COSTUME E MALCOSTUME Sul politically correct e sull’ipocrisia
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20 Gennaio 2022“Ahh, non c’è visione…non c’è visione”. Tale sofferta constatazione la si esprime solitamente scuotendo sconsolati il capo: è il prendere atto con amarezza e fatalismo di una politica del territorio miope, scoordinata, sbagliata in definitiva. Se poi la politica del territorio ‘senza visione’ è applicata a Venezia, la constatazione assume i toni malcelati di una situazione quasi disperata. Si potrebbe pensare che chi ci comunica questa drammatica assenza, una sua ‘visione’ invece ce l’abbia, sarebbe già qualcosa per cominciare. Macchè, continua a scuotere il capo, chissà se la possiede e se la possiede la tiene per sé.
Troppa ironia in verità è anche un tantino fuori luogo e faccio subito ammenda, perché la ‘visione’ nel prefigurare la costruzione della città nel territorio in modo serio è un elemento di partenza sicuramente importante. L’ultima volta che ho posto il problema a qualcuno, forse anch’io scuotendo il capo, mi è stato risposto “avere visione? Si…è ‘na parola…”
“ ‘Na parola”. E perché?
Chi nella storia – la solita, petulante e supponente “magistra vitae” – si è messo d’impegno ad averla ‘sta benedetta visione e ad applicarla con risultati soddisfacenti, ci lavorava con slancio, perché aveva la fondata speranza che venisse concretizzata in una realizzazione di ampio respiro, coerente, e ben visibile e fruibile. ‘Vedo’, perciò ‘faccio’.
Restando limitati al tema territoriale e urbano, che è comunque un terreno in cui più di altri servirebbe ‘visione’, si pensi solo alla differenza tra la città medievale e la città rinascimentale.
La prima è una città densa, irregolare, tutta spigoli e cantoni, viuzze contorte, vicoli senza sbocchi, un labirinto apparentemente contrario ad ogni logica. La seconda è razionale, regolare, con spazi ampi, larghe piazze, facilmente leggibile. Sarà che vi ho per anni accompagnato gruppi di curiosi camminatori, ma io in mente ho soprattutto la città di Ferrara, che dentro alle sue ampie mura, concepite ‘in crescita’, le racchiude entrambe, la medievale e la rinascimentale; ma non l’una dentro l’altra, come spesso accadeva, ma affiancate o, come si dice per Ferrara, ‘addizionate’.
La Ferrara medievale nasceva, come tutte le sue contemporanee, sull’iniziativa quasi anarchica e individuale, senza poteri centrali nel libero comune, che governava a modo suo il gioioso disordine
– cioè sul territorio democraticamente non governava – , e nasceva soprattutto sul commercio, dove ognuno si posizionava dove meglio credeva, a mano a mano e non in contemporanea: un banchetto qua, un magazzino là, un arco e una volta su, un sottoportico giù, un progressivo affastellarsi di iniziative individuali, dove il primo problema è la posizione rispetto a elementi spaziali utili al trasporto e allo scambio (per Ferrara un ramo fluviale deltizio, nientemeno che del Po). Non c’era visione se non quella particulare di ciascuno, che si adattava come meglio poteva alle microvisioni dell’altro. A Ferrara ne è venuta fuori in quei due secoli, dal 1100 al 1200, una di quelle città così tipiche che piacciono tanto ai nostri contemporanei e alle riviste patinate del settore: borghi, borghetti o anche città medio grandi, che son solo l’ingrandimento per dieci e per cento dei borghi e borghetti, il tipico che piace nella nostra epoca, perché fa tanto medioevo.
La civiltà comunale italiana è da sempre tenuta in palma di mano come una delle prime forme di democrazia moderna, dove bisogna tener conto di tutti quasi alla pari, con il risultato che si vive all’insegna del primo vero laissez-faire della storia – se n’era accorto anche Marx, – forse uno dei primi equivoci tra libertà e democrazia.
La città rinascimentale, due secoli dopo, nasceva proprio all’opposto come iniziativa di un nuovo principe, nella fattispecie, a Ferrara, Ercole I d’Este, espressione alla lontana di oligarchie nate dal Comune stesso, un principe che governava da solo, in modo assoluto e in assenza totale di democrazia e non chiedeva permesso a nessuno delle sue scelte e poteva pianificare a piacimento secondo ciò che lo ispirava. Occupando anche tanto spazio in più e prevedendo persino i futuri sviluppi. C’era grande visione, specie se il principe era un illuminato e il lume è fondamentale per ‘vedere’ in avanti. E lasciamo perdere che la ‘visione’ fosse pro domo sua, concepita sui suoi bisogni e ispirata a scarsa concretezza e a piaceri effimeri. Tant’è che dentro quelle mura nasceva, viveva e scriveva nientemeno che il primo ideatore del genere ‘fantasy’ della letteratura italiana, Ludovico Ariosto, uno che aveva sicuramente ‘visione’.
