Tre passi nella realtà, Ilva-Tap, Tav
23 Settembre 2018Ontologicamente fascista
15 Ottobre 2018Dal libro “La casa nella Pineta”, di Pietro Ichino, emergono una storia familiare, una ricca e notevole esperienza di vita e di lavoro, e tanti spunti di riflessione. Da qui, alcune domande di approfondimento all’autore.
Professor Ichino, riguardo al suo percorso formativo, cominciando dall’impronta della Scuola di Barbiana, cui fa continui riferimenti nel suo libro, penso si possa affermare che il comunismo etico (e non solo etico) di Don Milani non consentisse una scelta tra strade diverse: era piuttosto categorico sulla strada da intraprendere, e sui criteri pedagogici cui uniformarsi. Allo stato attuale, non crede che l’affermazione che “una scuola che seleziona distrugge la cultura” sia pretenziosa ed intrisa di fondamentalismo?
Dobbiamo chiarire che cosa intendiamo per “scuola”. Se ci riferiamo anche all’Università e agli istituti di istruzione superiore, dobbiamo respingere recisamente una affermazione come questa. Ma Don Milani si riferiva alla scuola elementare e media. Penso che anche un liceo possa e debba in qualche misura essere selettivo, ma in un sistema scolastico che si proponga l’obiettivo di includere tutti i ragazzi fino ai 16 o 17 anni, ciascuno nel percorso di istruzione più adatto alle sue capacità e aspirazioni.
Non crede che i precetti della Scuola di Barbiana fossero conformi a un’Italia ancora in gran parte con economia agricola, nella loro approssimazione organizzativa e didattica (l’adibire per esempio i ragazzi più grandi all’insegnamento dei più piccoli) piuttosto che al mondo industriale (con la sua specializzazione e divisione del lavoro), come si sarebbe evoluto pochi anni dopo?
La vera grandezza dell’esperienza della Scuola di Barbiana e più in generale nella predicazione di don Milani non sta né nei metodi didattici, né nei contenuti dell’insegnamento: sta nell’intuizione secondo la quale la vera povertà nasce dal difetto di cultura, dall’incapacità di leggere, di capire e di parlare. Sta nell’idea che la scuola, prima ancora e più che il lavoro, sia lo strumento fondamentale per l’emancipazione sociale, per il superamento delle ingiustizie.
In una recente intervista, Lei afferma che “le radici della crisi attuale del nostro diritto del lavoro stanno tutte nella storia del movimento sindacale e della sinistra politica di quegli anni”, cioè gli anni ’70 descritti in due capitoli del suo libro; può essere più preciso al riguardo? A quali radici si riferisce?
L’impianto del nostro diritto del lavoro, fino alla riforma del 2015, è stato quello originato dalle leggi del decennio successivo al ’68 e all’“autunno caldo” del ’69: protezione fortissima contro il licenziamento (si parla in proposito di un regime di job property) integrata con la possibilità della Cassa integrazione anche quando l’impresa ha chiuso; pensione di anzianità legata all’ultima retribuzione ottenibile con 35 anni di contributi e senza requisiti di età; protezione del lavoratore dal mercato e non nel mercato, quindi difetto pressoché totale di servizi efficaci per la transizione dal vecchio lavoro al nuovo. Questo impianto non poteva reggere all’accelerazione del ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate che si è verificata nell’ultimo quarto di secolo.
Nel nostro mercato del lavoro, Lei afferma, “è sul terreno dei servizi, dell’implementazione amministrativa, che le cose funzionano malissimo o non funzionano affatto”. Questo malfunzionamento secondo Lei è voluto, è attribuibile ad una avversa volontà politica o sindacale?
Nessuno ha mai “voluto perseguire” il malfunzionamento della rete dei servizi al mercato del lavoro. C’è stato, però, chi ha voluto impedire che a tempo debito venissero sperimentate misure volte a superare quel malfunzionamento attraverso un sistema di cooperazione e concorrenza tra servizio pubblico e operatori privati. E in un passato ormai remoto ci sono stati molti – anzi, moltissimi – che hanno difeso a spada tratta il regime di monopolio statale dei servizi di collocamento come un baluardo indispensabile in difesa della libertà e dignità delle persone nel mercato del lavoro.
