bus di Chris McCadless, simbolo conclusivo di una filosofia della solitudine nella natura che lo stesso Cognetti persegue ormai da molti anni.
Il documentario si presenta infatti fin dall’inizio come un viaggio alla ricerca di sé che l’autore, poco più che quarantenne, decide di intraprendere per dare forma alla sua orma umana e letteraria nel mondo. La sua voice over , che segue noi spettatori per tutto il film, trasforma un intero continente, quello del Canada, in una sorta di casa dell’anima di Cognetti, la risposta alla sua attrazione verso la vita solitaria e contemplativa, che ha soltanto due pause di relazione umana , negli incontri con una coppia di amici milanesi del suo compagno di viaggio, e con la scrittrice canadese Kate Harris.
I due viaggiatori , come recita una recensione del film , diventano “pionieri di un western contemporaneo”, in un “atto sacrale di ringraziamento verso natura e letteratura e il loro potere di riportare tutto all’essenziale”.
E l’immagine di Cognetti disteso sulla cuccetta di Alexander Supertramp, che tenta di assorbire su di sé sensazioni, pensieri, ultimi addii di Chris Mc Candless , diventa il paradigma di questa sua filosofia della solitudine nella natura.
Chi scrive a questo punto ha deciso di muoversi su due fronti di approfondimento del tema: da un lato recuperare “Le otto montagne” per trovare traccia di questo messaggio , a cui poi ha aggiunto l’ultima fatica dell’autore , “L’Antonia” , Ponte alle Grazie 2021, dall’altro rivedere dopo molti anni il film “Into the wild” del 2007, per riconoscere i principi che avevano ispirato il viaggio iniziatico di questo giovane americano nei primi Anni Novanta.
“Le otto montagne” mi hanno accompagnato in modo molto suggestivo fin dall’inizio nel sentimento della montagna dell’autore, e il paese di Grana, meta di tantissime estati con la famiglia e nido del suo spirito errabondo fino alla sua età adulta, si trasforma fin da subito in una serie infinita di descrizioni della natura del posto, della sua interazione con rocce, erba, pascoli, torrenti, quasi che i dettagli naturali che lo circondano diventino un poco alla volta una sorta di abito , di seconda pelle, di irrinunciabile completamento di sé, e l’amicizia con Bruno, la progressiva abitudine alle arrampicate col padre, con l’amico, poi sempre più spesso da solo, rendono tale rapporto definitivo.
Qui si parla molto di come si costruisce una solitudine umana rotta soltanto dall’eterna amicizia con un ragazzo che dai monti non si muoverà mai, di come, in una vita che porterà poi il protagonista a viaggi anche nelle vette più lontane nel mondo, Grana resterà riferimento ineludibile. C’è un passo molto forte a questo proposito : “…Non era un paesaggio poi molto diverso da quello di Grana, e guidando pensai che tutte le montagne in qualche modo si assomigliano, eppure non c’era niente, lì, a ricordarmi di me o di qualcuno a cui avevo voluto bene, ed era questo a fare la differenza. Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia. Come riuscivi a rileggerla ogni volta che ci tornavi. Poteva esisterne una sola, di montagna così, nella vita, e in confronto a quella tutte le altre non erano che cime minori, perfino se si trattava dell’Himalaya.”
Anche Antonia Pozzi, milanese degli Anni Trenta, nel volume in cui Cognetti raccoglie e commenta le sue lettere, le sue poesie, le sue fotografie, è una giovane donna che, in apparenza vivacemente inserita nella buona società milanese a cavallo della nascita del Fascismo, riesce a trovare in realtà la sua misura ( ed è questo che la fa simile allo scrittore ) solo nelle interminabili passeggiate ed arrampicate alla Grigna, nelle Dolomiti, sul Cervino. Di questo racconta nelle sue lettere, di questo riempie i suoi versi che, usciti sottovoce, dopo la sua morte per suicidio nel 1938 troveranno illustri estimatori facendola emergere, troppo tardi, dall’anonimato letterario. Si ucciderà per una intrinseca incapacità a trovare una misura nei rapporti d’amore , ma capirà, comunque, nei suoi brevi ed intensi anni di vita, la forza della scrittura come cura ai mali dell’esistenza . In una lettera a Dino Formaggio dirà :” Scrivere: io non so, non ho visto nulla di tuo, non posso dire niente, ma questo mi sembra di poterti dire : non aver paura di te stesso, non lasciarti paralizzare dall’autocritica, scrivi – scrivi – scrivi. Che in principio tutti debbano attraversare un lungo – a volte molto lungo – periodo di convenzionalità, di retorica, eccetera, è un fatto ; ma è anche un fatto che questa convenzionalità, e retoricità, non si superano se non con la pratica, con l’esercizio quotidiano, assiduo della penna.”
Ed ecco l’altra grande linea di contiguità tra Cognetti e Antonia Pozzi : la scrittura che fa uscire il senso del rapporto con il mondo e con le montagne in primis.