
Salvini e Landini: stessi obiettivi
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Un problema maledettamente complicato
26 Novembre 2023Tra le tante analisi circolate nel web, sui giornali e in televisione sull’omicidio di Giulia Cecchettin, tra le tante considerazioni buttate lì, talvolta con leggerezza, da opinionisti, psicologi, giornalisti, ho molto apprezzato il rifiuto di chi ha sottolineato l’opportunità del silenzio di fronte a simili tragedie. Sì, perché non c’è molto da dire e non c’è molto da aggiungere alle parole sensate di Elena, la sorella di Giulia, che ha condensato in un’unica parola le colpe di tutte queste reiterate violenze. Patriarcato. Tuttavia, come spesso capita in Italia, tutto diventa oggetto di polemica e tutto viene scaraventato nell’agone politico. Infatti, qualche esponente della maggioranza, sentitosi punto nel vivo, s’è risentito. Perfino la premier, in polemica con qualche giornalista, ha mostrato una foto che ritrae alcune esponenti della sua famiglia, tutte rigorosamente al femminile. Reazione, quest’ultima, ingenua e arrogante perché non bastano un divorzio, delle corna o un abbandono, per emanciparsi da una condizione di patriarcato. Ma questa è un’altra storia. In ogni caso, nessuno ha affermato che il patriarcato è patrimonio esclusivo della destra. Può essere riferito a quest’ultima forse perché più ascrivibile a una mentalità conservatrice, ma neanche la sinistra è immune da attitudini, scelte o approcci che adombrano e penalizzano la figura della donna.
Una valanga di obiezioni si è scatenata di fronte alle affermazioni di questa giovane donna. Molti sostengono che addirittura il patriarcato non esiste più perché le donne studiano, lavorano, scelgono e si muovono autonomamente. Tutto vero. Esiste però un patriarcato più nascosto, più subdolo, che ha mutato i suoi connotati e che forse è esso stesso la causa di tanta violenza. È una mentalità difficile da eradicare, che deve essere individuata e riconosciuta, e dunque debellata. È una normalità malata che ci attraversa e ci forma, cristallizzando ruoli e modi di pensare. Una normalità più forte di qualunque provvedimento legislativo o progetto educativo a scuola.
Mi spiego meglio. Conosco molto bene la realtà scolastica e, grazie al lavoro svolto per tanti anni, ho avuto modo di osservare l’approccio educativo di tante famiglie. Fatte salve le dovute eccezioni, sono le mamme a prendersi cura dell’andamento scolastico dei propri figli e a investire il proprio tempo sulla loro istruzione e sulla loro educazione. Sono le mamme a badare a ogni necessità dei loro bambini sin dalla prima infanzia, lasciando agli uomini il ruolo di comparsa o di aiuto. Sono le donne a prendersi cura della casa e a incastrare, tutti i santi giorni, le incombenze quotidiane nel tempo libero del lavoro, beneficiando talvolta di una modesta collaborazione di un marito fiero di poter dire “Vedi che bravo? Quando ho tempo ti do una mano”, come se la gestione del quotidiano fosse solo affare di donne. E non sono neanche così infrequenti i casi in cui sono gli uomini a pretendere che tutto sia in ordine, che le camicie siano ben stirate, i letti ben fatti, l’arrosto ben cotto e i figli ben educati. E ancora. A tutt’oggi sopravvive una preoccupante percentuale di donne escluse dalla gestione del patrimonio familiare, donne che non hanno neanche accesso al conto in banca. E naturalmente sono ancora le donne a dover fare un passo indietro nella scelta di un lavoro incompatibile con i tempi che la cura della famiglia impone. Mai gli uomini.
È un neopatriarcato, doppiamente subdolo, perché accetta una parziale emancipazione della donna, ma penalizza quest’ultima, prosciugandone le risorse e assegnandole una posizione gregaria all’interno della famiglia. È una cultura tossica, mascherata di “normalità”, che viene assorbita dai figli, in particolare dai maschi, che tendono a riproporre gli stessi modelli. Ma se le cose non vanno nel verso giusto, se quelle interazioni non funzionano come vorrebbero, se le donne con cui dovranno rapportarsi si ribellano, o danno la priorità alla propria realizzazione, ecco che si genera la frustrazione e il cortocircuito. E si scivola in quel sonno della ragione che genera mostri.