Circa il rapporto con il suo partito, l’ex PCI, si colgono episodi e aspetti conflittuali, tra cui l’isolamento, cioè l’espediente sistematico di isolare – soprattutto moralmente e politicamente – l’avversario interno o l’”eretico” per escluderlo dal confronto: ritiene che questo isolamento sia ancora operante, anche parzialmente, nei suoi confronti? E comunque, ritiene che all’interno della sinistra la componente contraria alle sue proposte abbia un considerevole seguito?
Di questo ho parlato ne La casa nella pineta, ma in riferimento a situazioni e vicende passate. Oggi, certo, in una parte della sinistra italiana permangono dissensi anche molto netti nei confronti di quello che io propongo e sostengo. Ma questo è fisiologico, e non ha nulla a che fare con la tecnica del “cordone sanitario” utilizzata per impedire il confronto delle idee, di cui nel libro ho raccontato alcuni esempi.
In buona parte dell’elettorato sussiste la convinzione che tante difficoltà del mondo del lavoro siano dovute alla legge Biagi, alla legge Fornero, al Job Act, con il desiderio di tornare a un regime, quale era in passato, più permissivo e più protettivo, anche se foriero di indebitamento da parte dello Stato; e da parte degli attuali governanti – e non solo – ci sono tentativi di modificare questi provvedimenti legislativi. Non pensa che riguardo a questo vagheggiamento e a questi tentativi di ritorno al passato ci sia stato e sussista ancora un problema di comunicazione e di informazione? Più specificamente, non le sembra che le innovazioni legislative degli anni recenti – improntate al superamento del regime di “job property”, al superamento del dualismo tra protetti e non protetti – non sono state comunicate ed illustrate con la dovuta efficacia o chiarezza soprattutto da parte del suo partito, o del suo sindacato?
Tutta la politica è essenzialmente comunicazione di massa. E tutte le sconfitte politiche sono, in qualche misura, figlie di un difetto di comunicazione. D’altra parte, le riforme politiche più importanti e incisive portano sempre con sé, in qualche misura, il rischio della sconfitta politica di chi le ha promosse e attuate: perché portano cambiamenti i cui frutti positivi sono destinati a manifestarsi nel medio e lungo termine, non nel breve termine entro il quale si svolge il prossimo turno elettorale.
Non ritiene di constatare, in rapporto ai cambiamenti indotti dalla globalizzazione, carenza di analisi e progettualità da parte del sindacato? E, sempre da parte del sindacato, non ritiene che assecondi la paura della competizione e la spinta al rifugio in un mastodontico apparato protettivo, anziché educare a scegliere, anche cambiando impiego, le opportunità che un mercato – naturalmente se funzionante – offra?
Non generalizzerei: c’è sindacato e sindacato. C’è la Cgil di Susanna Camusso, ma c’è anche la Fim-Cisl di Marco Bentivogli, alla quale non si può davvero rivolgere questa critica. E anche nella Cgil occorre distinguere le posizioni dei suoi dirigenti nazionali da quelle di molti dirigenti periferici e rappresentanti sindacali aziendali. Detto questo, sono convinto che nel nuovo contesto caratterizzato dalla globalizzazione il sindacato dovrebbe imparare ed esercitare il mestiere di “intelligenza collettiva” capace di guidare i lavoratori nella ricerca degli imprenditori migliori da qualsiasi parte del mondo provengano, nella valutazione dei loro piani industriali e, quando la valutazione sia positiva, nella negoziazione a trecentosessanta gradi della scommessa comune e della spartizione dei suoi frutti dopo che essa sarà stata vinta.
Vivere sotto scorta, dopo le concrete minacce alla sua persona, costituisce un prezzo considerevole che Lei paga per il suo impegno e le sue sfide; ha motivi o momenti di ripensamento circa le sue battaglie?
Ripensamenti critici, sempre. Ripensamenti dettati dal costo subito in termini di minacce da parte dei violenti, quindi di limitazione della mia libertà, mai. Ma questa intervista è già troppo lunga: su questo tema non posso che rinviare al capitolo – Il passamontagna – che ad esso ho dedicato nel libro.