PROGETTO EUROPA Se in Europa è ancora tempo di gastarbeiter
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4 Aprile 2024La Transizione ecologica in Europa si fonda su tanti documenti, direttive e ordini del giorno delle diverse Istituzioni ma ha avuto un particolare impulso e slancio con la predisposizione del NGEU (Next Generation European Union) che ha cercato, dopo la drammatica e inattesa esperienza del COVID, di rilanciare l’economia e la società europea verso un “nuovo modello di sviluppo sostenibile”.
Il NGEU è un piano straordinario da 800 miliardi e si concentra su due pilastri principali.
Il primo, e più rilevante sia in termini finanziari che di impatto generale, è il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (RRF) con un valore di 723,8 miliardi di euro che ha dato luogo in Italia al PNRR con una dotazione di circa 200 miliardi di euro. Fornisce sovvenzioni e prestiti agli Stati membri per finanziare riforme e investimenti in linea con le priorità europee, come la transizione verde e digitale.
Il secondo è il ReactEU con un pacchetto di 47,5 miliardi di euro a sostegno di misure immediate per la ripresa e si è concentrato particolarmente su settori colpiti dalla pandemia, come il turismo, la cultura e le piccole e medie imprese.
Il RRF è stato, e lo è ancora in fase attuativa, il primo vero passo dell’Unione per sostenere finanziariamente e politicamente, in prima persona come soggetto responsabile, l’avvio della costruzione di una Europa nuova dal punto di vista economico, sociale e ambientale.
L’altro grande “driver” della transizione ecologica, con particolare riguardo alla transizione energetica, è il Sistema delle Cop e delle risoluzioni in tema di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e della emissione dei gas climalteranti.
Le COP, o Conferenze delle Parti, sono 28 ad oggi. La prima si è tenuta a Berlino nel 1995, mentre l’ultima, la COP28, si è conclusa a Dubai il 13 dicembre 2023.
Ogni anno, le COP riuniscono i Paesi firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) per discutere i progressi compiuti nella lotta contro il cambiamento climatico e per negoziare nuovi accordi.
Particolarmente importate è stata la Cop di Parigi del 2015 che ha posto una serie di obiettivi sfidanti per il mondo. L’Italia ha sottoscritto l’Accordo di Parigi, impegnandosi a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi Celsius, puntando ad un aumento massimo di 1,5 gradi. Per raggiungere questo obiettivo, l’Italia con il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), che è un documento strategico che definisce la politica energetica e climatica a lungo termine, ha di fatto definito i seguenti obiettivi nazionali:
- Riduzione delle emissioni di gas serra-40% rispetto al 1990 entro il 2030.Net Zero entro il 2050.
- Aumento delle fonti energetiche rinnovabili:
30% del consumo energetico nazionale da fonti rinnovabili entro il 2030.
- Miglioramento dell’efficienza energetica
Riduzione del consumo energetico nazionale del 40% rispetto al 2007 entro il 2030.
Riduzione delle emissioni di gas serra:
-
Per raggiungere questi obiettivi l’Italia, come molti paesi in Europa e nel Resto del Mondo, si sono impegnati a sostenere forti e duraturi investimenti in fonti energetiche rinnovabili, come l’eolico e il fotovoltaico, la Promozione dell’efficienza energetica negli edifici e nei trasporti, lo Sviluppo di tecnologie a basse emissioni di carbonio e l’Adozione di politiche fiscali che favoriscano la sostenibilità ambientale.
Qualcosa è stato fatto, in qualche parte del mondo un po’ di più mentre in altre di meno, ma gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti sembrano ancora lontani dall’Accordo di Parigi e l’incremento della temperatura mondiale si sta attestando su una tendenza ben oltre l’1,5 gradi di programma. E gli effetti del cambiamento climatico si stanno già abbattendo sulle comunità e sui territori del mondo con impatti di particolare criticità specialmente sulle tematiche del ciclo dell’acqua e su altri fenomeni, più localizzati ma non meno critici, come le ondate di calore, gli incendi, i venti e gli uragani.
