Compendio degli annessi e connessi
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9 Maggio 2020Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa analisi di SAVERIO SIMI DE BURGIS del quadro PLANET 2020 di Pierluigi Olivi, accompagnato dalla poesia narrativa di Francesca Ruth Brandes.
Orlando perse il senno sulla luna. Pierluigi Olivi all’interno della metafora poetica ma anche storico-artistica in chiave prevalentemente surrealistica, è ancora profondamente dentro questa immagine, anche se “i suoi bellissimi venefici fiori sono solo il dito che indica la luna”.
La poesia narrativa, in questo caso di Francesca Ruth Brandes, e la ricerca figurativa aggiornata alle nuove tecnologie di Olivi, seppur in termini differenti, ma tutto sommato convergenti, indicano una loro via. Non so se l’immagine di generico riferimento possa coincidere in toto con quella ariostesca, forse più con quella, sempre epico-cavalleresca, del solitario Don Quijote nelle svariate e imprevedibili situazioni che il mitico guerriero si appresta ogni volta a dover affrontare. Le mitologiche fatiche di Ercole, subiscono un’ulteriore declinazione di lettura che fortunatamente, con la chiave dell’ironia, riusciamo ad affrontare ancora degnamente. A questo punto mi sento di affermare che non solo la bellezza salverà il mondo, ma sicuramente anche la poesia e l’arte che con questa vanno a braccetto, ne saranno assieme le più autentiche protagoniste. Sì, perché, alla fine, la “gaia scienza” ci ha lasciato a terra, almeno per il momento. Nessuno poteva prevedere una situazione come quella attuale in cui un microrganismo così infinitesimale potesse scatenare una “peste” da contagio che improvvisamente, dall’oggi al domani, bloccasse tutto, causando così tante vittime e un disastro globale di tali dimensioni. Sembra davvero di essere tornati al 1348 o al 1630, i comportamenti restrittivi, le riflessioni su come affrontare la pandemia e come uscirne, come cambieremo il nostro futuro o come sempre blatera il populista politico di turno, su come riusciremo o meno a pagare i debiti nel frattempo maturati “ipotecando il futuro dei nostri figli”, fanno riemergere i tanto vituperati e, a dir di molti, oscuri e anacronistici periodi medioevali boccacceschi o barocchi di manzoniana memoria. Fra l’altro tra loro già vicini per molti aspetti analogici e comuni. Una storia che si ripete. Poi, con il solito conosciuto repertorio, si manifesterà l’incantesimo della scoperta che guarirà nuovamente, almeno per un altro lasso di tempo più o meno lungo, il mondo. D’altronde la poesia e l’arte hanno spesso indagato sul mistero della vita, anche quello del pensiero metafisico, tradotto in arte nell’astrazione, attraverso ciò che si dice e non appare, o di ciò a cui si fa pure riferimento ma non in termini così espliciti, oppure si dice sotto altre spoglie.
Così si incardina la poesia del viaggio di Dante nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso che nel mondo terreno non può che ritrovarsi ad avere significati metaforici e allegorici che siano. D’altronde le stesse immagini le ritroviamo nelle arti figurative. Nei soggetti escatologici dei Giudizi Universali, stupendo quello musivo di Santa Maria Assunta di Torcello, nei memento mori, “ricordati di morire”, delle Vanitas della storia dell’arte come quella meravigliosa Et in Arcadia ego del Guercino di Palazzo Barberini, preceduto dai tanti teschi presenti nei frequenti soggetti delle Crocifissioni su cui si dispera solitamente la Maddalena, o nelle varie ambientazioni meditabonde dei più svariati San Girolamo, o di altri ricorrenti mistici. Per non dimenticare le tombe, inizialmente presenti soprattutto nelle chiese. Celebre allusione a una tomba con sarcofago monocromo aperto in cui è evidente la descrizione di uno scheletro di un defunto, lo ritroviamo in Masaccio nella sua celebre Trinità di Santa Maria Novella, dove sono riportate le seguenti parole: “io fu’ già quel che voi siete, e quel ch’i’ son voi anco sarete”. Per non tralasciare la tomba di Antonio Canova ai Frari di Venezia, che si sta letteralmente sgretolando, e urge dei necessari salvifici restauri conservativi, contenente unicamente la reliquia, non di un santo, ma dello stesso cuore dell’artista di Possagno. Il monumento fu realizzato dagli allievi della sua scuola tra cui Giuseppe De Fabris distintosi poi per il progetto dei Musei Vaticani di Roma. Un motivo geometricamente semplice ed essenziale in cui i seguaci riprendevano il celebre monumento realizzato da Canova a Vienna per l’imperatrice Maria Cristina d’Austria, in cui ancora nel coevo tema affrontato da Ugo Foscolo nei suoi Sepolcri, nel comune viaggio dalla vita alla morte, gli autori comprendevano, nel processionale corteo che mestamente incede verso la porta buia dell’Oltretomba, un po’ tutti, non solo i vecchi, ma anche i più giovani, le donne e pure i bambini. Alla fine ci ritroviamo sempre di fronte all’inesplicabile dilemma del “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” come Paul Gauguin intitolò il suo celebre dipinto polinesiano, oggi al Museo di Boston, nel quale ha straordinariamente interpretato il soggetto, offrendoci l’immagine di un contesto paradisiaco che siamo solo in grado di poter ancora immaginare.
Credo che questo sia anche il messaggio che Pier Luigi Olivi voglia darci con il suo bel fiore stilizzato che asseconda una versione surreale e come un’amanita velenosa è bello solo da ammirare ma è altrettanto opportuno lasciarlo lì, senza nemmeno sfiorarlo e tenendoci alla debita distanza. Non ragioniam di lor, ma guarda e passa. Un invito a tante riflessioni in merito alle quali ciascuno cerca la sua spiegazione nel continuare, fatalisticamente o meno, a trovare le proprie indispensabili motivazioni esistenziali. I morti sono senza dubbio assai più numerosi dei vivi e nonostante non ci siano più, qualcuno rimane indelebilmente impresso dentro di noi, almeno finché ancora siamo su questa terra o, forse, in un futuro sulla luna. La ruota ciclica continua inesorabilmente a girare. Je est un autre, Io è un altro, amava ripetere il poeta veggente Arthur Rimbaud, forse anche siamo sempre più in tanti in uno soltanto.