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8 Marzo 2021Regione Veneto e ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, sono ai ferri corti. L’origine della contesa risiede in una norma regionale, che sospende ogni contributo a quanti neghino o si dimostrino riduzionisti rispetto alla vicenda delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Regione Veneto ritiene che quello ai danni delle popolazioni di lingua veneto-italiana della sponda orientale adriatica sia stato genocidio e pulizia etnica, quindi da considerare alla pari della Shoah anche sotto il profilo culturale. ANPI, invece, lo inserisce nel contesto della Seconda Guerra Mondiale e quindi da valutare nell’insieme di quelle tragiche vicende. A partire dalle responsabilità nazi-fasciste, tanto nello scatenamento quanto nella specifica conduzione delle operazioni militari. ANPI aggiunge che sarebbero in pericolo libertà di ricerca e diritto delle nuove generazioni al confronto con approcci diversi sull’argomento. Sotto questo punto di vista niente di più infondato. Gli storici non hanno mai avuto bisogno dei fondi pubblici per compiere i loro studi. Per fortuna.
Non è la prima volta che mi occupo di foibe e di sponda orientale adriatica in generale. A parte Venezia e la Guerra in Dalmazia,in cui ho analizzato i lontani antefatti della questione, in un articolo del febbraio 2018 sempre su Luminosi Giorni, Foibe: tragedia dimenticata? ho ripercorso vicende recenti: rimando a entrambi, rintracciabili anche sul mio sito personale, per concentrarmi adesso sul nocciolo della polemica in corso. Quindi sul periodo 1941-1947. Il 27 marzo 1941 Hitler decide di varare l’Operazione 25 ovvero l’invasione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni cioè la Jugoslavia. Qui, il colpo di stato militare filo-britannico del generale Dušan Simović rischia di aprire un nuovo fronte nel cuore dei Balcani, strategicamente collocato alle spalle e sul fianco degli alleati italiani, impegnati in Grecia e a proteggere il confine nordorientale della Penisola. Una Jugoslavia ostile e base avanzata britannica, inoltre, rappresenta una grave minaccia per altri due alleati nell’area: l’Ungheria e la Romania dai vitali pozzi di petrolio. Infine, Londra punterebbe una pistola fumante contro il cuore del Reich, Vienna infatti dista meno di quattrocento chilometri sia da Lubiana che da Zagabria. Il tutto, mentre a Berlino si sta già organizzando Barbarossa, cioè l’invasione dell’URSS.
Operazione 25, quindi, risponde a vitali esigenze geostrategiche della Germania. Ciò spiega la rapidità dell’azione tedesca. L’offensiva inizia il 6 aprile e si conclude il giorno 17 con il completo annientamento delle forze jugoslave e l’occupazione del regno. Il cui territorio viene spartito: l’Italia ingloba la Slovenia meridionale, la quale diventa provincia di Lubiana, e si allarga in Dalmazia, costituendo la provincia di Spalato e installandosi a Cattaro. Garantisce, inoltre, un’ampia presenza militare lungo la costa e nell’interno, in particolare nel Montenegro, nel Sangiaccato e nel Kosovo, assorbito quest’ultimo nel Regno d’Albania, pure soggetto a occupazione italiana. Risorge un Regno di Croazia, il cui sovrano dovrebbe diventare un rampollo di Casa Savoia, Aimone duca di Spoleto, come Tomislav II: giura quale re ma a Zagabria non mette mai piede. La nuova Croazia comprende la Bosnia musulmana e serba. L’Ungheria acquista la Vojvodina, il cui centro principale è la città di Novi Sad e presenta una numerosa comunità magiara, mentre il Reich occupa la Slovenia settentrionale, il Banato e l’intera Serbia, che viene affidata per l’amministrazione corrente ai cetnici panserbi e anticomunisti di Milan Nedić. La Bulgaria, infine, si annette il Mezzogiorno e cioè la Macedonia oggi del Nord.