Un altro strumento di impulso e di monitoraggio delle politiche di sostenibilità nel mondo è il sistema degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile adottato da tutti i membri delle Nazioni Unite nel 2015.Questo sistema pone ai Governi nazionali un insieme di 17 obiettivi globali. i Sustainable Development Goals (SDG), per porre fine alla povertà, proteggere il pianeta e garantire la prosperità per tutte le persone entro il 2030. Si tratta di obiettivi che perseguono un concetto “ampio” di sostenibilità che spazia. oltre le tematiche ambientali, anche su quelle economiche e sociali che sono al centro dell’attenzione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dei trattati internazionali sui diritti umani.
I 17 SDG si concentrano su questioni critiche come la Povertà, la Fame, la Salute, l’Istruzione, l’Uguaglianza di genere, l’Acqua pulita e servizi igienico-sanitari, l’Energia pulita e accessibile, il Lavoro dignitoso e crescita economica, le Imprese, innovazione e infrastrutture, la Riduzioni delle disuguaglianze, le Città e comunità sostenibili, il Consumo e produzione responsabili, il Cambiamento climatico, la Conservazione degli oceani e dei mari, la Protezione della biodiversità terrestre, la Pace, giustizia e istituzioni forti, il Partenariato per gli obiettivi. Tutti questi obiettivi sono monitorati e sottoposti a misurazione attraverso indicatori concordati. E in tal modo si dà ai Governi e alle opinioni pubbliche, la possibilità di capire il verso e la profondità del cambiamento di ogni paese verso lo stato generale di sostenibilità.
In Europa la transizione ecologica, che si accompagna giustamente alla transizione energetica e digitale, è quindi presidiata da più strumenti programmatici di livello europeo e di livello mondiale che poi si riversano sul livello nazionale dando obiettivi, programmi e risorse finanziarie.
Ci sono tre grandi aree di interesse e quindi di intervento nel processo di transizione ecologica. Il primo, di grande importanza per i riflessi sul cambiamento climatico, è quello relativo all’Energia. Occorre trasformare in maniera drastica il paniere delle fonti energetiche, sottopesando nel tempo fino all’annullamento, le fonti fossili e incrementando in maniera esponenziale le fonti rinnovabili a bassa o nulla emissione di gas climalteranti. Occorre rendere più efficiente il consumo di energia cercando di disaccoppiare la crescita del Pil con la crescita del consumo energetico. Ed occorre infine spostare sull’elettrico una parte importante dell’utilizzo energetico nel campo della mobilità e della conduzione degli edifici. Si tratta di tre “manovre” non semplici, che richiedono forti investimenti e che non possono essere supportate da “approcci semplicistici” che rischiano, se non governati, di “fermare la vecchia macchina del paese” senza ancora avere una spinta adeguata “del nuovo motore”.
Di particolare criticità appare in Italia la capacità di investire sulle fonti rinnovabili e sui necessari e complementari strumenti di accumulazione in un contesto in cui l’energia si produce quando la natura lo permette e non quando il sistema ne ha bisogno. Per di più appare a molti discutibile non includere nella strategia energetica del paese la fonte nucleare che per i prossimi 40 anni, almeno, non sarà da fusione ma può già disporre di impianti di terza e poi, entro una decina di anni, di quarta generazione con meno scorie e più sicurezza. Ci sono poi notevoli ritardi nella elettrificazione dell’utilizzo energetico in particolare nell’area della mobilità ed infine appare ancora troppo “sussidiato”, e quindi troppo dipendente da risorse pubbliche, l’efficientamento energetico degli edifici. Che potrebbe trovare, per esempio nell’uso della geotermia a bassa entalpia e quindi in un maggiore sviluppo delle pompe di calore, la via per rendere meno energivora la climatizzazione degli edifici. In particolare, nella condizione climatica attuale che spinge ad un forte utilizzo di energia in estate per la refrigerazione interna degli edifici a fronte di temperature esterne crescenti e spesso molto al di sopra delle medie stagionali.
L’altra grande area di intervento è relativa agli effetti del cambiamento climatico sui territori e sulle comunità. In questo caso non si tratta di “mitigare” il cambiamento quanto piuttosto di “adattarsi” agli effetti che questo processo produce già oggi e che produrrà con maggiore frequenza ed intensità nel prossimo futuro. Tanti sono gli aspetti della vita quotidiana che sono impattati dal cambiamento climatico. Ma i più importanti, che già oggi incidono in maniera visibile, riguardano l’acqua, la temperatura e il vento.
