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Curiosità, preoccupazione, sconcerto
23 Maggio 2018Non succede spesso ultimamente ma ogni tanto escono film che legittimano l’appellativo di Decima Musa per il Cinema. “Cosa dirà la gente” della regista pakistana Iram Haq è uno di questi e consiglio di non perderlo. Il film offre, oltre che la straordinaria, intensa e dolente, interpretazione della protagonista (Maria Mozhdah), l’occasione di riflessioni non banali e problematiche.
Film in parte autobiografico, racconta di una ragazza di una famiglia pakistana emigrata in Norvegia che conduce una vita sospesa tra due mondi non comunicanti a entrambi dei quali sente di appartenere. Ma non siamo di fronte alla solita rappresentazione di un mondo primitivo da guardare con distacco e magari con disprezzo. E nemmeno a un film-denuncia di mostruose violazioni dei diritti elementari delle donne. Nisha (questo il nome dell’eroina della vicenda) è infatti una figlia amata, anzi è la cocca di papà che stravede per lei, studia con profitto in una scuola pubblica e papà orgoglioso se la immagina già all’università, la famiglia è relativamente benestante, con un negozio avviato, il capo famiglia teneramente devoto alla moglie, hanno una bella BMW, pagano scrupolosamente le tasse. Insomma una famiglia normale, la mamma rompi il giusto e una generale atmosfera di armonia. Eppure, a dispetto di queste condizioni ideali, non vi è affatto integrazione: le ricche relazioni sociali della famiglia si svolgono esclusivamente all’interno della comunità musulmana e, esclusi i clienti del negozio, nessuna relazione con gli autoctoni dei quali peraltro il padre pensa siano “idioti”. Sta di fatto che, fuori casa, Nisha civetta con i coetanei norvegesi, va alle feste, beve, e chatta in continuazione con le amiche, tutte occidentali.
E proprio l’essere sorpresa dal padre nella sua camera con un coetaneo (pur vestitissimi entrambi), infrangendo il tabù sessuofobo dell’educazione musulmana, scatena il fragoroso scontro tra i due mondi. La reazione della famiglia e di tutto l’entourage pakistano è radicale, compatta, totalmente impermeabile al mondo circostante (e all’esemplare sistema di servizi sociali che scatta a protezione della ragazza): Nisha va normalizzata costi quel che costi, anche con misure drastiche e crudeli (seppure mai fisicamente brutali). Il tutto in totale buona fede: papà, mamma, fratello maggiore pensano davvero di fare il suo bene. Il padre è sinceramente sgomento per questa figlia che adora ma che non corrisponde all’unico possibile modello che il suo mondo interiore conosce, la mamma vive un profondo dramma nel pensare a cosa dirà la gente (da cui il titolo dell’opera) e per essere diventati improvvisamente degli appestati nella vita sociale della comunità.
Occasione di riflessioni non banali e problematiche, si diceva prima. Almeno due. Perché l’infrangere un modello definito e unico ritenuto possibile ricorda molto quello che sarebbe successo in una famiglia italiana degli anni ‘50/’60 in cui la ragazza fosse rimasta incinta (senza matrimonio riparatore) o alla scoperta di un figlio omosessuale (questo anche molto dopo gli anni ’50). Certo, sono passati molti anni ma non tanti da poterci cullare rassicurati dalla nostra superiorità morale occidentale.
La seconda riflessione, assai più inquietante, corre agli ahimè frequenti casi di cronaca di sventurate ragazze musulmane uccise dai parenti (e complice la madre) perché volevano vivere all’occidentale, ultima e recentissima la povera ragazza di Brescia uccisa proprio in Pakistan. Il film di Iram Haq ci rivela che i mostri non nascono necessariamente da situazioni di estremismo bigotto, di donne tenute in condizioni di schiavitù e analfabetismo ma magari da famiglie felici proprio come quella Nisha. Significativo che anche nel film al culmine della crisi il papà addirittura chieda a Nisha di uccidersi (lui evidentemente non ha il coraggio di farlo) perché questa gli appare l’unica soluzione possibile. Famiglie che non reggono all’attrito dell’incontro di due mondi, al conflitto tra la legge degli uomini che trovano nel Paese ospitante (e nel quale sono magari felicemente integrate) e la legge non scritta che si portano dentro. L’ombra di Antigone si proietta sinistra sulle prospettive di vera integrazione dei molti mussulmani nella società occidentale.
Eppure, qualche speranza c’è. Alla fine del film, il papà prende coscienza di tutta la disperazione della figlia e la lascia fuggire, rimanendo a fissarla mentre si allontana nella notte. E in quello sguardo tormentato, disorientato, disperato e rassegnato insieme, c’è tutto il dramma che lo divora.