E tutte le volte che le ‘visioni’ si potevano mettere alla prova dei fatti ciò è accaduto spesso in situazioni di assenza di democrazia, per come la intendiamo noi. E viceversa.
In una città come Venezia l’ultima volta in cui c’è stata visione vera, capace di espandersi e realizzarsi senza dover mediare, per esempio senza dover mediare, beati loro, con la salvaguardia della tradizione della città, ciò è accaduto in epoca fascista. Dalla fine degli anni ’10 per un ventennio si è potuto progettare e costruire la città su grande scala con scelte chiarissimamente rispondenti a un piano generale nella residenza, nella viabilità, nei trasporti, nella produzione materiale e immateriale, nella cultura, con in mente una cosa ben precisa: fare di Venezia una grande città integrata tra terra e acqua. Solo la seconda guerra, e si può capire, è inevitabilmente riuscita a troncare di netto la realizzazione completa di quella ‘visione’, che con la democrazia successiva e con le priorità economiche della ricostruzione non ha più avuto lo slancio per realizzare tutto il resto, per completare l’opera. L’opera incompleta fino ad allora realizzata in epoca fascista aveva ottenuto risultati diversamente valutabili, positivi (molti), negativi (alcuni, seppur gravemente negativi), con molte omissioni decisive, tutte conseguenze inevitabili quando si fanno scelte con ‘visione’, che è un atto che pur sempre precede il fatto concreto. Ma sicuramente avere pieni poteri per i protagonisti di allora, e si parla di Grimani, Foscari, Cini, Volpi, Miozzi, ha giovato alla “visione”. Fascistissimi tutti o quasi tutti (Grimani non fece a tempo ad esserlo, Foscari appena in tempo invece), potevano decidere a piacimento, ‘vedo’ e ‘faccio’. Merito del fascismo? Non proprio. Nessuna nostalgia ovviamente.
Ma è una mera constatazione quella che ci porta a dire che sicuramente l’esatto rovescio del fascismo totalitario, la democrazia per come l’abbiamo costruita noi, immette tali e tante complessità alle sue procedure che alla fine scoraggia qualsiasi ‘visione’, per la certezza che se va bene qualcosina si sarà anche forse realizzato, ma come frammento illeggibile.
Sarà un caso?
In democrazia poi si possono anche mettere in campo ‘visioni’, e ci vuole coraggio e forza d’animo per estenderle, sapendo che non è detto che si possano mettere in pratica. In più – “è la democrazia, bellezza” – si scontrano ‘visioni’ diverse, inghippo nell’inghippo, o comunque si scontrano punti di vista diversi, senza mai avere il conforto di potersi confrontare su basi oggettive e misurabili. Ognuno ha la sua, ritenendola l’unica, siamo all’autoreferenzialità allo stato puro. Questo perché nella medicina o nella fisica la scienza reputa di avere basi oggettive (e s’è visto di questi tempi neppure lì), mentre sul territorio riscontri appena appena scientifici neanche l’ombra nella testa della gente. Ovviamente ci sono e rigorosi, ma esistono “all’insaputa” di quasi tutti. Ognuno lo vede a modo suo il territorio, secondo la nemica numero uno della visione, la percezione.
((( Un inciso, un flash. Venendo ai nostri giorni, il dispiegarsi della democrazia nel nostro Nordest italico contemporaneo ha prodotto in politica una egemonia ininterrotta in piena continuità, socialmente accertata, democraticamente sorretta ed eletta ben s’intende, di Democrazia Cristiana – anni 50/80 – e Lega Nord – anni 90/22 – . Voti e non bruscolini eh, sessanta, settanta, ottanta per cento di maggioranze; e come conseguenza il record europeo di consumo di suolo: da Verona a Udine una sbrodolatura di casette e nanetti, capannoni e cemento senza ritegno, una lebbra che si autoriproduce senza speranza. E’ la proiezione contemporanea del democratico medio evo improntato al laissez-faire, un rosario di ‘zonette industriali’, concesse con benevolenza da democratici comunelli di 1000 abitanti, all’infinito, oggi ovviamente semivuote o, se si vuole proprio, semipiene. A volte si potrebbe invocare un Principe assoluto con ‘visione’ come nel Rinascimento; e poi si riflette che con percentuali bulgare di questo tipo il Principe già ci sarebbe. Peccato che lui la ‘visione’ ce l’ha, eccome, solo che coincide con l’anarchia dell’impresa individuale, siamo doppiamente fottuti, non basta neanche il Principe ))).