L’acqua è il tema centrale che dovrebbe essere al centro delle politiche di adattamento. Il primo problema riguarda l’innalzamento del livello dei mari, con gli effetti di inaridimento delle coste, di criticità delle presenze urbane e infrastrutturali costiere, di intrusione del cuneo salino nelle falde e altri fenomeni di questa portata. Quindi si registra il problema della troppa acqua che, sia attraverso flash flood urbani, sia attraverso esondazione di fiumi e laghi e sia attraverso piogge intense e continue causa alluvioni e, con particolare virulenza in Italia, frane diffuse in gran parte del territorio montano e collinare. E poi ci sono i fenomeni, non nuovi per presenza ma nuovi per frequenza e intensità ed anche geografia, di poca acqua ovvero di siccità che a volte si susseguono non solo episodicamente per un anno ma anche per più anni di seguito.
La temperatura, con le ondate di calore sempre più devastanti all’interno delle città che non sono attrezzate a disperdere il calore con opere di vegetazione o altri accorgimenti ecologici, il vento che nel mediterraneo ha fatto coniare il nome a fenomeni un tempo inesistenti, come i medicane, cioè hurricane del mediterraneo, e gli incendi che si moltiplicano per numero e forza di distruzione per l’effetto congiunto vento/temperatura, sono i fenomeni più critici indotti dal cambiamento climatico in atto.
I fenomeni connessi alla gestione del ciclo dell’acqua, in particolare il dissesto idrogeologico e la siccità, richiedono per essere affrontati un trattamento “olistico” della risorsa e del suo ciclo.
Tanti sono gli utilizzi dell’acqua, sia quelli antropici che quelli ecosistemici, e tanti sono gli utilizzatori e i soggetti competenti sulla gestione della risorsa. Il primo strumento, come peraltro messo in evidenza dal SDG 6.5.1, è “l’Integrated water resources management implementation” cioè la governance unitaria dell’acqua. Si tratta di avere un modello con un soggetto unico centrale che dialoga con i nodi di una rete centrale territoriale diffusa attraverso poteri e capacità di emettere linee guida e con un Piano generale e un sistema di Monitoraggio trasparente in grado di dare informazioni sulla policy in maniera corretta, diffusa, in tempo reale e open. I nodi regionali della rete non possono che essere i Presidenti delle Regioni nella duplice veste di Commissari di Governo e Governatori di Regione. Ovviamente l’esistenza di un Piano generale richiede un modello di governance, efficace dal punto di vista operativo (dal progetto al collaudo di un’opera), la disponibilità di risorse adeguate e traguardate al lungo periodo (almeno 150 miliardi in dieci anni) e la riscrittura di regole, competenze e poteri per rendere il tutto più semplificato, senza sovrapposizioni e con chiare attribuzioni di responsabilità fra cui quella della sostituzione per incuria e inadempienza da parte del soggetto centrale che ha in mano il coordinamento di tutto il sistema. Insomma, il tema acqua, che diventerà sempre più critico con il rafforzamento degli effetti sulla Terra del cambiamento climatico, richiede, a partire da oggi e non da domani, una strategia di attacco di lungo periodo. Ci sarebbe, dal punto di vista Istituzionale, lo strumento per dare la cornice a questo impegno. Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) che ha fra i propri compiti specifici proprio quello della riduzione della vulnerabilità alle diverse tipologie di rischio climatico. Ma la sua recente presentazione da parte del Mase (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica) ha messo in evidenza l’estrema debolezza di uno Strumento che è tutt’al più un Documento di approfondimento tematico e che non ha niente a che vedere con un Piano strategico mancando di Governance, di Risorse finanziarie e di un Sistema open di monitoraggio attivo, cioè di un sistema che controlla, interviene in caso di inadempienza e rende tutta l’informazione in “real time” trasparente all’opinione pubblica.
Infine, la terza area di intervento, è la costruzione di una economia circolare come risposta di lungo periodo ad una economia dissipativa delle risorse naturali caratterizzata dalla produzione di alti livelli di rifiuto piuttosto che di diffuse pratiche di riuso e recupero delle materie prime utilizzate nel processo produttivo e di consumo.
L’Italia si è data nel 2022 una Strategia nazionale per l’economia circolare che ha finanziato, come primo passo verso un sostegno di lungo periodo di questa trasformazione, con 2,2 miliardi nel PNRR.