Il problema di fondo dell’Asse è rappresentato proprio dalla velocità del successo. L’occupazione avviene in maniera approssimativa, lasciando incustoditi i magazzini del dissolto esercito jugoslavo, i quali sono svuotati da quanti sono già decisi a opporsi al nuovo stato di cose. Questi danno vita al più vasto e articolato movimento partigiano d’Europa, capace di sfruttare la favorevole geografia del territorio per organizzare una forza militare efficiente. La Resistenza jugoslava, però, si spacca subito: da una parte si collocano le formazioni dei cetnici monarchici e nazionalisti panserbi di Dragoljub Mihalovič, dall’altra i comunisti del croato Josip Broz, detto Tito, ma anche del montenegrino Milovan Ɖilas e dello sloveno Edvard Kardelj. Rappresentano visioni del mondo antitetiche e ben presto finiranno per combattersi apertamente. I cetnici concludono la loro parabola affiancando l’altro ramo dei cetnici panserbi, quello di Milan Nedič, che fin dall’inizio in nome dell’anticomunismo si è schierato con gli italo-tedeschi. Non sono i soli slavi a combattere per l’Asse.
Nella Slovenia loro assegnata, le SS organizzano la Slovensko Domobrantsvo, Guardia Territoriale Slovena, i cui membri si chiamano domobranci e alla fine saranno al comando del generale Leon Rupnik. Conterà fino a 13.000 effettivi. In Bosnia le SS formano la 13a Waffen-Gebirgs Division der SS Handschar, composta esclusivamente da musulmani, così come le altre due divisioni da montagna, la 21a Skanderbeg e la 23a Kama: albanese la prima e bosniaca-musulmana la seconda. Gli italiani, oltre ad avvalersi dei cetnici di Mihalovič, organizzano la Milizia Volontaria Anti Comunista, MVAC, formata per lo più da croati e sloveni ma anche da montegrini. Chiamata anche Guardia Bianca, da cui lo sloveno Bela Garda, o Bande V.A.C. nasce dalla fusione delle preesitenti Vaška Straža e Legija Smrti: Guardia Civica e Legione della Morte. In Montenegro abbiamo la Brigata Lovćen del Partito Verde, i nazionalisti montegrini. Si tratta di un assaggio della realtà, uno studio completo richiederebbe ben altro spazio, ma fornisce una prima idea di quanto complesso sia il panorama delle forze collaborazioniste, unite solo dall’anti-comunismo.
Un discorso a parte meritano gli ustaše del croato di Bosnia Ante Pavelić. Possiedono un bagaglio ideologico che ne fa una della tante varianti europee di fascismo, e sono molto legati al regime di Mussolini, dal quale hanno ricevuto sostegno e aiuti in varie occasioni. Violentemente nazionalisti, vogliono creare uno stato puro dal punto di vista etnico e religioso. Solo i croati cattolici hanno diritto di vivere in Croazia, non c’è spazio per nessun altro. I primi a farne le spese sono serbi, ebrei e rom, ortodossi in generale. A ruota gli altri. In base a tale visione non c’è spazio neppure per gli italiani.
Viste le premesse, non dovrebbe risultare faticoso comprendere cosa sia successo tra il 1941 e il 1945/46. Il totale delle vittime del conflitto viene collocato dagli storici in una forbice compresa tra 1 milione e 1,8 milioni. Nella stragrande maggioranza civili e non militari, sono massacrati per lo più a fini di pulizia etnica e/o di avvertimento/rappresaglia. Le stime sul totale dei serbi uccisi variano dai 500.000 a 1.200.000. Secondo Hermann Neubacher, rappresentante di Hitler a Zagabria, i soli ustaše ne hanno eliminati almeno 750.000. Compresi neonati, bambini, vecchi e donne. Numerosi i campi di concentramento organizzati. Il più celebre è quello di Jasenovac, accreditato di 77/99.000 vittime. Ve ne sono stati molti altri, tra cui Arbe in Dalmazia. Secondo altre valutazioni gli ustaše hanno eliminato nei modi più vari 320/340.000 serbi, 12/20.000 ebrei, su un totale di 30.000, 15/20.000 rom e una cifra variabile di 5/12.000 croati perché comunisti. Molte vittime erano bambini di età compresa tra i tre mesi e i quattordici anni. Tra i morti di Jesenovac anche diciannove italiani, tra cui una donna.