Certo, sarebbe semplicistico attribuire solo a questo le cause di tanti femminicidi (è non è mia intenzione farlo). Insorgono ragioni personali, sociali, psicologiche, non ultimo culturali, ascrivibili, nel caso di soggetti molto giovani, all’incapacità di alcuni genitori di intercettare il disagio dei propri figli o di saperli educare al rispetto. Ascrivibili agli stereotipi di genere di cui il nostro vivere quotidiano è pregno; ascrivibili a un’educazione troppo improntata alla supremazia nei maschi e alla cura e all’accudimento nelle femmine, all’elargizione di giochi maschili tutti fucili, ruspe e fuoriserie e di giochi femminili tutti cucinini, bambole e morbidi peluche da coccolare; ascrivibili alle limitazioni che una cultura millenaria, ancora viva, impone alle donne di uscire da sole o di indossare abiti che esaltino troppo la loro femminilità; ascrivibili a una tradizione che riporta nomi maschili nelle vie delle città e che inonda quelle stesse vie di manifesti pubblicitari con immagini di donne nude; ascrivibili all’incapacità dell’uomo di tollerare l’emancipazione femminile. Tanto che, nel 2023, si fa ancora fatica ad accettare che la donna, che si crede di amare, sia in grado di spiccare per prima il volo.
È apprezzabile la buona fede di tanti politici che individuano adesso nell’educazione all’affettività, come nuova materia scolastica, la soluzione, almeno parziale, al fenomeno del femminicidio. È un po’ una moda, quando le cose vanno male, cercare nella scuola e nell’opera degli insegnanti, una risposta a delle questioni così potenti. Una risposta ingenua e per nulla risolutiva. Sì, perché l’educazione all’affettività è da tempo oggetto di attività formative nelle classi, con e senza l’aiuto di esperti. Nella mia lunga carriera di insegnante, ho portato a termine innumerevoli progetti, molti dei quali con successo, laddove il successo è misurabile con la partecipazione e il coinvolgimento dei ragazzi. Con questo non voglio dire che non creda a queste iniziative. Dico solo che non rappresentano una novità. Vogliamo cristallizzarle in un curriculum? Bene, di sicuro gli insegnanti saranno più che pronti a farlo e di sicuro agiranno nel migliore dei modi, ma se dalla famiglia non traspirano idee di rispetto, di parità, di uguaglianza, l’operato di maestri e professori risulterà vano.
A pensarci bene, un mea culpa va imposto alla politica nella gestione della scuola. I vari ministeri dell’istruzione che si sono succeduti e che col tempo hanno subito uno snaturamento delle loro finalità di crescita e di emancipazione delle giovani generazioni, hanno privilegiato sempre più un approccio tecnicistico dell’istruzione: l’obbrobrio dell’alternanza scuola lavoro, la riduzione di alcune materie, immolate alla necessità del risparmio, lo svilimento degli studi umanistici ritenuti inutili hanno dato un duro colpo alla formazione morale dei nostri ragazzi e alla loro intelligenza emotiva. In un saggio lucido e ricco di spunti, L’utilità dell’inutile, il filosofo Nuccio Ordine, da poco scomparso prematuramente, parla del grande contributo morale offerto dalla lettura dei classici. La crescita morale, quella spirituale, e anche quella civile, i sentimenti, non si insegnano con dei sermoni o con degli algoritmi, ma con la letteratura, con la poesia, con il teatro. E si conquistano narrando l’amore di Catullo e di Saffo, le pene di Didone e la pazienza di Penelope, la pietas di Enea e le sofferenze di Werther. Si insegnano con Shakespeare che racconta l’amore che non muta anche quando l’altro si allontana. Si insegnano con Buzzati che ci racconta le inquietudini degli amori irrisolti. Si apprendono riflettendo sulle tragedie di Emma Bovary e di Anna Karenina. Togliendo tempo a queste importanti produzioni umane si è compiuto un grave danno alle giovani generazioni.
Una letteratura mutilata, messa da parte – correa la mentalità aziendalistica che si è proditoriamente imposta nella scuola – può incidere poco nella crescita morale dei giovani, quando invece potrebbe fare da contrappeso a una cultura mordi e fuggi intrisa di facili stereotipi. Come diceva De André, se si esaspera il tecnicismo, avremo tanti orsi laureati in matematica razionale. La parola, ora, toccherebbe agli insegnanti.