La strategia fa perno su due SDG dello sviluppo Sostenibile e cioè l’11 e il 12. In particolare, l’obiettivo 11.6 che sancisce che “Entro il 2030, ridurre l’impatto ambientale negativo pro-capite delle città, prestando particolare attenzione alla qualità dell’aria e alla gestione dei rifiuti urbani e di altri rifiuti”.
E quindi il 12.2 che prevede che “Entro il 2030, raggiungere la gestione sostenibile e l’utilizzo efficiente delle risorse naturali” e il 12.5 esplicitamente richiama il ciclo dei rifiuti proiettato verso modelli di economia circolare
Sono stati individuati a tal scopo tre sistemi di indicatori per seguire l’avanzamento della strategia:
l’indicatore 11.6.1 – Percentuale di rifiuti solidi urbani regolarmente raccolti con un adeguato
conferimento finale sul totale dei rifiuti prodotti in città; l’indicatore 12.4.2 – (a) Rifiuti pericolosi prodotti pro capite; e (b) percentuale dei rifiuti pericolosi trattati, per tipo di trattamento e quindi l’indicatore 12.5.1 – Tasso di riciclaggio nazionale, tonnellate di materiale riciclato.
In questo caso è presto per capire se l’avvio di tale processo abbia cominciato già a produrre effetti sul sistema produttivo e di consumo. L’Europa, e anche l’Italia, appare sicuramente impegnata a creare una nuova cultura fra i produttori e i consumatori tesa a contrastare l’ideologia dell’usa e getta e a supportare le pratiche del riuso, del recupero delle materie prime, anche con la concettualizzazione efficace delle materie prime seconde, e della differenziazione dei rifiuti per successivi utilizzi al fine di evitare conferimenti in discarica. Per quanto riguarda invece l’utilizzo dei rifiuti ad uso energetico occorre uscire, in particolare in Italia, da un approccio limitativo che non trova riscontro in nessuna parte d’Europa.
Come nel caso della transizione energetica occorre evitare le “fughe in avanti”. È certamente importante che l’Europa e l’Italia si sentano in prima linea, in termini di regolazione e innovazione, nella definizione e quindi nell’attuazione dell’economia circolare. Ma nel fare questo occorre accompagnare e supportare il sistema produttivo e non contrastarlo, in una sorta di demonizzazione dell’esistente, con regole di difficile attuazione e con obiettivi eccessivamente sfidanti. Lasciando ai sistemi produttivi del resto del mondo di continuare con pratiche e processi “arretrati” ma in grado di sfidare in termini di costo l’economia europea. Cioè, di rafforzare, a proprio vantaggio, il “dumping ambientale”.
In conclusione, si può affermare che la Transizione ecologica pone obiettivi sfidanti per l’Europa ed in particolare per l’Italia che ha un sistema produttivo e un sistema istituzionale meno avanzato da questo punto di vista, cioè del governo dell’innovazione, rispetto agli altri pesi del continente.
Obiettivi sfidanti che necessitano di tre grandi linee di azione. La prima è quella della regolazione e delle norme di contesto. Regolazioni e norme che si contraddicono, solo parziali e che distribuiscono compiti e competenze in maniera diffusa e non organica non sono di supporto all’innovazione ma piuttosto al mantenimento dello status quo. La seconda è quella degli investimenti. Il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, il Piano di transizione energetica e il Piano per l’economia circolare richiedono forti investimenti pubblici e anche privati a partire da oggi per i prossimi decenni. E richiedono governance forte, risorse finanziarie adeguate e sistemi di controllo evoluti. Con le scorciatoie, le parzialità e le piccole spese non si va da nessuna parte. Infine, last but not least, c’è la tecnologia e l’innovazione. Nessuno pensa che la tecnologia salverà da sola il mondo, anche perché lasciata da sola senza controlli e regole, può anche fare danni. Ma è certo che dalla scienza e dalla tecnologia applicata ai tanti problemi ambientali, forse in primis l’eccesso di co2 in atmosfera, verranno tante soluzioni. L’Europa e l’Italia devono stare in prima fila nel mondo in campo scientifico e tecnologico. Sarà dal successo di questa strategia che dipenderà in buona parte il futuro geopolitico e geoeconomico dell’Europa.