In Vojvodina, sotto l’occupazione ungherese, vengono uccise 50/280.000 persone: arrestate in maniera arbitraria, torturate e quindi assassinate. Per lo più serbi, ma pure ebrei, rom, slovacchi, bunjevici e romeni. Oltre a chiunque possa essere sospettato di essere comunista. Nel Kosovo albanese, quindi sottoposto all’autorità italiana, accade lo stesso a opera per lo più dei fascisti albanesi del Balli Kombetär, il Fronte Nazionale albanese anticomunista, e delle Waffen-SS della divisione Skanderbeg.
Non c’è dubbio che quella jugoslava sia stata, innanzitutto, una ferocissima guerra civile a carattere misto: problematiche etniche, appartenenze politiche e fedi religiose si trovano mischiate in maniera confusa. Alla fine anche con gli interessi personali e la volontà di prevalere di vari gruppi d’interesse. Su tale terreno s’innestano le grandi tensioni geopolitiche. Perché l’Adriatico, e con esso le due penisole contrapposte Italiana e Balcanica, si trova lungo una duplice linea di faglia: est-ovest e nord-sud. Proprio qui, da sempre, entrano in collisione gli imperi di Terra e quelli di Mare in lotta per il dominio del Mondo. Non è un caso che a spalleggiare i combattenti sul campo siano stati da un lato la Germania e dall’altro la Gran Bretagna prima, l’URSS e gli USA poi. Persino le recenti guerre balcaniche hanno visto quali grandi burattinai la Germania, grande fautrice della dissoluzione della Jugoslavia, quindi la Russia quando è tornata a recitare un ruolo e infine gli USA. I quali hanno in Kosovo hanno una delle più grandi basi militari al di fuori del proprio territorio.
Tra 1941 e 1945, infoibamento e massacro dei civili sono stati prassi di tutte le parti in causa per quattro anni di guerra spietata, i vincitori la proseguono. Terminato il conflitto mondiale, i britannici aggiungono delle colpe specifiche. Nel maggio 1945 si consegna loro una massa che pare si aggiri attorno ai 200.000 tra ustaše e domobranci, cosacchi di Carnia, montenegrini e serbi cetnici. In mezzo a questi ci sono senz’altro criminali di guerra, assassini professionisti e seriali. Tanti, però, non c’entrano granché e la maggioranza, al solito, è rappresentato da civili innocenti. A cominciare dai bambini. Molti dei quali in fasce. L’Esercito Popolare di Liberazione comunista li vuole. L’8a armata britannica riceve l’ordine di consegnarli. È una condanna a morte. Solo a Kočevski rog, in Slovenia, finiscono murati vivi nelle miniere di Hrastnik, Trbolje e Lasko 12.000 domobranci sloveni, 3.000 serbi cetnici, 2.500 croati forse ustaše, ma anche 1.000 montenegrini. I più fortunati, per così dire, sono fucilati o falciati da raffiche di mitragliatrice durante le cosiddette “marce della morte”.
È difficile, per non dire impossibile, quantificare il numero delle vittime della vendetta comunista. Si può riuscire a ricostruire solo il numero dei militari italiani, tedeschi, sloveni, croati, serbi, cosacchi che non hanno mai fatto ritorno a casa. Il resto è affidato a congetture. Di sicuro si deve parlare di centinaia di miglia di individui. I giuliano-dalmati finiscono dentro questo ingranaggio infernale. In quanto di lingua italiana sono considerati in blocco fascisti. Nell’ipotesi migliore nazionalisti da estirpare, così come ormai si procedeva lungo l’intero Litorale ormai dal 1867, fatta salva la parentesi 1918-1943 per le parti d’Istria e Dalmazia assegnate al Regno d’Italia. In genere possidenti e/o borghesi sono pure nemici di classe. La Lega dei Comunisti jugoslava è un partito stalinista e ne sposa i metodi. Non deve ingannare la rottura poi avvenuta con l’URSS: all’interno il regime somigliava a qualunque altro d’identico stampo. Quindi per gli italofoni borghesi della sponda orientale non c’era davvero posto nella nuova Jugoslavia, che aspira ad allargarsi oltre Isonzo. In pratica, a ritrovare almeno i confini italo-austriaci del 1915. Per ragioni ideologiche, trova supporto nel Partito Comunista Italiano, in particolare nelle sue federazioni locali, le quali pensano di costituire un Partito Comunista della Venezia-Giulia per far entrare le provincie italofone come settima tra le repubbliche jugoslave. È un’indicazione dello stesso Palmito Togliatti a Vincenzo Bianco già nel 1944.
