DALLA PESANTEZZA DEL PRESENTE ALLA LEGGEREZZA DEL FUTURO
13 Gennaio 2019UE, Brexit e l’impossibile corsa contro il tempo
31 Gennaio 2019Una volta c’erano gli statisti. Gli statisti al potere erano una garanzia di saggezza e di equilibrio, di lungimiranza e di competenza. Gli statisti approdavano alle istituzioni dopo anni e anni di scuola di partito e, possibilmente, all’apice di carriere universitarie di tutto rispetto. Erano poco inclini all’improvvisazione e, di solito, non sbandieravano ai quattro venti il proprio operato ma, tutt’al più, ne davano contezza quando veniva loro richiesto. E lo facevano con discrezione e sobrietà, evitando di lasciarsi andare a pulsioni emotive. Certo, gli statisti di una volta non minimizzavano le ragioni della propaganda ed erano ben consapevoli che l’elettorato non perdona tradimenti e omissioni. Sapevano, tuttavia, che uno statista ha l’obbligo di affrontare le questioni politiche con misura e decoro e deve lasciare agli altri la libertà di essere sopra le righe e di abbandonarsi ad esternazioni volgari.
Decenni di evoluzione (o di involuzione) hanno mutato la figura dello statista. Il mondo è cambiato. Ci si abitua a tutto. La gente ha progressivamente accettato la mediocrità, il pressappochismo, l’ostentazione autocelebrativa, il voyerismo politico. Sembra, anzi, che questi neo valori premino. Ne sono testimonianza i successi mietuti da Salvini, statista dell’ultima ora, che sembra quasi abbia voglia di mettere alla prova, con le sue continue provocazioni, un elettorato crescente. Anzi, più alza il tiro, più aumenta i consensi.
Non sia mai che la gente abbia bisogno di mediocrità, di quotidiana brutalità, di ordinaria arroganza, di spietata intransigenza per sentirsi rappresentata? Vuoi mettere che l’uomo solo al comando dal piglio virile e tutto d’un pezzo ha ancora il suo perché? Evidentemente sì. Non si spiega altrimenti tanta popolarità. E dire che provocazioni ne sono giunte copiose in questi mesi di governo.
Ci sono episodi che non possono non suscitare stupore. La celebrazione dei 50 anni della curva sud del Milan dovrebbe insegnarci qualcosa. Può un rappresentante delle Istituzioni, per giunta vice presidente del Consiglio e ministro degli Interni, abbandonarsi a un gioco di selfie, baci, pacche sulle spalle con alcuni ultras rossoneri che hanno avuto problemi con la giustizia per spaccio? A chi gli ha fatto osservare la stranezza del fatto, il ministro, mettendo al bando il nobile sentimento della vergogna, ha risposto, con tono beffardo, di essere “un indagato tra gli indagati” e di non avere colpe dalle quali emendarsi. Questo e altri eventi (dall’ostentazione del pane e nutella alle invettive anticomuniste di berlusconiana memoria, dalla caccia all’uomo nero alle piaggerie dei mascheramenti in divisa, ieri da carabiniere, oggi da vigile, domani da poliziotto), vengono quotidianamente inghiottiti dai social, confondendosi, in un bolo informe, con le immagini urlate e il linguaggio ammiccante di Facebook e Instagram. E generano consenso, anziché invitare alla riflessione, al ripensamento, al recupero del pensiero critico. Nutrono un elettorato famelico, pronto ad acclamare l’uomo forte e a perdonargli ogni caduta di stile. Anestetizzano e offrono l’illusione che in fondo siamo tutti uguali: nutriamo le stesse paure e abbiamo le medesime idiosincrasie.
Demagogia urlata intrisa di razzismo e di spirito fascistoide. Presenzialismo pervasivo e autocelebrativo. Ambizione sfrenata indifferente ai reali problemi della gente. Acrobazia di un nulla che si fa tutto pur di alzare la posta di un tragico gioco all’azzardo. Incompetenza imbarazzante. È questa la cifra dei nuovi statisti, creature digitali che ci esiliano nella solitudine dei social, ci regalano la percezione di appartenere alla loro stessa comunità, nutrendoci dell’illusione di scegliere e di decidere delle nostre vite. Ma è tutto un bluff, un pericoloso, inquietante e meschino gioco virtuale. Dio ce ne salvi!