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13 Febbraio 2025Quando ho finito di leggere circa un mese fa il libro di Tara Westover, “L’educazione”, la furia che mi ha preso di fronte alle forme terribili e diverse che la violenza psicologica e familiare prendevano nella famiglia dell’autrice, nel suo memoir, non mi ha lasciato dapprima la lucidità necessaria per darne conto adeguatamente su questa rubrica. Ciò che la protagonista , che ha vissuto realmente in questa famiglia di mormoni estremisti dell’Idaho fino all’età di 17 anni, ha subito da parte del padre, nella sua follia bipolare di profeta unto da Dio , poi da parte del fratello Shawn, che l’ha brutalizzata ripetutamente da bambina e da ragazza, mi sembrava a prima vista troppo estremo per meritare un commento articolato. Solo in questi giorni, ascoltando in youtube una intervista all’autrice, ora trentottenne,con altri commenti fatti all’epoca dell’uscita del libro, ho capito che esso può certamente rappresentare un esempio di liberazione dalla violenza attraverso appunto l’educazione, la cultura, lo studio, che erano severamente proibiti all’interno della famiglia Westover, assieme alla medicina dei medici e degli ospedali, assieme all’iscrizione all’albo dell’Anagrafe locale. I 7 figli Westover per molto tempo restarono ignoti allo Stato americano da tutti questi punti di vista, isolati nella loro valle remota ai piedi di una montagna ,chiamata in famiglia “La principessa indiana”, e del tutto scollegati da qualsiasi forma di manifestazione sociale.
L’aggravarsi sempre maggiore del fenomeno dei delitti di genere mi ha ancora di più convinto che la testimonianza di questa esistenza estrema senz’altro ma reale , in un Paese cosiddetto evoluto, in fatti avvenuti pochi decenni fa e non nel Medioevo ,fosse un segno indispensabile.
La voce che li racconta, quella di una delle figlie, è la voce del riscatto nel nome dell’educazione appunto, un riscatto lungo e doloroso, fatto di numerosi ritorni alla famiglia d’origine nella speranza della possibilità di una ricucitura, fino a quando Tara, ormai docente di Storia nell’Università di Cambridge, non capisce che la sua scelta le chiuderà per sempre la possibilità di ricostruire i rapporti con i genitori e con una parte dei fratelli.
La violenza che essa ha subito ha due facce molto diverse ma egualmente terribili: la violenza psicologica del padre , che assume un ruolo profetico pericolosissimo all’interno della famiglia (“…Mio padre non era alto,ma sapeva imporre attenzione. Aveva un certo portamento, la solennità di un oracolo.”), e quella fisica del fratello Shawn, a sua volta malato mentalmente, ma mai denunciato dai genitori per i suoi atti di violenza gratuita prima nei confronti delle sorelle, poi della moglie . Era uso infatti prenderle per i capelli e infilare loro la testa nel water dicendo che erano “troie”, al primo accenno di ribellione da parte loro nei confronti dei suoi soprusi, con la scusa che facevano le bambine e dovevano imparare a comportarsi.
La voce sempre pacata dell’autrice, anche nel racconto delle atrocità subite, mostra la sua capacità di lenta dolorosa rielaborazione del suo passato, in una nuova forza che le deriva da una diversa consapevolezza acquisita in anni di studio e di volontaria lontananza geografica dal luogo di tali soprusi.
Da non dimenticare come forma ancora diversa di violenza subita la serie di incidenti violenti sul lavoro incorsi a lei, al padre, ai fratelli, nel loro lavoro alla discarica, con gravi conseguenza fisiche considerate dal padre come un segno di Dio, e curate esclusivamente con rimedi naturali spesso del tutto inefficaci.
E’ un libro questo che è stato definito come “un libro sul perdono”, ma preferisco pensarlo come una testimonianza della liberazione della voce narrante da un incubo familiare.
Il secondo libro che metto a fianco di questo ha in comune col primo soltanto il tema della violenza, questa volta purtroppo in termini più a noi vicini se non nel tempo – siamo di nuovo negli Anni Ottanta , ma geograficamente — si parla del litorale laziale –, e nelle modalità di stupro da parte di un gruppo di giovani maschi nei confronti di due ragazze giovanissime di cui una perde la vita. Il romanzo, italiano ,è uscito lo scorso anno , per mano di Roberta Recchia, e si intitola “Tutta la vita che resta”.
Nonostante la sua lunghezza a mio avviso eccessiva (quasi quattrocento pagine), ed una disomogeneità tra una prima parte più intensa e drammaticamente efficace, ed una parte finale in cui si accumulano troppo fatti, personaggi, conclusioni che si rincorrono senza respiro sufficiente, la chiave vincente di questa narrazione sta a mio avviso nel dipanarsi, dopo l’aggressione iniziale alle due ragazze, di tutto ciò che, appunto, si dispiega negli anni immediatamente successivi, in quella “vita che resta” del titolo, vinta dal dolore irreparabile dei genitori della giovanissima vittima, un’esistenza che viene raccontata benissimo nella desolazione, nella rinuncia in qualche modo alla vita da parte della madre di Betta, la ragazza morta, mentre la vicenda della cugina Miriam, da quella notte in poi, riaffiora gradatamente sotto i nostri occhi, assumendo sempre più un ruolo centrale, fino alla soluzione finale , nelle ultime pagine.
Un’altra riflessione che ho fatto a proposito di questo libro-denuncia in forma letteraria, è che le due figure più forti in senso positivo del libro sono quelle del padre di Betta, con il suo equilibrio, serenità anche nel dolore, attenzione continua nei confronti della moglie anche nei momenti più bui e distanti di lei, e di Leo, ragazzo di borgata che, con la sua generosità nei confronti di Miriam, che poi si trasformerà in un sentimento profondo e duraturo, consente a questa ragazza col buio assoluto nella mente e nel cuore , di ritrovare, pur con grandissima fatica, un senso alla sua vita.
“…Leo De Maria imparò a stare sulla corda con Miriam Bassevi, in equilibrio. Lui, così apparentemente insofferente alle situazioni complicate che lo facevano sentire inadeguato, cominciò a lasciare che proprio i silenzi di Miriam gli indicassero la direzione giusta, un giorno ala volta”.
E’ con lui che si apriranno finalmente le piste per le indagini sui responsabili della violenza nei confronti delle due cugine, che verranno trovati e puniti. E davanti ai nostri occhi di lettori si rivelerà poco a poco con nostro sconcerto e ribrezzo, quella banalità del male che qui, come spesso negli episodi di violenza sulle donne, ha bisogno soltanto di un pretesto qualunque per manifestarsi .
Il successo che questo romanzo ha avuto recentemente sta secondo me nel modo in cui esso è in grado di accompagnare il lettore dal fatto iniziale di abominevole violenza , in qualche modo dentro la storia, dopo la storia, rivelandoci le vite di tutti coloro che stanno attorno alle vittime, o, come Miriam, sono vittime mute a lungo.
Ecco cosa ho sentito potesse unire Tara e Miriam : il senso del riscatto dalla violenza, nella prima attraverso la lettura, lo studio e la scrittura, nella seconda nella dolorosa progressiva accettazione di quanto era avvenuto, certa di avere accanto chi l’ha sempre accompagnata nel suo cammino verso una nuova sofferta serenità.
Tara Westover, L’educazione, Feltrinelli 2018
Roberta Recchia , Tutta la vita che resta, Rizzoli 2024