È certo che l’intera vicenda delle foibe è stata a lungo ignorata e tenuta ben nascosta da tutti. Comprensibile da parte jugoslava, un po’ meno da parte italiana. Forse, però, le spiegazioni esistono. Della connivenza ideologica del P.C.I. si è già detto. De Gasperi preferisce passare sotto silenzio lo schiaffo politico-diplomatico subito in particolare per opera dei britannici, i quali in sede di Trattati di pace sono ancora convinti che Tito sia una specie di loro alleato. Dopo il 1948, con la rottura Stalin-Tito, il secondo diventa un interlocutore importante per Usa e Nato. Quindi, la vicenda dev’essere fatta sparire dall’agenda. E poi c’è la questione dei criminali di guerra. Benché richiesti da Jugoslavia, Grecia, Albania nessun militare di Forze Armate, Camice Nere, Carabinieri, Pubblica Sicurezza e Guardia di Finanza viene consegnato per venire processato. Anzi. La maggior parte resta in servizio e fa carriera. Copriamo anche gli ustaše, i dobromanci, i cetnici, i membri della M.V.A.C. e chiunque si sia macchiato di ogni genere di nefandezza e sia sfuggito ai vincitori. Diversi di loro finiscono ammazzati dagli agenti dei servizi segreti jugoslavi in territorio italiano. Sono operazioni simili a quelle del Mossad israeliano con i nazisti fuggiti. Una pagina poco nota. Sta di fatto che, per evitare i processi si sacrificano gli esuli.
Riguardo a questi, di quali cifre parliamo? Al solito non si è in grado di fornire dati precisi. Alla materia si sono applicati molti e importanti studiosi, le cui conclusioni sono da ritenere le più attendibili. Per quanto riguarda i giuliano-dalmati gli uccisi variano tra i 5/11.000 di Guido Rumici, il quale comprende anche i morti in prigionia o per deportazione, e i 3/5.000 di Raoul Pupo. Gli esuli si aggirerebbero attorno ai 250/350.000. Sono numeri ragguardevoli, che meritano però di venire confrontati con quelli, per esempio, dei tedeschi. Nella Jugoslavia anteguerra erano circa 500.000. Di questi, ne vengono uccisi tra i 17.000 e i 160.000. I rimanenti sono costretti a emigrare. Oggi non ci sono germanofoni in tutte le repubbliche post-jugoslave. Se allarghiamo l’orizzonte all’intera Europa Orientale, vediamo che ne dopoguerra vengono costretti a raggiungere la Repubblica Federale di Germania una cifra che oscilla tra gli 11,6 e i 18 milioni di tedeschi. Per la maggior parte dalla Prussia, dalla Pomerania, dalla Slesia diventate russe e polacche: 7 milioni circa. Seguono quelli dai Sudeti cecoslovacchi: 3,5 milioni. Spariscono dall’Ungheria, da dove vengono deportati in Russia in 100/170.000, mentre in Romania si riducono da 760.000 a 213.000. Pure dai Paesi Bassi ne vengono espulsi 25.000. Tranne gli olandesi, comunque, tutti costoro devono prima assaggiare la vendetta di chi ha vinto.
Lascio ai lettori ogni valutazione finale in merito e anche il compito di controllare le cifre e approfondire l’argomento. Oggi esiste una pubblicistica assai varia e qualificata in qualunque lingua su tali argomenti, quindi non è impresa complicata. Quanto a me, trovo che i dati qui forniti parlino da soli.