Non nego che nei primi ’90 a Venezia le giunte comunali di allora si siano messe alla prova ancora con ‘visioni’, guarda caso tacitamente ispirandosi in qualche modo – ma i protagonisti d’allora non lo ammetteranno mai – a quelle del ventennio . Eppure dovendo mediare con i partiti, con i comitatini di quartiere e con le idee balzane di chiunque alza la mano e soprattutto avendo a che fare con la demoburocrazia, hanno poi realizzato un decimo di quello che avevano teorizzato e con merito ‘visionato’. Un decimo pesante, lo riconosco, buono ancor oggi grazieaddio, ma un decimo.
Perchè ciò che poi sovrasta tutte le procedure e che con la democrazia, secondo logica, non dovrebbe c’entrare niente e anzi dovrebbe esserne nemica, è la burocrazia. Non posseggo le basi storiche per ricostruire come e perché il mostro burocratico abbia da decenni invaso la Repubblica Italiana. Resto sempre esterrefatto quando son costretto a prendere atto. Fatto sta che, pur essendo secondo logica contrari, burocrazia e democrazia hanno messo insieme quel ‘combinato disposto’ che uccide nella culla idee e visioni.
Confesso che quando i giornali ci snocciolano tutti gli ostacoli di natura procedurale che ostacolano la messa in atto di un progetto, dal buco dell’Ospedale di Mestre al Buco dell’Ospedale al Mare e via andando per i ‘buchi’, mi perdo subito alla seconda riga e non tengo il conto. Al riguardo confesso un’ignoranza profonda sul tema, forse dettata dal dispetto che tutto ciò mi provoca. Se poi ci si mettono anche le complicazioni giudiziarie, i fallimenti d’impresa, i lacci e lacciuoli che impediscono una lineare razionalità nel procedere, alzo bandiera bianca. Arrivo poi al limite dell’irritazione quando scatta il ricatto finale di qualsiasi possibilità realizzativa: il ricorso al TAR, sempre perché la democrazia è bella, e tutti possono continuare a ricorrere, praticamente all’infinito. La benemerita associazione Italia Nostra possiede credo un record al riguardo. In qualche raro caso anche con delle ragioni, credo, spero.
Ogni volta che penso a questa nostra democrazia penso che si sia messa il bavaglio da sola. Un tema che andrebbe bene per Ionesco, Beckett, Kafka o per il nostro caro nostrano Buzzati. La democrazia esiste formalmente – eccome no? – ma nella pratica ci troviamo peggio che in uno stato totalitario. In questa democrazia non si muove niente o, se si muove, è un bradipo che alla fine, quando fa realizzare qualcosa, ottiene il bel risultato che quella cosa è vecchia e in via di inevitabile superamento. E, se non è vecchia ed è ancora attuale, si trova affiancata da realizzazioni parziali e d’epoche diverse, risalenti a diverse visioni.
Allora cari soloni che predicate ‘visioni’ rendetevi un po’ conto che la vostra è un’esortazione che così espressa è totalmente inutile e serve solo a lavarsi la coscienza di averlo detto, sai che bravura. Senza minimamente domandarsi come procedere, se mai una visione, qualcuno di voi, soloni, l’avesse.
Oppure cominciate voi a dare l’esempio: esprimete la vostra ‘visione’ e cominciate l’iter – dai, vi aspetto -, tenendo conto di tutto, mi raccomando.
E soprattutto tenendo conto di un principio senza il quale la ‘visione’ non è tale (si possono avere principi , o no?).
Ed è questo: per esprimere una visione sul futuro del territorio urbano e regionale partite dalla fine, che a sua volta è generata da una necessaria premessa. La fine sono gli obiettivi generali che si vogliono raggiungere, ben chiari, espressi, e la premessa è ciò che idealmente ispira gli obiettivi e che non può star fuori dalle regole e dai valori che ci siamo dati come Repubblica. Le due cose sono intercambiabili, ma necessari. Prima l’una o poi l’altra cambia poco. Ma vanno insieme.
Poi fateci pervenire.